martedì 28 aprile 2020

THE BAKER AND THE BEAUTY: una rom-com leggera

Sono partita totalmente prevenuta nei confronti di The Baker and the Beauty, la commedia romantica sviluppata per la ABC da Dean Georgaris sulla base di una serie israeliana di enorme successo, Lihyót  Itáh, ideata da Assi Azar (e disponibile su Amazon Prime con il titolo The Baker and the Beauty). Pensavo che avrei guardato il pilot per liquidare il programma come una scemenza mielosa e cheap per ragazzetti. E invece già dalle prime battute mi sono ricreduta. Si prospetta come una storia d’amore che vuole iniettare un pizzico di magia in un contesto molto realistico.

Daniel Garcia (Victor Rasuk) è un fornaio-pasticcere di origine cubana che lavora presso il negozio di famiglia, Rafael’s Bakery, insieme a papà Rafael (Carlos Gómes) e mamma Mari (Lisa Vidal), che hanno un matrimonio felice, al fratello minore Mateo (David Del Río), che lavora anche come DJ con il nome di MC Cubano, e alla sorella adolescente Natalie (Belissa Escobedo), che fatica a legare con i coetanei. Daniel è fidanzato da quattro anni con Vanessa (Michelle Veintimilla), ma è incerto sulla loro relazione. Nel bagno di un ristorante incontra per caso Noa Hamilton (Nathalie Kelley), una famosa modella e imprenditrice australiana. Quando Vanessa propone a Daniel di sposarla e lui la rifiuta, Noa, delusa da una recente separazione, lo invita a unirsi a lei per la serata e si offre di realizzare tre dei suoi desideri. Lewis (Dan Bukatinsky, Scandal), il manager di lei, cerca di proteggerne l’immagine, ma è evidente che fra i due c’è un’intesa fuori dal comune.
  
Forse anche per ampio uso di parlato spagnolo, accanto all’inglese in originale, ma si ripensa a Jane the Virgin, così come vengono in mente anche Crazy Ex-Girlfriend (specie con la ex di lui che è quella che ci fa la figura peggiore) e Cenerentola (con un riferimento nella diegesi), anche se il titolo fa naturalmente pensare alla Bella e la Bestia, e la sorella di lei, nel casting quanto meno, richiama Euphoria.

È una rom-com leggera, con un pizzico di humor e qualche battuta fin troppo seria, sullo sfondo di Miami – in realtà il pilot è girato ad Atlanta e il seguito delle puntate a Puerto Rico - che riesce a costruire bene la relazione fra i due personaggi mostrando che cosa li attragga reciprocamente: lui è un bravo ragazzo che ama la famiglia e vuole fare la cosa giusta e che crede nei sentimenti, lei non teme di fare brutta figura buttandosi in nuove avventure ed è aperta a conoscere le persone, stanca a volte della vita sotto i riflettori. La distanza economica e di stili di vita rappresentano un ostacolo concreto. È uno dei più abusati dei tropi romantici, ma dal pilot ci sono delle buone premesse perché i protagonisti restino sempre più ammaliati e vinca il vero amore.

martedì 21 aprile 2020

DEVS: un thriller fantascientifico deludente


ATTENZIONE SPOILER. La concezione filosofica esplicitamente dichiarata nella diegesi di Devs (dell’americana Hulu) è il determinismo: non esistono eventi casuali, niente si verifica senza una ragione, ma tutto è determinato da qualcosa di precedente. “La vita è solo qualcosa che vediamo dipanarsi, come un film su uno schermo” (1.08). Il libero arbitrio è un’illusione.

Sulla base di questo principio, Forest (Nick Offerman, Parks and Recreations), CEO di una società chiamata Amaya, il nome della figlioletta morta prematuramente in un incidente d’auto, ha creato un misterioso, segretissimo progetto noto appunto come DEVS. Lui è come un messia, tanto che in realtà, come confessa in chiusura quel DEVS è da intendersi come DEUS, in realtà. Dichiara che non gli frega niente della sicurezza nazionale, trova che destinare risorse alle biotecnologie sia uno spreco, e che la fusione fredda sia l’equivalente dell’alchimia. Il suo è un obiettivo ben più ambizioso: grazie all’uso di computer quantistici vuole riuscire a visualizzare momenti del passato e del futuro (anche se per quest’ultima cercano di imporsi di non farlo). In parte ci riescono – individuano Cristo sulla croce (1.02) -, ma è tutto sgranato. A condividere il suo sogno c’è la progettatrice Katie (Alison Pill, Picard). E in questo reparto segretissimo dell’azienda lavorano anche l’anziano Stewart (Stepehn McKinley Anderson) e il giovane Lyndon  (Cailee Spaney – sebbene il personaggio sia un maschio, a interpretarlo è un’attrice ventiduenne, ma devo dire che se non lo avessi letto, non lo avrei mai capito sa sola, non me ne sono accorta alla visione). Quando l’ingegnere Sergei (Karl Glusman) viene ucciso da Forest, subito dopo essere stato assunto, perché voleva spifferare tutto al governo russo, la fidanzata di lui Lily, (Sonoya Mizuno), la principale protagonista, vuole andare a fondo di quanto accaduto. Per aiuto si rivolge al suo ex, Jamie (Jin Ha).

La serie è molto accattivante sul versante della cinematografia, della musica ipnotica pseudo-religiosa, e dell’uso del vuoto sia fisico che verbale nelle interazioni lente e pacate fra i protagonisti, già una cifra stilistica dell’ideatore, sceneggiatore  e regista Alex Garland nel suo film di maggior successo, Ex-Machina, che si evoca facilmente insieme a un pizzico di Westworld, Mr Robot, Osmosis e Counterpart. La recitazione è volutamente fredda, distaccata, mono-tonale, con i personaggi spesso persi a guardare nello spazio davanti a sé. Tutto è molto serio. C’è un mood di fondo molto specifico che lo fa percepire come un prodotto d’autore. Il problema per cui alla fine però delude è che è narrativamente e psicologicamente troppo grossolano.

La trama è forte e ben strutturata, ma rimane la sensazione che si sia “slongata la broda” di quello che, con il taglio del superfluo, sarebbe potuto essere un film, invece di una miniserie. La storia spionistica, anche con un finto senzatetto, Pete (Jefferson Hall), che osservava le vite di Lily e Sergei, era posticcia; le torture dell’addetto alla sicurezza Kenton (Zach Grenier, The Good Wife) inutili e inconcludenti. Ci sono stati passaggi di dialogo di cui vergognarsi. Alla fine della prima puntata l’ex di lei fa un lungo monologo in cui in pratica spiega per filo e per segno che cosa era capitato fra loro: è stata così smaccatamente pedestre che perfino io sarei riuscita a scrivere di meglio.

La conclusione lascia contenti a metà. Lily, a cui è stato mostrato il futuro, commette, a detta di Katie, il peccato originale, quello della disobbedienza, scegliendo di agire contro le previsioni. Sembra un momento “eureka”, ma se fosse stato così semplice non lo avrebbe fatto prima qualcun altro? Loro stessi non ci avrebbero provato almeno? Sembra poco credibile. Poi però, tutto si conclude comunque come da previsione. Strutturalmente mostrare a noi quello che è considerato inevitabile per poi inserire un atteso colpo di scena che in definitiva viene smontato dal fatto che gli eventi hanno comunque la conclusione anticipata è stato ben costruito. E la scelta terminale di una simulazione della realtà da parte del sistema operativo che si qualifica come una “resurrezione” dei protagonisti morti è appagante a sufficienza.

Se dico che è psicologicamente grossolana è perché se da un punto di vista della fisica quantistica viene messa in campo la teoria di De Broglie-Bohm e possibili critiche (l’esistenza di un multiverso, ad esempio), mostrando anche che se ne discute in un’aula universitaria, in campo di psicologia nemmeno ci si prova ad accennare a un paradigma non meccanicista. Vista la soluzione ultima per mettere in crisi il modello, forse una qualche lettura di base in campo psicologico-psicoterapico valeva anche la pena farla. Invece di ripeterci di continuo l’assunto di base, qualche argomentazione filosofica contraria in più, anche di tipo non specialistico, poteva essere abbozzata. Con la “scusa” del determinismo si azzera anche ogni interrogativo morale ed etico, che sia Forest che ammazza Sergei o Katie che istiga al suicidio Lyndon.

C’è un’ambizione intellettuale di fondo, che vuole indagare quesiti essenziali nella storia umana, ed è stimolante riflettere su quanto si mette in campo, ma alla fine questo thriller fantascientifico non ha lo spessore sufficiente per sostenere la ricerca oltre la premessa di base.  

lunedì 13 aprile 2020

EVIL: il paranormale declinato dai King



Ideato dai coniugi King (The Good Wife, The Good Fight, Braindead), Evil, dell’americana CBS, si addentra in un territorio in parte nuovo per la coppia, quello dei fenomeni paranormali, e se il risultato non è ai livelli di apice a cui ci hanno abituato, nondimeno si riconosce il loro stile e traspare uno spessore molto in sintonia con le loro corde e forse inusitato al genere.

Kristen Bouchard (Katja Herbers), una psicologa forense di New York, viene assunta da David Acosta (Mike Colter, The Good Wife) un aspirante sacerdote cattolico, per indagare su fenomeni paranormali e di possessione allo scopo di stabilire se siano veri o meno. Insieme a loro lavora anche Ben Shakir (Aasif Mandvi), un esperto di tecnologia. Lì dove David è il credente, Kristen e Ben gli fanno da contraltare come scettici pronti da dargli delle spiegazioni scientificamente fondate. Molti fenomeni hanno spiegazione, ma tanti altri no. Nel corso delle loro indagini Kristen si scontra con il viscido, minaccioso dottor Leland Townsend (Michael Emerson, Lost, Person of Interest), un esperto di occulto che ha connessioni con forze demoniache e che spinge gli altri a commettere azioni malvage. Si avvicina pericolosamente alla quattro figlie di Kristen, che lei cresce sola in assenza del padre via per lavoro, e stringe una relazione con la madre di lei, Sheryl (Christine Lahti).

Le puntate sono genericamente autoconclusive incapsulate in una trama orizzontale di sottofondo, vaga ma che via via che si procede si fa più pregnante (alla maniera già usata nelle precedenti creazioni dei King), con una accattivante mitologia (una mappa con simboli demoniaci, una veggente che parla per Dio, i “60”, il simbolo della capra, videogiochi che portano al limite della realtà…). La forza maggiore del programma sta nel riuscire a mantenere un buon equilibrio di scienza vs. miracoli, fra fede e sospetto, fra razionale e irrazionale in un modo che non si prende gioco dell’intelligenza dello spettatore, ma facendo leva sull’autosuggestione, così come questa coinvolge i protagonisti. La sensazione di minaccia è pressante, sublime e godibilissima quando è in scena Michael Emerson, che sa essere creepy come pochi, ma si crea anche attraverso altri canali, in primis attraverso le paure dei protagonisti che prendono una vera a propria forma: nel caso di Kristen si tratta del mostro George, tanto umoristico quanto minaccioso e obbrobrioso, e che emerge nei suoi incubi portando alla luce quelle preoccupazioni che la mente razionale tiene sedate.

Si riflette su concetti come la manipolazione, la superstizione, le teorie cospiratorie e si riesce in modo indiretto a fare delle riflessioni sulla natura del bene e del male e su come potenzialmente nascono e si sviluppano concetti distruttivi – penso alla mirabile storia di misoginia sviluppata con un personaggio secondario, attivamente spinto da Leland per propri fini a odiare le donne e a compiere atti di terrorismo (con una conclusione inaspettata e ottimale), o anche al mettere in bocca a un personaggio così subdolo e maligno frasi come “la gentilezza è ipocrisia”. Si fa proprio un lavoro di cesello nello screditare i veri mali della quotidianità, nella confezione di storielle sovrannaturali molto easy.

Alla prima stagione di 13 episodi, i cui titoli contengono sempre un numero, farà seguito una confermata seconda stagione.  

venerdì 3 aprile 2020

STAR TREK: PICARD: sulla perdita e la memoria


SPOILER NEL PRIMO PARAGRAFO. In Star Trek: Picard (Amazon Prime), l’ammiraglio Jean-Luc Picard (Patrick Stewart) è ormai in pensione e trascorre il suo tempo fra i vigneti della sua tenuta in campagna, consapevole che non gli rimane molto da vivere a causa di un problema cerebrale. Una giovane donna, Dahj (Isa Briones) si rivolge a lui per aiuto e scoprono che si tratta di un androide biologico creato dal dottor Bruce Maddox sulla base del cervello positronico del comandate Data, cosa che la fa considerare sua “figlia”. Quando viene uccisa, l’anziano ufficiale mette insieme una squadra per cercare di salvare almeno la sorella gemella di Dahj, Soji, che rischia la stessa sorte: Cristobal “Chris” Rios (Santiago Cabrera) è un esperto pilota che viene assoldato insieme alla sua nave, La Sirena; la dottoressa Agnes Jurati (Alison Pil, Devs), che ha lavorato con Maddox, è la maggiore esperta di intelligenza artificiale; Rafaella “Raffi” Musiker (Michelle Hurd) è una ex-ufficiale della flotta stellare che in passato aveva lavorato con JL; Elnor (Evan Evagora) è un esperto di combattimento salvato da bambino dall’ammiraglio. Il loro obiettivo è salvare Soji, che inizialmente vive su un cubo Borg conosciuto come l’Artefatto, dove si cerca di recuperare all’umanità gli ex-Borg, che è presa di mira dai Romulani (nello specifico dalla Zhat Vash, una sorta di antica fazione della Tal Shiar, la loro polizia segreta), che vogliono distruggere ogni forma di intelligenza artificiale perché ritengono che saranno altrimenti la causa della fine del mondo biologico: vedono in Soji la Distruttrice. Per cercare di carpirle informazioni e spiarla diventa suo amante il romulano Narek (Harry Treadaway, Penny Dreadful).

In 10 puntate sviluppate con una narrazione orizzontale ad arco, senza puntate verticali autoconclusive, le vicende della più recente aggiunta al franchise ideato da Gene Roddenberry si basano sui personaggi di ST: The Next Generation, ma sono ugualmente seguibili da chi non avesse familiarità con il canone. Lo dico con cognizione di causa, perché sebbene l’originario Star Trek fosse quasi una religione per me e abbia seguito Enterprise e Discovery, sono digiuna di Deep Space Nine e Voyager e ho solo scarsa familiarità con STTNG. La comparsa come guest star (Riker, Data, Seven of Nine, Deanna Troi) è una chicca per gli aficionados, ma non crea ostacoli agli altri.

Le chiavi di lettura della prima stagione, che si è chiusa lo scorso 26 marzo, sono state principalmente due, per me. La prima è una citazione in bocca s Soji in “The End is the Beginning” (1.03) che incontra una ex-B (una ex-borg cioè). È affascinata dal fatto che i romulani possano creare una mitologia, una “struttura narrativa comune per capire il loro trauma, radicata in archetipi profondi, ma rilevante quanto le notizie del giorno”. “È proprio quello che spero di fare io”, dice, e se non sono queste parole con un significato metatestuale che rivelano la poetica degli autori, non so quali possano esserlo.

La seconda chiave di lettura si intreccia con la prima. Showrunner di questa serie, ideata insieme a Alex Kurtzman, Kirsten Beyer e Akiva Goldsman, c’è nientemeno che Michael Chabon, vincitore del Pulitzer per Le fantastiche avventura di Kavalier & Clay. Ha scritto sul New Yorker (11 novembre 2019) una saggio di storia personale, The Final Frontier, in cui racconta del suo rapporto col padre morente, poi scomparso, con il quale condivideva la passione per la serie. Questo ha informato, come lui stesso ammette, la sua scrittura di questi episodi dove la mortalità e la perdita si rincorrono come temi musicali. Insieme a quello della memoria, mi pare. Nella season finale questo è particolarmente evidente.

Non condivido la posizione del Guardian che giudica questa incarnazione come pessimista. Non è più una Federazione che non commette errori, ma se l’istituzione è imperfetta, i rapporti di lealtà e amicizia fra le persone e di valore umano rimangono una forza trasformante positiva e ottimista. Quello che è vero è che, così come in Discovery, non c’è più uno Star Trek che è un viaggio conoscenza, alla ricerca di nuovi mondi e nuove civiltà, ma uno che fa esperienza delle stessa ansia cui ci hanno abituato molte altre serie – da Black Mirror ad Äkta Människor, o Humans, da Battlestar Galactica a The Orville (la più fedele allo spirito originario di Roddenberry) – ovvero quella per il timore che la tecnologia ci sfugga di mano con la creazione di robot umanoidi così evoluti e perfetti da sopraffarci. Ma proprio in “Et in Arcadia Ego – Part II” (1.10) si vede l’ottimismo della consapevolezza che è sempre questione di scelte e la paura non deve essere ciò che ci guida.

Sono rimasta appagata da Picard, anche per come è riuscito ad esporre in modo sufficientemente lineare una mitologia molto ricca e complessa. Non ne sono forse uscita esaltata, ma ho apprezzato pur nell'incalzare avventuroso degli eventi il tono pacato, intellettuale e gentile che si collega al personaggio interpretato dall’ormai 79enne Stewart, e che qui di fondo pervade l’intero racconto.    

Per la prevista seconda stagione posso solo dire: engage (attivare).