giovedì 30 dicembre 2021

LA LISTA DELLE LISTE dei migliori programmi del 2021

Ogni anno, Metacritic stende una lista delle liste dei migliori programmi dell’anno, unendo le scelte di vari, numerosissimi critici televisivi. La aggiorna di solito fino a fine gennaio, quindi la lista sarà soggetta a variazioni ancora per un po’.  La trovate qui, e sotto trovate lo screenshot delle prime 20 posizioni al momento del mio scrivere.

Come tutte le liste lascia il tempo che trova, ma questa l’ho sempre trovata particolarmente indicativa perché è uno “sforzo di gruppo” per così dire, e perché comunque queste graduatorie possono dare degli spunti.

Io da brava critica sono convinta che il nostro lavoro abbia un senso e un valore per la società, perché per certi versi il pensiero è tutto, e nulla impatta di più il modo di pensare dell’arte, delle narrazioni e rappresentazioni che facciamo di noi stessi. Vedere che cosa è apprezzato e considerato rilevante è perciò significativo non perché si indica cosa ci si gode di più in una forma di intrattenimento piuttosto che in un’altra (anche se anche questo ha il suo peso), ma perché si riflette sulla condizione umana, su chi siamo e su chi vogliamo essere e forse ci dà delle indicazioni su dove perseverare e su come cambiare quello che non ci piace.   





giovedì 23 dicembre 2021

LE MIGLIORI NUOVE SERIE del 2021, secondo me

Anche quest’anno abbiamo avuto TV ghiottissima, basti pensare a programmi come Succession, The Great, o Ted Lasso, in assoluto fra i miei preferiti dell’anno, qualitativamente eccellenti. E se amate quest’ultimo non lasciatevi sfuggire lo short natalizio animato uscito a sorpresa per le feste: qui.

Nel mare sempre più magnum delle produzioni televisive, come ogni anno però mi focalizzo su quelli che secondo me sono stati i migliori debutti. Di quelli su cui non ho già scritto, conto di farlo in futuro. Eccoli di seguito, senza un ordine particolare:

 

It’s a sin: l’AIDS che colpisce la comunità gay negli anni ’80 riceve il toccante, trascinante trattamento di Russell T. Davies, con cui non si sbaglia mai. Ne ho parlato qui.

Squid Game: il brutale, appassionante fenomeno dell’anno. Leggetemi in proposito qui.

The White Lotus: il privilegio sezionato con ferocia e umorismo cringe da Mike White. Ne ho scritto qui.  

La Ferrovia Sotterranea: il Radici della nostra generazione. Qui.

Only Murders in the Building: tre appassionati di podcast cercano di risolvere un omicidio verificatesi nel proprio condominio. Sarà uno dei miei prossimi post.    

Maid: una miniserie su una giovane madre che scappa da una situazione di abuso e lavora come cameriera per mantenere sé e la figlia, sognando di diventare scrittrice.

Hacks: una comica anziana e una giovane devono imparare a lavorare insieme. 

Reservation Dogs: adolescenti Nativi americani in Oklahoma commettono piccoli crimini, o cercano di sventarli, nella speranza di guadagnare il necessario per andarsene in California. 

Resident Alien: probabilmente non finirà nella lista delle migliori serie di nessuno, ma io l’ho trovata troppo spassosa per non menzionarla. Un alieno che dovrebbe distruggere l’umanità si fa passare per un medico, con risultati esilaranti: qui.  


Una menzione onorevole per me la meritano:

Industry: neolaureati ora impiegati nel mondo dell’alta finanza. Sono sorpresa che non abbia avuto più risonanza, perché mi ha colpita su più livelli. Ne ho scritto qui.   

The Wilds: l’aereo di un gruppo di adolescenti precipita su un’isola deserta e devono imparare a cavarsela da sole. Non sanno che è un esperimento. Ne ho parlato qui.

Generat+ion: adolescenti della comunità LGBTQ+ crescono. Ha margine di miglioramento, le recensioni sono tiepide, ma anche solo avere un personaggio asessuale per me è un pro. Continuerò a seguirlo. Ho recensito la prima metà della stagione qui.

Ho dimenticato qualcuno? Schmigadoon (qui)? WandaVision (qui)? Forse Yellowjackets (di cui hi visto troppo poco per sbilanciarmi)?    Non ho visto We Are Lady Parts o Mare of Easttown, ma se ne dicono cose buone.

E voi? Quali pensate siano le migliori serie che hanno debuttato nel 2021?

mercoledì 15 dicembre 2021

AND JUST LIKE THAT: il sequel di "Sex and the city"

Ho proprio pianto alla fine della prima puntata di And just like that… (che tradurrei “E in un attimo…”), sequel della iconica Sex & The City. L’ho seguita tutta in passato, e apprezzata su più livelli, ma non possono dirmi una grande fan della serie: è sempre stata troppo lontana dalla mia esperienza di vita e dalla mia realtà per parlarmi sul serio. E se qualcuno mi chiedesse se sono una Carrie, una Charlotte, una Miranda o una Samantha, risponderei nessuna di loro. Ho sempre un po’ aderito alla teoria che le protagoniste fossero gli equivalenti di fantasia di uomini gay metropolitani, una serie di uomini gay mascherata da serie di donne – chi fosse curioso di questa lettura, proposta da Mandy Merk, può leggere il suo saggio “Sexuality in the city” all’interno della raccolta di saggi Reading Sex and the City, a cura di Kim Akass e Janet McCabe. Se non è mai stata così significativa per me come ho sentito esserlo per altre donne, percepisco comunque il legame della familiarità ed ero curiosa di vedere il prosieguo, sans Samantha (Kim Cattrall), che viene nominata sia nel pilot, sia in seguito: si è trasferita a Londra e ha tagliato i contatti con tutte. Dopotutto, la serie ha fatto scuola ed è stata una pietra miliare della cultura televisiva e non solo.

Ho pianto alla fine della puntata e non rivelerò perché per non fare spoiler, anche se a tre quarti della puntata era già evidente dove sarebbe andata a parare. Le amiche sono ora cinquantenni, sono accoppiate con chi le ricordavamo accoppiate e hanno i figli grandi. Carrie, felicemente sposata con Mr. Big (Chris Noth), partecipa a un podcast che tratta argomenti sessuali condotto da Che Diaz (Sara Ramirez, Grey’s Anatomy), una comica non binaria. Miranda (Cynthia Nixon) è tornata a scuola per studiare diritti umani, un corso tenuto dalla professoressa Nya Wallace (Karen Pittman), ed è ancora sposata con Steve (David Eigenberg), che per l’età sta diventando sordo. Hanno un figlio adolescente, Brady (Niall Cunningham, Life in pieces), a cui permettono di far andare in camera la fidanzata, anche se la cosa sembra sfuggire loro un po’ di mano. Charlotte e Harry (Evan Handler) hanno due figlie adolescenti, Lily (Cathy Ang) e Rose (Alexa Swinton). Nel pilot Lily deve tenere un importante saggio di pianoforte, in cui è una sorta di prodigio, e Carrie, che si tiene ad essere una buona amica mostrando il suo supporto, accetta a posticipare la sua partenza per il week-end con il marito per essere presente. Presenziano anche Stanford (Willie Garson, che ha girato le scene poco prima della sua recente scomparsa) e Anthony (Mario Cantone), sempre cari amici delle non-più-giovani-donne.

L’immediata nota distintiva è proprio quest’ultima: giovani donne non sono più giovani. Sono donne mature sui cinquanta e sono consapevoli, in modo diverso, di esserlo. Bene: si parla troppo poco di questo. E non lo dico solo da persona che ricade nella loro stessa fascia d’età. È essenziale moltiplicare le prospettive e una diversità di età è davvero una prospettiva significativa, per quanto trascurata. Men of a Certain Age ci aveva provato con gli uomini ed era stata cancellata troppo presto. Dovrebbe esserci in generale molto di più. E se una serie come Hacks mette in contatto due generazioni diverse attraverso due donne diverse, qui sono le stesse donne in momenti della vita altri. Assistere a come la vita le ha cambiate è potenzialmente rivoluzionario – chi mai lo ha fatto fuori dalle soap e la serie di film documentaristici Up? È una rarità. Il fulcro non è più il sesso e le conversazioni su di esso. E si è aumentato il quoziente di diversità, aspetto sui cui la serie di partenza era sempre stata criticata, anche con un’amica nera di Charlotte, Lisa (Nicole Ari Parker). 

Questa creazione di Darren Star ha fatto una mossa audace, con il twist narrativo che mi ha fatto piangere, ma forse anche di più per una scelta che non mi aspettavo: ha deciso di rendere le proprie eroine out-of-touch, un po’ – oso dirlo? - attempate. Non vecchie, ma nemmeno in contatto con lo Zeitgeist. Se prima erano cool e sulla cresta dell’onda, rampanti, ora hanno perso consapevolezza di quello che è innovativo e all’avanguardia, faticano a stare al passo coi tempi. Solo in campo di moda d'abbigliamento sembrano essere rimaste aggiornate: sempre elegantissime. A Carrie nel podcast viene chiesto se si è mai masturbata in pubblico. È in imbarazzo a rispondere e zigzaga per evitare di farlo sul serio. Lei è abituata alla carta stampata. Essere così verbalmente esplicita la mette a disagio: lei che ha sempre trattato questi temi? Non è sembrato troppo plausibile, a dire il vero. E davvero vogliono farci credere che non sapeva se Mr Big si masturbava? Andiamo, la sospensione dell’incredulità ha i suoi limiti. Miranda fa una figuraccia la prima volta a lezione, con insegnanti e compagni, inanellando una serie di commenti infelici - razzismo, binarietà e privilegio bianco incapsulati in poche frasi che solevano gli sguardi inorriditi dei compagni. Charlotte insiste con la figlia Rose perché indossi un abito tutto fiori che lei non è evidentemente a suo agio nell’indossare. Rispetto ai dibattiti odierni, sono rimaste indietro. E quello sì è un confronto che è importante fare. Applaudo il coraggio di And Just Like That di intraprenderla. Forse sapranno proprio essere rilevanti nella conversazione extradiegetica perché hanno il coraggio di essere uncool in quella diegetica. Hanno ancora molto da imparare, e forse noi con loro.

Poi in definitiva, uno degli aspetti più pregnanti di quella che a questo punto diventata a tutti gli effetti un dramedy (anche nella durata degli episodi) era l’amicizia fra queste “donne archetipo”. E quella sembra rimasta. Non pare che sia un programma travolgente che non si deve assolutamente perdere, non è grande televisione, ma dalle prime due puntate assaggiate fa credere di avere ancora qualcosa da dire.   

mercoledì 8 dicembre 2021

ACS: IMPEACHMENT: nulla di nuovo

Anche ad aver vissuto in una caverna - e per me all’epoca, con una MECFS severa era un equivalente - a essere stati in vita nella seconda metà degli anni ‘90, difficilmente non si conosce lo scandalo di Monica Lewinsky e dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, oggetto della terza stagione di American Crime Story, la serie stagionalmente antologica di Ryan Murphy, con un capitolo intitolato “Impeachment” (di FX, in Italia su Fox). Doveva essere la quarta stagione, ma la terza sull’uragano Katrina è stata abbandonata, e questa è diventata la terza.

Se ripenso a quella storia nella vita reale, due immagini mi rimangono indelebili, quella di Clinton che abbraccia la stagista, con lei che indossa un basco blu, e quella di lui che, con un dito alzato, dichiara “non ho avuto una relazione sessuale con quella donna”. La prima torna qui, la seconda no (forse ho un ricordo falsato io?), ma in compenso si spiega bene il come “relazione sessuale” sia stata intesa allora, così come definita dai legali di Paula Jones (Annaleigh Ashford, Masters of Sex), che per prima aveva fatto causa all’ex-governatore dell’Arkansas.

La serie sceglie di non mostrare alcun atto fra Bill (Clive Owen) e Monica (Beanie Feldstein) – se qualcuno si aspetta qualcosa di pruriginoso ha sbagliato indirizzo. Se ho apprezzato che non ci sia stato un taglio scandalistico, mi sono interrogata di continuo, in corso di via, se sia stata la scelta migliore non mostrare nulla di nulla. Le vicende si sono chiarite, ma mi è rimasta dalla visione la stessa idea che avevo avuto allora, ovvero di una stagista in fondo ingenua e realmente innamorata di un uomo che se ne è approfittato, e di una macchina politica tritatutto che ha cercato di cogliere ogni occasione per screditare e affossare l’avversario, ma senza che i coinvolti volessero attivamente ferirsi a vicenda. Sicuramente da parte della ragazza, resa dalla Feldstein con molta dolcezza, c’è il reiterato desiderio di proteggere da ogni possibile danno un uomo contro il quale alla fine fa dichiarazioni solo al fine di proteggersi. Più volte la mostrano che vuole chiamare Betty Currie (Rae Dawn Chong), la segretaria personale del presidente.

La mia aspettativa, disattesa, era di una rilettura delle vicende non tanto in termini di strumentalizzazione politica e giornalistica delle vicende – la brutalizzazione del carattere delle persone è una costante -, ma in prospettiva del #metoo. La realtà è diversa da allora, e non solo per la tecnologia che vedeva ai tempi un internet appena nascente, ma per una cultura di consapevolezza, ora, di come le dinamiche di potere-lavoro-sesso-molestie possano rendere vulnerabili le persone, di come sia indispensabile il consenso e di come in alcune situazioni possa essere difficoltoso definirlo. E forse in questo, mostrare qualcosa in più poteva avere un senso. L’unica che in fondo è sembrata indignata di come Monica venisse usata è quella Linda Tripp (Sarah Paulson) - nella vita reale scomparsa lo scorso anno - che nemmeno qui riesce a uscirne come un’eroina, troppo consumata da risentimenti personali e traditrice della fiducia dell’amica. Le sue ragioni hanno comunque il sapore di giustificazioni dell’ultim’ora per salvare la faccia. Le donne qui sono al centro, e sono vittime soprattutto di un sistema che alla fine le lascia in ogni caso sconfitte: Paula non creduta a dispetto di tutto e finanziariamente rovinata tanto da spingerla a posare senza veli, Linda derisa e vituperata, Monica magari anche apprezzata ma con addosso l’onta, e colei che muove addirittura un’accusa di stupro ignorata  - in un locale dei ragazzi vedono che c’è in onda un’intervista e chiedono di cambiare canale per una cerimonia di premiazione, stufi dell’ennesima storia su una donna finita sotto le grinfie di Clinton, che poi sarà quello che la gente perdona. E lui, giustificato dalla rabbia per la persecuzione politica a cui è sottoposto, ben poco prova rimorso per il proprio comportamento o sente di aver danneggiato queste donne. Questa amarezza in chiusura, e la consapevolezza (voglio credere non solo speranza) che oggi sarebbe andata diversamente è l’unica vera nota in questa direzione (3.10).

Sarah Burgess, showrunner che ha basato la serie sul libro “A Vast Conspiracy: The Real Story of the Sex Scandal That Nearly Brought Down a President” di Jeffrey Toobin, in un’intervista con TV’s TOP5 (qui), ha spiegato come il suo intento principale fosse quello di parlare dal punto di vista di persone che sono vicine al potere, ma sono costantemente ignorate, relegate a lavori noiosi e ripetitivi, privi di soddisfazione. Il riferimento è soprattutto a Linda Tripp, allontanata dalla Casa Bianca. Emerge la cospirazione. Quella Paula Jones un po’ tontolona, quella Tripp troppo sola, quella Monica così innamorata sono diventate facili munizioni in una guerra politica, usate anche da altre donne come l’ultraconservatrice Anna Coulter (di cui Cobie Smulters riesce bene a rendere l’odiosità), Susan Carpenter-McMillan (Judith Light) o in fondo anche dell’agente letteraria Lucianne Goldberg (Margo Martindale) ingranaggi della macchina di cui fanno parte. Loro, le donne, sono state un mezzo per affossare il presidente democratico e questo non è mai tanto evidente quando scelgono di ignorare un’accusa di stupro rivolta al capo di Stato: non c’è interesse a fare giustizia, lo scopo è incastrarlo per spergiuro e ostruzione alla giustizia.

Burgess non complica troppo le cose con personaggi secondari. Li butta lì, e se cogli chi sono bene, altrimenti la storia funziona comunque – l’americano medio mi aspetto li conosca, l’italiano medio no. Prendiamo 3.08. Quando Hillary Clinton (Edie Falco, I Soprano) ha un incontro con Stephanopoulos (George H. Xanthis), lo chiama solo George, sono l’aspetto fisico dell’attore ed eventualmente i sottotitoli che quando lui parla lo indicano per cognome (almeno quelli in inglese), che ti dicono chi è; quando sempre lei va al Today Show, e viene intervistata da Matt Lauer, lo stesso, e lo spettatore semmai può pensare a quell’intervista anche alla luce degli scandali che con il #metoo hanno coinvolto lui stesso; quando in un ufficio di consiglieri di Kenneth Starr (Dan Bakkedahl, Life in Pieces), Cavanaugh (Alan Starzinski) risulta particolarmente accanito, sta allo spettatore capire che è lo stesso che poi verrà nominato giudice della Corte Suprema da Trump.

Fra le produttrici esecutive risulta anche la stessa Monica Lewinsky. Nonostante episodi anche pressanti (penso agli interrogatori di Monica o Bill), e nonostante un cast di peso, che comprende anche Blair Underwood nel ruolo di Vernon Jordan e Colin Hanks in quello di Mike Emmick, la serie ha poco mordente, ma soprattutto non aggiunge davvero nulla di nuovo.

sabato 27 novembre 2021

COMPLEX TV, di Jason Mittell: un must-read

Se un solo libro di televisione intendete leggere, fate che sia questo: Complex TV, di Jason Mittell (Minimum Fax, 2017).

Scrivo in termini personali come raramente faccio.

Ho un distinto ricordo di me alle elementari che penso “la mia maestra non capisce niente di televisione”, io che all’epoca facevo già le schede dei cartoni animati. Come farle, per i libri, ce lo aveva insegnato una supplente di terza elementare. C’è voluto molto tempo prima di incontrare qualcuno che “parlasse la mia lingua”, televisivamente parlando. La maggior parte dei critici colti erano troppo snob nei confronti del medium, e non riuscivano a coglierne l’essenza. La gran parte della gente comune è spesso così tutt’ora. Per i più la televisione in passato era la sorella stupida del cinema, non qualcosa con una propria identità. Ora sono grande e non mi disturba o ferisce come quando ero bimba, ora mi irrito solo quando un simile atteggiamento viene da presunti esperti o da persone la cui opinione dovrebbe valere più di quella di qualcun altro in virtù del proprio ruolo culturale in altri settori, come è stato il caso quando ho attaccato pubblicamente lo scrittore e poeta Hans Magnus Enzensberger  che presenziava alla manifestazione culturale che si tiene a Pordenone chiamata “Dedica Festival”, nell’orami lontano 18 marzo 2010: aveva snocciolato troppi insulsi luoghi comuni. Avevo pubblicato un piccolo articolo in proposito per il giornale per cui scrivevo, e magari lo riproporrò qui sul mio blog, in futuro. Suppongo che in passato la maggiorana degli studiosi fosse anche culturalmente troppo vecchia e rigida per comprendere a pieno qualcosa con cui non erano cresciuti. Quei pochi che magari ci provavano anche, e penso ai vari “Espresso” e “Panorama” e affini, con le varie donne nude in copertina, con tutto quello che si porta appresso un atteggiamento accettante di questo genere di confezione, erano troppo respingenti in toto per essere presi sul serio da una giovane donna. E anche lì, quello che leggevo raramente dimostrava di comprendere i meccanismi del mezzo che fruivano come autonomi, con proprie regole funzionali ed estetiche. Non so nemmeno di preciso quando io sia riuscita ad averlo, ma non è prima degli anni del liceo che sono riuscita a leggere “Television: the critical view – fourth edition”, difficile com’era all’epoca recuperare qualunque tipo di materiali, e mi sono sentita finalmente meno sola. 

Ora c’è una vibrante comunità di critici e accademici, e talvolta anche di semplici appassionati,  spesso più brillanti e acuti di me che ho comunque una comprensione di queste tematiche nel sangue, sono la mia identità, sono nel mio DNA culturale più di ogni altra realtà, e che con l’espandersi quantitativa degli universi narrativi seriali e per le mie difficoltà di salute, in qualche caso mi sento in ritardo, sempre sommersa e in difficoltà a stare al passo. Bene così. Io so di sapere, ma so di non sapere. Si dice che se si è i più brillanti in una stanza, si è nella stanza sbagliata. Io mi trovo a mio agio in molte stanze, e lo stimolo migliore viene dal dialogo, dal confronto, dall’accettazione e convivenza di asserzioni contrapposte ugualmente vere. Evviva.

Quando poi leggo libri come quello citato in apertura sono finalmente a casa. Mi sento profondamente in sintonia con Mittell, di cui ho anche avuto l’onore di essere la traduttrice per la raccolta saggistica “Cult TV”. Ha un inglese elegante, e lo consiglio in originale, anche se in questo caso l’ho letto in italiano (un’offerta lampo dell’edizione digitale, ammetto). La traduzione è molto buona, anche se non capisco perché si sia deciso di tenere producer invece di produttore. Forse indica una figura professionale differente rispetto all’italiano e io, a dispetto delle mie vantate conoscenze non me ne rendo conto? Ripenso alla mia tesi di laurea: nel caso di “opinion” della Corte Suprema americana e “opinione” dei giudici nostrani aveva senso tenere “opinion” perché ha un valore giuridico diverso rispetto ad “opinione”.  È una situazione simile?  Se avete una risposta, illuminatemi. La sola volta in cui la traduzione mi ha deluso è quando ho visto scritto “il critico Emily Nussbaum”, invece de “la critica Emily Nussbaum”: è una donna, e capita che abbia vinto il Pulitzer per i suoi articoli di critica televisiva. Sto a pignolare.

Sono in sintonia con Mittell – anche se a me Mad Men piace molto, mentre a lui no – e sono appagata dal fatto che ci siano studiosi che riescono a ragionare in questi termini rispetto al piccolo schermo. Non è il primo e non è l’unico, nel mare magnum accademico attuale, ma è sicuramente una voce autorevole che è al contempo lucida, aperta e innovativa. Riesce a offrire categorie di indagine e di riflessione stimolanti e utili.

Qui, in un testo modulare – come lo definisce appropriatamente Barra in una postfazione - di cui spiega in chiusura la costruzione ed evoluzione, parlando di serialità ci introduce alla categoria di “TV complessa”, di cui indaga i meccanismi narrativi, prendendo le distanze dalla più problematica dicitura di “TV di qualità”. L’approccio scelto è quello della poetica (storica, cognitiva, orientata al lettore), quindi cerca di capire come funziona un testo guardando ai modi stilistico-formali in cui costruisce il suo senso. Lo fa in una prospettiva che non si limita al testo, ma è anche profondamente legata al contesto perché fa riferimento a una visione culturale in cui interagiscono autori, industria, critica e pubblico concorrendo a plasmare lo storytelling, e in cui un programma è l’origine di una rete intertestuale dove hanno un ruolo anche i paratesti, che considera parte integrante della testualità televisiva nella misura in cui un testo costruisce il suo significato quando circola e viene fruito e diventa e vive in pratiche culturali attive.

Questo libro è denso di spunti, su inizi e fini, personaggi, eventi, temporalità. L’idea dell’estetica funzionale fa da filo conduttore, ovvero il principio per cui la narrativa seriale televisiva complessa spinge gli spettatori non tanto a chiedersi che cosa avverrà, e quindi ad essere trasportati in un mondo finzionale credibile, ma come è stato realizzato, giocando perciò con il senso di stupore nell’osservare gli ingranaggi in azione. Lo spettacolo è l’effetto speciale narrativo.

Fra le riflessioni più stimolanti c’è quella sull’autorialità, un tema spinoso in un medium collaborativo come la televisione. Utile è il concetto della funzione dell’autore desunto. L’Autore è creato dagli spettatori in dialogo con il testo, viene appunto “desunto” creando un ipotetico “loro” di responsabili dello storytelling, è quindi costruito dal testo, ma anche attraverso l’atto di ricezione e quindi dalla fruizione e dai discorsi intorno al testo stesso.

Infine un altro aspetto che apprezzo molto, e questa non è la prima volta che Mittell lancia un simile appello: auspica una maggiore trasparenza da parte degli studiosi nel senso di non avere timore di esprimere un giudizio valutativo nei confronti delle serie di cui parlano. Non farlo non rende lo studio più scientifico, ma al contrario nasconde un elemento importante nella discussione di un’opera culturale. “Un’obiezione mossa di frequente al giudizio critico è che esso crea e alimenta delle gerarchie culturali, perché valorizza una pratica culturale a scapito di un’altra, attraverso una modalità di distinzione che, come dimostrato da Bordieu, rinforza i rapporti di potere sociale. Dobbiamo comunque spingerci al di là di una logica binaria, e quindi riduttiva, per la quale il valore sarebbe un «gioco a somma zero», in cui lodare un qualsiasi canone scredita il suo opposto”. Concordo in pieno: è approccio ideale, per quanto mi riguarda.         

Sicuramente sarà una strenna graditissima a chi è appassionato di TV, se siete in cerca di idee in quel senso, ma penso possa anche essere una scoperta per chi non ha idea di che cosa facciano i television studies, che senso abbiano. Il mio unico scrupolo in questo caso è che non riesco ragionevolmente ad avere una percezione di come possa essere recepito da lettori che non conoscono per nulla i testi che cita. Non credo che ci fosse un solo titolo da lui menzionato che io non conoscessi o su cui magari non avessi anche scritto. Se lo spettatore medio dubito conosca magari titoli come Kingpin (che io ho amato molto), Rubicon (ne ho parlato qui) o Boomtown (che apprezzo molto per una narrativa che ricordo di aver pensato “alla Picasso”, ma che non ho seguito interamente), è anche vero che questi sono citati en passant, e che le analisi più approfondite sono su mostri sacri come Lost, Breaking Bad, The Wire, I Soprano, che mi aspetto che il fruitore medio interessato abbia, se non visto, almeno più o meno presenti. Se così non fosse, ho l’impressione che il lettore comunque potrebbe capire, ma magari mi sbaglio, o magari parte delle sue argomentazioni non riescono altrettanto a centrare il bersaglio perché non si capisce di che cosa si sta parlando. Salvo questa riserva, penso che sia una lettura pregnante. Un must-read.         

giovedì 18 novembre 2021

TRIGONOMETRY: una traide poliamorosa

In Trigonometry, della BBC2 (2020), Ramona (Ariana Labed), detta Ray, è una piccola stella del nuoto sincronizzato. Un giorno ha un grosso incidente e deve lasciare l’attività. Lei, francese, decide di vivere a Londra e prende in affitto una stanza nell’appartamento di Kieran (Gary Carr, Downton Abbey, The Deuce) e Gemma (Thalissa Teixeira), che sono a corto di denaro e per questo decidono di aprire la propria casa a un’inquilina. Lui è un paramedico, che spesso si trova in situazioni anche fisicamente pericolose, lei sogna di ristrutturare e aprire un piccolo bistrò, l’Ampersand, cucinando per gli avventori. Presto fra i tre nasce una forte reciproca attrazione, che, se pure con difficoltà, diventa presto amore conclamato, e i tre cominciano una relazione di poliamore, uscendo allo scoperto anche con le persone a loro care.

La serie si sviluppa principalmente sui tre personaggi principali, indaga il triangolo, che come si rammenta a chiusura di serie è studiato dalla trigonometria, da cui il titolo. È considerato la figura geometrica più forte, ci viene detto, per quanto si distinguano fra triangolo equilatero, isoscele e scaleno. Questo è perciò lo studio di un triangolo relazional-amoroso. Ci sono dei personaggi secondari, come la madre di Ray o la sua migliore amica Moi (Isabella Laughland), il padre e il fratello di Gemma, la collega e la madre di Kieran. Hanno comunque tutti un ruolo marginale perché le vicende drammatiche sono appunto fortemente concentrate sulla triade.

Diversamente da You Me Her, dove c’è subito un rapporto sessuale, e i protagonisti lo  fanno per la prima volta separatamente, qui c’è una combustione lenta, c’è una reciproca attrazione che viene inizialmente negata, solo accennata, e che diventa sempre più forte, e quando alla fine i personaggi la confessano gli uni agli altri, è prima sul piano sentimentale (Ray dice che è innamorata di loro in 1.03), poi su quello fisico, e quando viene finalmente consumata avviene a tre, per la prima volta, e solo a metà della prima stagione (alla fine di 1.04, con la 1.05 che comincia con loro tre a letto insieme).

Gemma e Kieran ammettono in modo più esplicito il proprio amore nei confronti di Ray in 1.05. Da poco sposi, vanno in luna di miele da soli, e fanno ghosting a Ray: non le rispondono al telefono, ignorano i suoi messaggi. Si rendono conto di averle spezzato il cuore e si giudicano cattive persone, ma sono in difficoltà sul modo migliore di comportarsi. La conclusione, molto romantica, li vede andare loro questa volta a dichiararsi da lei, portandole una fetta di torta nuziale a cui agli sposini è stata aggiunta la statuina di lei, presa da uno dei suoi trofei di nuoto sincronizzato. La scrittura è giocata come la più classica delle romantic comedy solo che è a tre, e a gestire la relazione non sono solo due persone quindi, ma una coppia con una terza persona.

Sebbene si interroghino sull’accettabilità sociale dei loro sentimenti e della loro relazione, e si pongano quesiti anche sull’aspetto logistico concreto, quello che i personaggi non mettono mai in dubbio è la verità e l’autenticità dei propri sentimenti e della propria attrazione. Forse è tipico delle fasi più belle dell’innamoramento non prevedere la possibilità che rapporto un giorno finisca e che ci sia disamore, però questa possibilità loro non sembrano contemplarla. Anche se gli altri lo fanno per loro. Sul piano puramente emozionale, la serie è molto più ottimista di quanto sarei io, che vedrei sicuramente aumentate difficoltà nel gestire un rapporto a tre, anche solo per il fatto che ci sono più persone da tenere in considerazione e quindi potenzialmente più ostacoli. In questo si è piuttosto ingenui e favolistici. Intenzionalmente, ritengo.  

Quando Keiran e Gemma decidono di sposarsi, affrontano in modo molto esplicito la questione, e dalle loro parole è chiaro che lo standard verso cui giudicano la possibilità di esprimere il proprio amore è sempre nei termini della monogamia eteronormativa, anche lì dove è chiaro che il desiderio invece li porta a pensare a tre. In questo senso, così come nella decisione di fare una sorta di coming out, c’è l’interrogarsi della serie su che cosa sia legittimo e che cosa no.

Non ci sono dubbi però che vengono rappresentate come tre persone innamorate le une delle altre, e quella che viene mostrata è autenticamente una famiglia, un’opzione relazionale meno usuale, ma non di meno valida, piena di momenti romantici così come di momenti che spezzano il cuore, e di situazioni in cui ci si dà piacere e sostegno così come ci sono difficoltà che si affrontano insieme: siano esse fisiche, economiche o quotidiane, è una relazione che funziona e che dà felicità ai coinvolti, per quanto possa apparire bizzarra, o poco appropriata agli altri. Si dichiarano di essere gelosi gli uni degli altri, anche se devo dire che non l’ho visto. Inizialmente vedevo più “compersione”, come chiamano nell’ambiente poliamoroso la gioia empatica che si prova quando una persona che amiamo è felice con un suo altro partner. Ma in realtà anche questa l’ho vista poco, perché l’ho vista proprio più come un’armonia concepita sempre a tre.

Ho apprezzato il fatto che sia stata trattata questa tematica che rimane ancora taboo, mostrando anche le varie reazioni sociali – il giorno del suo compleanno, Ray (1.07) deve trovare il modo di spiegarlo alla madre; la collega di Kieran è fin troppo entusiasta all’idea di trovare qualcun altro che ha questo tipo di relazione. Se ne parla un po’ di più del passato – The Good Doctor nella sua quarta stagione ha introdotto un personaggio che si definisce poliamoroso – ed è indubbiamente un modo di allargare la finestra di Overton, e “normalizzare” forme d’amore esistenti viste socialmente con sospetto. Sebbene ben costruita e ben recitata, con i personaggi molto convincenti nel loro amore, la serie è tuttavia priva di mordente, stanca.

mercoledì 10 novembre 2021

PURE: coraggiosa e audace

Pure (su RaiPlay in Italia, ma dell’inglese Channel4), una serie britannica di una sola stagione (non è stata rinnovata) di sei episodi basata sull’omonimo libro di Rose Cartwright, ha come protagonista Marnie (Charlie Clive, al suo primo ruolo televisivo), una ventiquattrenne tormentata costantemente da pensieri sessuali intrusivi da quando aveva 14 anni.

Quando questi costanti flash di atti sessuali, in cui lei a volte è coinvolta, a volte è solo spettatrice, in occasione dell’anniversario dei suoi genitori cominciano a riguardare anche loro, si spaventa ancora di più e scappa dalla Scozia a Londra cercando una via di fuga. Lì almeno, fra milioni di persone, non deve dimostrare niente a nessuno e può essere chiunque.  

È un dramedy, e c’è molta leggerezza anche nel trattare una questione delicata e difficile. Lei a un certo punto dice di essere come il protagonista de ll Sesto Senso, solo che invece di vedere persone morte, lei vede persone nude (1.01). Si sghignazza, ma a quel punto è già molto ben chiaro come sia una sofferenza per lei vivere tutto questo, e di come lo sarebbe per chiunque. Ipotizza di essere lesbica, e di non ammetterlo nemmeno con sé stessa, ma queste fantasie che non riesce a controllare le impediscono anche di fare sesso: quando si trova con la testa fra le gambe di una ragazza per la prima volta, immagina di farlo con sua madre e non riesce a proseguire. Non esattamente una goduria.  E fantasie con uomini mettono in crisi anche l’ipotesi che sia lesbica. “Non so che cosa non vada in me”, si dice, e si vede che è un tormento. “Non è sexy, è disgustoso” (1.02) quello che le accade, per come lo vive.

Non trova sollievo nemmeno dal partecipare a un gruppo di auto-aiuto (1.02) per persone dipendenti dal sesso o dalla pornografia. Gli altri la guardano senza riconoscerla e lei stessa si rende conto che non appartiene a nessun gruppo. Finché non sembra riuscire a dare un nome a quello che ha: OCD – disturbo ossessivo compulsivo, che per sé stessa aveva escluso. Il titolo lo avevo immaginato come un riferimento alla purezza in modo ossimorico, visto il problema con cui convive la ragazza, ed è probabile che anche questa lettura sia voluta, ma in realtà viene proprio da “Pure O”, O puro, noto anche come OCD puramente ossessivo, l’etichetta che viene data a quello di cui soffre. Finalmente prova sollievo. Ma non è sufficiente, rimane fortemente confusa: perché lo immagina, se non desidera farlo? Come distinguere se si tratta di una compulsione patologica o se è genuinamente attratta da qualcuno e arrapata? (1.04)

Alle normali difficoltà di scoprire chi si è e che cosa si cerca in una relazione e nel rapporto con gli altri si aggiunge tutta una dimensione che fa interrogare la protagonista su sé stessa e se mai possa avere una vita normale. C’è paura, disorientamento e solitudine. E si medita anche sull’intimità, su come sia il poter confessare a qualcuno le proprie vulnerabilità e quello che ci spaventa di noi stessi, cosa che lei non riesce a fare con l’amica Shereen (Kiran Sonia Sawar, The Nevers) che la ospita a casa sua, o con l’amica storica Helen (Olive Gray) che va a trovarla (1.05), ma che invece le viene naturale con l’amico appena conosciuto nel gruppo di auto-aiuto, Charlie (Joe Cole, Black Mirror), che ha una storia secondaria, con il quale si trova in sintonia per avere entrambi problemi “inconfessabili” perché socialmente tabù. Poi la gente magari ti sorprende. Il messaggio finale è infatti comunque di speranza: per trovare veramente se stessi bisogna avere il coraggio di mostrare agi altri chi si è veramente, anche o forze soprattutto quando mostrarlo ci fa paura.

La sceneggiatura di Kirstie Swain, che ha adattato il libro, ci offre una serie su sessualità e salute mentale che non è azzardato definire coraggiosa e audace. 

lunedì 1 novembre 2021

EVIL: la seconda stagione

Anche più che nella prima, ha continuato a essere godibilissima la seconda stagione di Evil (che dalla CBS si è spostata alla Paramount+) dove, attraverso l’espediente di un procedurale in cui il trio di protagonisti deve indagare sulla validità di presunte possessioni demoniache, eventi sovrannaturali vari e affini, esamina questioni pesanti come la natura del male, il libero arbitrio, psicologia e spiritualità, traumi e paure, fede e ragione…E per certi versi sarà anche considerata una sorta di X-Files più moderna e religiosa, ma vede i protagonisti molto personalmente compromessi, e immersi in modo personale tanto quanto i personaggi della settimana il cui caso devono investigare. Nella seconda stagione in particolare emergono i loro demoni più oscuri.

David Acosta (Mike Colter, Luke Cage), che è prossimo all’ordinazione sacerdotale della season finale (2.13), è tormentato da visioni che cerca di decifrare. E a pungolarlo è anche il demoniaco Leland Townsend (Michael Emerson, Person of Interest, Lost). Tutte le interpretazioni sono molto convincenti, ma come sempre Emerson è sinistramente magnetico, creepy, minacciosamente umoristico anche: qualunque scena con lui è must-see, non si riesce a smettere di guardarlo. Schernisce, irride, pungola, stuzzica, e si infiltra nella vita dei personaggi: un vero incubo.  Lo scettico Ben (Aasif Mandvi, The Daily Show), che non crede ma è stato comunque cresciuto in una famiglia dove la madre era una devota musulmana, deve fare i conti con quella eredità spirituale, pur rigettandola, e permette alla serie di espandere il suo sguardo al di là della chiesa cattolica, che qui è il loro “datore di lavoro”. Perfino il vescovo Marx (Peter Scolari, recentemente scomparso) è stato al centro di un episodio in cui sono venuti a galla i suoi fin troppo umani peccati. 

Chi in quest’arco è stata più messa sotto pressione è stata la psicologa Kristen Bouchard (una spettacolosa e versatile Katja Herbers, Westworld). Si lamenta il fatto che mentre agli uomini ormai è stato permesso di avere dei forti antieroi (The Sopranos e The Shield sono i primi due programmi che di primo acchito mi saltano alla mente), per le donne non è stato finora altrettanto facile. Ho apprezzato intellettualmente, ma sono stata anche moralmente in difficoltà ad accettare una “eroina” che ha ucciso in modo premeditato l’uomo che minacciava le sue figlie. La stagione si apre proprio a ridosso di quell’atto. Aveva tutte le giustificazioni possibili, ma è diventata un’assassina, tormentata lei stessa da quanto ha fatto. Non un terreno facile su cui tenerla. Si rivolge al suo psicoterapeuta, il dottor Bogg (Kurt Fuller). E attraverso sogni e visioni e altri espedienti il rimorso di lei e la paura sono venuti a galla, fino al crollo (2.13). Il suo comportamento è cambiato, è diventato aggressivo e violento in alcune occasioni, ed è stato notato. La scomodità della sua posizione è stata tanto più rilevante in quanto lei stessa lo condanna razionalmente e non vuole che diventi l’insegnamento che lascia alle sue quattro figlie. La serie rimane ambigua, e questa è parte della sua forza.

Ogni puntata si apre con un “caso della settimana” che viene annunciato da un libro pop-up di cose terrificanti che ha il titolo dell’episodio. Ha dialoghi intelligenti e storie che vengono direttamente dai titoli dei giornali, così come i King, che qui sono ideatori e produttori esecutivi, ci hanno abituato in The Good Wife e The Good Fight. Non condivido che abbia un livello di caos pari a The Leftovers, per quanto senza essere pretenzioso, come ha twittato Emily Nussbaum, ma sottoscrivo il fatto che continui a sorprendere per la sua capacità di miscelare gonzo e filosofico. A volte si vorrebbe che quest’ultimo aspetto fosse maggiormente approfondito. La linea di fondo sembra essere, a dispetto di tutto lo scetticismo, che c’è una guerra in corso fra bene e male, una guerra spirituale che diventa tanto più fisica quanto ci sia avvicina alla sua realtà, verità, essenza.  

E i personaggi che incarnano varie prospettive sono sempre messi in crisi essi stessi.

Un tema caro già nella prima stagione è stato quello della misoginia. Questo giro torna ad esempio in “S sta per Silenzio” (2.07), quando si recano in un convento dove i monaci hanno fatto voto di silenzio e dove lavora una giovane suora al loro servizio, che stringe un’istantanea gioiosa amicizia con Kristen. La disparità e la segregazione fra uomini e donne così come il trattar male delle donne non viene accettata perché quello è il loro modo di fare, ma viene sottolineata in più passaggi. E l’introduzione dell’apparentemente mite Sorella Andrea (Andrea Martin), particolarmente ostile, dà un ulteriore rinforzo femminile alla serie.

La storyline orizzontale di sottofondo, già ripresa dalla precedente stagione, che vede la squadra credere che i demoni abbiano il controllo di una clinica della fertilità e corrompano spiritualmente gli ovuli delle donne in attesa, ancora deve trovare una risoluzione, e il coinvolgimento sempre maggiore della madre di Kristen, Sheryl (Christine Lahti), offre molto materiale per una prossima attesa terza stagione. 

martedì 26 ottobre 2021

GHOSTS: una sit-com di spiriti e di spirito

Avevo casualmente visto il pilot della versione inglese di Ghosts in un viaggio aereo di ritorno dagli Stati Uniti, nel 2019, anno in cui ha debuttato. Mi era piaciuto a sufficienza da voler vedere subito il remake americano, che gli rimane molto fedele, nell’incipit. Da quello che ho letto – non ho modo di verificarlo di prima mano – se ne discosta dalla terza puntata.

Il concetto è forte, e l’umorismo non manca. Una giovane giornalista freelance newyorkese, Samantha (Rose McIver, iZombie) riceve in eredità una grande dimora di campagna che non sa essere abitata da fantasmi. Nonostante l’iniziale diffidenza di lui, lei e il marito Jay (Utkarsh Ambudkar), un cuoco, decidono di rinnovarla per farne un bed&breakfast. Durante la permanenza sul luogo, lei cade dalle scale. Tecnicamente morta per 3 minuti a seguito dell’esperienza, quando torna a casa, questi fantasmi li vede come se fossero in carne e ossa. Non è pazza. E per gli spiriti che vagano per la casa è fantastico avere una viva con cui comunicare. Loro sono morti in varie circostanze e epoche diverse.

Hetty (Rebecca Wisocky) è l’originaria proprietaria della casa. Issac (Brandon Scott Jones) è un veterano della guerra d’Indipendenza morto per dissenteria, evidentemente ma non esplicitamente attratto dagli uomini. Pete (Richie Moriarty) è un capo dei boy scout morto nel 1985 per una freccia conficcata nel collo. Flower (Shelia Carrasco) è una hippie morta per l’attacco di un orso con cui cercava di fare amicizia (complici le droghe). Trevor (Asher Grodman) è l’ultimo deceduto in ordine di tempo, un trader di Wall Street donnaiolo e amante della bella vita, morto senza pantaloni. Alberta (Danielle Pinnock) è una cantante flapper morta per un possibile attacco di cuore, anche se lei è convinta di essere stata assassinata. Sasappis (Roman Zaragoza) è un nativo americano della tribù dei Lenape. Thorfinn (Devan Chandler Long) è un tonitruante vichingo che ha visto la fine colpito da un fulmine. Crash (Hudson Thames), decapitato, è per ora apparso solo nel pilot, ma la produzione dice che potrebbe tornare in episodi futuri. Poi ci sono una serie di fantasmi senza nome morti di colera, emaciati, puzzolenti.

Le dinamiche fra i fantasmi sono scoppiettanti. Sono un gruppo di mal-abbinati che difficilmente si sarebbero trovati volontariamente insieme, ma che ora devono passarci l’eternità, o quanto meno il tempo necessario a, finalmente, raggiungere l’aldilà a loro negato. Parte dell’umorismo viene da fatto che arrivano da contesti e epoche molto diverse fra loro per cui non colgono i reciproci riferimenti culturali, o hanno modi di pensare diversi. Molti di loro non hanno idea di che cosa possa essere un film, ad esempio, e Thorfinn è esaltato quando vede per la prima volta un televisore e vede che parlano della sua gente; Isaac è entusiasta all’idea che in Internet si possa sapere qualcosa di lui, in che modo viene ricordato, avvilito che Alexander Hamilton sia diventato più famoso di lui; Hetty ha vissuto in un’epoca in cui alle donne non era concesso votare, e lei è contraria che lo facciano, e ci vuole Alberta a farle vedere la situazione in una prospettiva differente, quando si tratta di scegliere qualcuno che faccia loro da rappresentante con i vivi...  

Ideato da un nutrito gruppo di autori (Mathew Baynton, Simon Farnaby, Martha Howe-Douglas, Jim Howick, Laurence Rickard, e Ben Willbond) la sit-com è stata adattata per l’americana CBS da Joe Port e Joe Wiseman, già produttori di Zoey’s Extraordinary Playlist. L’umorismo è ora buffo e un po’ svitato, ora profondo e intenso. Da una premessa anche sufficientemente sciocca infatti c’è il potenziale di riflettere col sorriso in termini storico-antropologici su diverse questioni, volendo. La serie è stata confermata per un’intera stagione per cui ci sarà tempo di approfondire gli archetipi messi in scena. Inizialmente non ero troppo convinta dell’intesa fra i due sposini, che apparivano poco in sincronia, ma già dalla seconda puntata questa sensazione per me è sparita – forse ero io. Se regge nel tempo quello che le prime puntate offrono, si ha garantita una serie allegra, con cuore, leggera ma non stupida, insomma piena di spiriti e di spirito.     

sabato 16 ottobre 2021

SQUID GAME: euristica e umanità

Squid Game (오징어게임 in orginale), letteralmente il Gioco del Calamaro, è il più recente fenomeno mediatico planetario di Netflix: 9 puntate, rilasciate il 17 settembre 2021, di un k-drama in cui un gruppo di disperati partecipano a semplicissimi giochi da cortile dell’infanzia – il primo è “Un, due, tre, stella”, in italiano, “Red Light, Green Light” in inglese, nel pilot che in originale si intitola “Il giorno in cui fiorisce l’ibisco”, un altro è un intenso tiro alla fune (1.05). In palio c’è una grossissima somma di denaro, 45,6 miliardi di Won (circa 33-34 milioni di euro), ma chi perde viene eliminato, fisicamente: ucciso brutalmente su due piedi. Appassionante, intenso e con inaspettati colpi di scena.

La serie prende quello che è un vero topos della produzione telefilmica sudcoreana, quello dei debiti pecuniari e delle scommesse, e ci fa un trattamento alla Battle Royale, ovvero al prototipo che ci ha regalato, ispirandoli, anche i vari Hunger Games. In fondo il principio è lo stesso. Qui il twist sta nel senso per cui la brutalità del gioco, con la sua futilità ed infantilità, non è in fondo differente da quello che c’è fuori, da quello che è la vita. Il denaro è la sopravvivenza. È una scelta partecipare, dovuta alle circostanze gravose che i personaggi si trovano a vivere, ma pur sempre una scelta. “Volevo scrivere una storia che fosse un'allegoria o una favola sulla moderna società capitalista, qualcosa che rappresentasse una competizione estrema, un po' come l'estrema competizione della vita” dice l’autore a Variety.

Ci sono tre sole regole: 1. Al giocatore non è permesso di smettere di giocare; 2. Un giocatore che si rifiuta di giocare viene eliminato; 3. I giochi terminano se la maggioranza acconsente. E in questo senso già, grazie a queste regole, in “Inferno” (1.02) c’è un colpo di scena che medita su questioni di scelta, di democrazia, di imposizioni più o meno visibili. E chi applica le regole del gioco non è meno una pedina alla mercé dei pochi eletti che quel gioco lo vogliono per il proprio piacere: sono una piramide gerarchica di senza volto e senza voce che viene eliminata tanto quanto i giocatori stessi, se infrangono le regole o mostrano una qualunque identità fuori dal sistema. Politicamente è una metafora pungente. Qui, piuttosto, a differenza della vita, si ripete più volte, tutti sono sullo stesso piano, nessuno può godere di vantaggi rispetto agli altri – una sottotrama di due puntate sul commercio di organi rimarca questa etica.    

456 persone partecipano nei 6 giochi previsti. Il protagonista principale di questo survival game è Seong Gi-hun (Lee Jung-jae), a cui viene assegnato proprio il numero 456, che deve una fortuna agli strozzini, e vuole potersi prendere cura della madre diabetica che ha bisogno di un’operazione e della figlioletta di 10 anni, che vive con la sua ex da cui lui è separato e con il patrigno. Cho Sang-woo (Park Hae-soo), numero 218, è un suo caro amico d’infanzia: a capo di una società di investimenti, è ricercato dalla polizia per appropriazione indebita. Kang Sae-byeok (Jung Ho-yeon), numero 67, è una ventenne il cui fratellino è in orfanatrofio, una nordcoreana che cerca di farsi raggiungere dai genitori. Oh Il-nam (Oh Yeong-su), con il numero 1, è un anziano che ha comunque un tumore al cervello che gli lascia poco tempo da vivere, e non ha per questo nulla da perdere.  Abdul Ali (Anupam Tripathi), con il numero 199, è un immigrato pakistano che non riceve uno stipendio da mesi, ma deve mantenere la moglie e il figlio. Jang Deok-su (Heo Sung-tae), con il numero 101, è un gangster che deve dei soldi a dei filippini. Han Mi-nyeo (Kim Joo-ryoung) dice di essere una povera madre nubile (ma la sua backstory non la vediamo).

Il gioco è controllato da un Frontman (Lee Byung-hun), che indossa una maschera nera, e da un elevato numero di guardie che indossano delle tute rosse e delle maschere con il simbolo di un cerchio, un triangolo o un quadrato a seconda del loro grado, figure geometriche che sono diventate anche il simbolo del programma, che riprendono le lettere del titolo scritte in coreano. Fra loro si è infiltrato un poliziotto Hwang Jun-ho (Wi Ha-joon) che è alla ricerca del fratello scomparso.

Scritto e diretto da Hwang Dong-Hyuk, questo survival thriller è tanto violento quanto pregnante. Non è raro vedere che si spara un colpo alla testa a bruciapelo a un personaggio. Mi è tornata in mente Buffy, di come avevano deciso di far morire i vampiri polverizzandoli quando vengono impalettati, sia perché fa effetto vedere cadaveri insanguinati, sia perché poi c’è sul set molto da pulire. Lì quella scelta è stata intelligente, qui l‘impatto è in parte anche andare nella direzione opposta. E i cadaveri finiscono in bare che sono infiocchettate come pacchi regalo. I giochi di sopravvivenza sono estremamente facili da seguire per lo spettatore, ma molto intelligentemente congegnati (un buon esempio è “VIPS”, 1.07) spremendone ogni possibilità drammatica, e il vero fulcro poi di fatto è sui rapporti umani e sul dramma che i personaggi vivono, e in questo senso emblematica è “Ggambu” (1.06), termine che sta a indicare una sorta di “amico per la pelle”, in cui proprio amicizia, altruismo e fiducia sono sotto i riflettori, in un gioco con le biglie che spezza il cuore. Quello a cui assistiamo sotto al gigante porcellino trasparente che si riempie ulteriormente di banconote a mano a mano che diminuiscono i giocatori in questa sfida letale è l’umanità di ciascuno. Interessante è anche il discorso che la serie imposta sui bias cognitivi e sull’euristica in decisioni, giudizi e comportamenti, un leit motiv nei dialoghi fra i personaggi. Si vedono sofferenza, empatia, generosità, calcolo. Ugualmente intensa (1.07) è la riflessione sul potere e quello che è concesso e sull’anonimato. Poi io non sono competente a sufficienza da argomentare qui in proposito, ma dal momento che viene inquadrato il testo “La Teoria del Desiderio” di Lacan (1.02) non è un grande salto di immaginazione pensare che la tematica del desiderio venga esplorata e con quella cornice di riferimento. Ci si interroga su quale sia la vera ricchezza.

Un grande altro elemento di impatto è quello estetico. Dai costumi – che siano le tute da ginnastica dei giocatori con le candide scarpe Vans tornate in auge, o quelle rosse delle guardie con i simboli geometrici sulla maschera - che sono sia immediatamente riconoscibili e di impatto, e hanno fatto ricordare La Casa di Carta e The Handmaid’s Tale, sia praticamente pronte per merchandise di facile vendita. Alla scenografia: il contrasto fra i pastellosi labirinti di scale – sono l’unica ad aver pensato alla litografia “Relativity” di Escher? -  e la crudezza delle esperienze a cui conducono, il dormitorio, la Corea in bilico fra modernità e tradizione, le postazioni dei VIP fatte anche di corpi umani che diventano mobili o sculture di carne, dipinte da diventare all’occhio oggetti come altri (qui un esempio). E la capacità di coniugare la specificità locale con l’appeal internazionale, alimentando l’Hallyu.  

Parte del piacere per lo spettatore a questo punto è partecipare alla febbre collettiva e al fandom che si lancia in tutta una serie di attività paratestuali collegate – io ammetto di voler provare presto a fare il dolce dalgona, mostrato ne “L’uomo con l’ombrello” (1.03).

Un simile successo per questa serie nessuno lo aveva previsto: la BBCnews riporta (qui) che, secondo quanto riferito dalla piattaforma di streaming, nell’arco di 25 giorni dal debutto Squid Game è stata assaggiata da 111 milioni di utenti. E addirittura Damon Lindelof (Lost, The Leftovers, Watchmen) nella sua pagina ufficiale di Instagram (qui) ha commentato che la serie è perfino meglio di quello che tutti diconoSempre la BBC scrive (qui) che alcuni fan che parlano coreano si sono però lamentati dei sottotitoli in inglese, che non avrebbero una traduzione fedele, e in giro ho sentito lo stesso per lo spagnolo.  Sarei curiosa di sapere per l’italiano, anche se io personalmente ammetto che per pigrizia, pur amando il suono del coreano, ho seguito la serie doppiata in inglese.

sabato 9 ottobre 2021

SEX EDUCATION: la terza stagione

Anche nella sua terza stagione Sex Education (Netflix), che si apre con un montaggio di persone che copulano, si è confermata una serie da non perdere: divertente, romantica, umanamente complessa e che fa vera educazione sessuale. Quale modo più efficace di illustrare che la vulva è per ogni donna diversa, ad esempio, che far preparare a Aimee (Aimee Lou Wood), che ha scoperto questa verità, tante deliziose cupcake dalla glassatura diversa l’una dall’altra? Non sono lesbica, ma golosona sì, e mi sarei mangiata volentieri quei dolcetti leccando il frosting così invitante, magari ridacchiando con malizia. Missione compiuta con garbo e simpatia.

La colonna vertebrale di questo terzo arco l’ho trovata poco credibile, un po’ costruito a tavolino in maniera telefonata: l’arrivo di una nuova preside, Hope Haddon (Jemima Kirke, Girls), che deve dare nuova credibilità al liceo di Moordale, etichettata come “la scuola del sesso”, fa credere che ci saranno migliorie, ma si capisce ben presto che è molto rigida, e diventa repressiva e oscurantista; si va di male in peggio, al punto che gli studenti vengono svergognati pubblicamente costringendoli ad indossare appeso intorno al collo un titulus crucis, con scritta la loro colpa. Era troppo evidente dall’inizio che quella era la direzione che si sarebbe imboccata e richiede molta sospensione dell’incredulità pensare che in corso di via nessun insegnante e nessun genitore abbia protestato della piega che stavano prendendo le cose. Questa latitanza era pretestuosa: permettere ai ragazzi di inscenare la propria rivolta dichiarandosi orgogliosi della loro reputazione di scuola all’avanguardia. Come saggiamente mettono in bocca ad Otis (Asa Butterfield): certe domande e certe problematiche ci sono sempre state, solo che ora c’è la consapevolezza di poterle richiedere e sapere. Nonostante Hope sia stata un facile capro espiatorio, una cattivissima la cui backstory di mancata gravidanza ha fatto ben poco per umanizzare, non di meno ho apprezzato quello che la narrazione di Laurie Nunn ha cercato di mettere in scena, incapsulando in lei una serie di atteggiamenti, mostrando quanto sia facile interdire e censurare e obbligare, e quanto invece sia necessario accogliere istanze importanti in un argomento così delicato come il sesso, anche se l’umiliazione ultima della preside alla fine l’ho anche trovata eccessiva.

Che non ci sia dimenticati delle molestie vissute da Aimee nella stagione precedente, e che non sia lasciata cadere la questione dopo averla affrontata allora così bene, mostrando in questa come abbia poi avuto difficoltà nell’intimità, è stato inaspettato, intelligente e delicato. Il riavvicinamento di Otis e Maeve (Emma Mackey) è quello per cui si tifava, ma si è riusciti ugualmente a redimere in modo credibile Isaac (George Robinson), il ragazzo tetraplegico che aveva cancellato dal cellulare di Maeve la dichiarazione d’amore che Otis le aveva fatto, e a umanizzare Ruby (Mimi Keene) che nel suo rapporto sentimental-sessuale con Otis ha perso la sua patina di sola reginetta snob della scuola per emergere nella sua vulnerabilità. Il viaggio nell’originaria Nigeria per Eric (Ncuti Gatwa) ha contemporaneamente sollevato questioni importanti rispetto all’essere apertamente gay nella società, e creato una frattura con Adam (Connor Swindells) che stava familiarizzando solo ora con la propria identità. C’è stata l’introduzione, per quanto in sordina, di due personaggi non binari, e in particolare di Cal Bowman (Dua Saleh), che ha cominciato un intenso rapporto con Jackson (Kedar Williams-Stirling). Lily (Tanya Reynolds), affascinata dagli alieni e disegnatrice di fumetti pornografici con quella tematica, si è scontrata con l’ostilità o la semplice incomprensione che le sue passioni trovano in chi la circonda, una perenne emarginata: ha spezzato il cuore. Viv (Chinenye Ezeudu), divisa fra la lealtà ai compagni e l’autorità scolastica, ha pure avuto un arco significativo che è  stato di crescita e di scoperta di che cosa è importante per lei.

E poi ci sono state le vicende degli adulti, Micheal Groff (Alistair Petrie), padre di Adam ed ex-preside della scuola, che ha voluto riscoprire se stesso e riconquistare la moglie da cui era separato, e Jean Milburn (Gillian Anderson), la madre di Otis, che è stata vista meno nel suo ruolo di sessuologa in questo caso e più in quella di donna gravida ormai matura che deve capire che tipo di rapporto costruire con Jakob (Mikael Persbrandt) e la figlia di lui Ola (Patricia Allison).  Tante clavette lanciate in aria che acrobaticamente hanno volteggiato tutte in perfetta sincronia.

La forza del programma sta sicuramente nel fornire anche così en passant tante informazioni accurate in campo di sessuologia, di cui si parla sempre poco, ma anche nel non limitarsi ad asettiche informazioni di biologia, ma lavorando anche su un piano che possiamo ben definire psico-affettivo. Lo fa con onestà e rispetto, senza falsi pudori. E lo fa con verve e leggerezza, e coinvolgimento, facendoti sentire  genuinamente investito nel destino dei personaggi. Le performance sono tutte convincenti, brillanti, dalla prima all’ultima. L’annunciato rinnovo per una quarta stagione è più che meritato e gradito.  

giovedì 30 settembre 2021

ORDINARY JOE: tre scelte, tre vite alternative

Nell’incipit di Ordinary Joe, che ha debuttato sull’americana NBC lo scorso 20 setembre, Joe Kimbreau (James Wolk, Mad Men, Zoo) è alla sua cerimonia di laurea. Deve decidere che cosa fare subito dopo: andare a pranzo con i suoi, uscire con una compagna appena conosciuta, Amy (Natalie Martinez), o andare in spiaggia con la sua migliore amica, Jenny (Elizabeth Lail). Lui cita Frost, “La strada non presa”, pensando che il poeta ce l’aveva facile avendo davanti a sé solo due alternative, mentre il suo miglior amico Eric (Charlie Barnett) lo spinge a prendere davvero una decisione per una volta. Una scelta diversa si porta dietro conseguenze di vita a lungo termine differenti, e la serie le esplora in parallelo, mostrando punti di contatto fra i vari risultati.   

Con la prima opzione, finisce per cedere alle pressioni dello zio Frank (David Warshofsky) e diventa poliziotto ed è single; con la seconda diventa il cantante di successo che ha sempre desiderato essere ed è sposato con Amy, che nonostante ripetuti tentativi non riesce a portare a termine una gravidanza; nella terza strada, è sull’orlo della separazione con Jenny, dalla quale ha avuto un figlio disabile, Christopher, e lavora nel turno di notte come infermiere, mentre il suo miglior amico Eric ha sposato Amy. Sono passati 10 anni da quella scelta.  

Le timeline funzionano in modo lineare e autonomo, con la produzione che le differenzia sulla base della palette di colori: blu per il poliziotto, verde per l’infermiere, arancione per il cantante rock. E il carismatico James Wolk, con la sua aria da simpatico compagnone, rende credibile ogni sua possibile diversa incarnazione. I personaggi sono grosso modo gli stessi e ciò che intriga sono alla fine anche i punti di contatto che sembrano emergere dalle diverse opzioni di questo Sliding Doors.       

Dal pilot, sviluppato da Russel Friend e Garrett Lerner sulla base di un format di Caleb Ranson, è difficile valutare quanto le alternative ai bivi della vita facciano riflettere sul valore di certe scelte o in che modo il confronto fra le diverse conseguenze possa gettare reciprocamente luce, se si mediterà su successi, rimpianti, obblighi, destino e libero arbitrio. La sceneggiatura non mostra picchi memorabili, ma c’è un’atmosfera confortevole e accogliente, che rendono forse le vicende “ordinarie”, ma abitabili senza sforzo.    

sabato 25 settembre 2021

THE LOST SYMBOL di Dan Brown: potenziale sprecato

The Lost Symbol, che ha appena debuttato sull’americana Peacock, è ispirato all’omonimo libro di Dan Brown, Il simbolo perduto in italiano. Dei popolari romanzi si dice che sono degli appassionanti thriller ricchi di curiosità, ma che, seppur ben costruiti, sono scritti in modo linguisticamente pedestre e per questo hanno scarso valore letterario. Lo stesso di fatto si può dire della realizzazione televisiva, a giudicare dal pilot. L’intreccio scorre bene, senza momenti morti, c’è un buon cast, ma la sceneggiatura è cheap e la regia piatta. Non c’è un’inquadratura memorabile nemmeno nel pilot, dove di solito si cerca di fare un po’ di colpo presentandosi al meglio.

Il professore di simbologia ad Harvard Robert Langdon (Ashley Zuckerman, Succession, Manhattan) con la scusa di una conferenza viene attirato a Washington dove scopre che il suo mentore, Peter Solomon (Eddie Izzard, The Riches) è stato rapito, e gli è stata mozzata una mano, che viene ritrovata al centro delle Rotonda del Campidoglio, coperta di tatuaggi con simboli che rimandano alla massoneria. Il rapitore, Mal’ahkh (Beau Knapp), - e non si vedeva un personaggio così tatuato dai tempi di Prison Break - costringe lo studioso a cercare un antico portale, se vuole rivedere vivo l’amico. Si trova così, fra luoghi misteriosi, artefatti e citazioni a dipanare un’intricata serie di indizi, anche con l’aiuto dell'agente della CIA Sato (Sumalee Montano), e di una guardia con un passato militare (Rick Gonzalez) e con quello della figlia di Peter, Katherine (Valorie Curry), che si interessa di scienza noetica e per questo viene guardata da lui con un po’ di supponenza.  

Nelle prime scene gli autori Dan Dworkin e Jay Beattie mostrano il protagonista mentre fa lezione ai suoi studenti sul potere dei simboli e sul significato che hanno e su come cambiano anche nel tempo. Li spinge ad interrogarsi su a che punto determinati simboli da benigni diventano maligni. Nella convinzione della liberà di ciascuno di credere in quello che vuole, in qualunque superstizione, domanda loro in che momento rischiano di diventare una minaccia per le proprie convinzioni. Fa notare come alcune frange estremiste si appropriano di alcune immagini (una per tutti la svastica, ma ne mostra diverse altre) e come interpretazioni spesso libere forgiano il cospirazionismo. In che modo diventa un pericolo? Come distinguere i fatti dalle finzioni? Sono quesiti importanti, e il fatto che gli eventi sono collocati nella capitale statunitense, alla luce dei riot di recente avvenuti proprio incoraggiati da questo genere di teorie, poteva dare uno spessore pregnante alla storia, ma in realtà il discorsetto finisce lì.

Non ho letto questo romanzo di Brown, ma ho letto Il Codice Da Vinci, capisco quindi il fascino delle sue storie e apprezzo la sua abilità nel costruire misteri intriganti e affascinare con questi simboli millenari: qui non si viene avvinti allo stesso modo, ma si inanellano una serie di puzzle, che siano oggetti o frasi in latino magari, per cui il professore dà la spiegazione e si va oltre. Non si riesce a tenere un minino di suspence. E visivamente si poteva elevare la narrazione rendendola elettrizzante, ma non ci si riesce. Se avesse avuto più mordente, lo avrei seguito. In questa incarnazione non lo farò, non mi pare nemmeno in fondo che riesca a rendere giustizia alla capacità affabulatoria dello scrittore del materiale originale.

Potenziale sprecato.

lunedì 20 settembre 2021

EMMY AWARDS 2021: i vincitori

Credits dell'immagine: The Hollywood Reporter

Ieri sera sono stati consegnati gli Emmy Awards, giunti alla loro 73esima edizione e presentati da Cedric the Entertainer. Sotto, i vincitori.


Per le categorie drammatiche:

Miglior drama: The Crown (Netflix)

Miglior attrice: Olivia Colman, The Crown (Netflix)

Miiglior attore: Josh O’Connor, The Crown (Netflix)

Miglior attrice non protagonista: Gillian Anderson, The Crown (Netflix)

Miglior attore non protagonista: Tobias Menzies, The Crown (Netflix)

Miglior sceneggiatura: The Crown (Netflix) Peter Morgan

Miglior Regia: The Crown (Netflix), Jessica Hobbs

 

Per le categorie di commedia:

Miglior comedy: Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attrice: Jean Smart, Hacks (HBO Max)

Miiglior attore: Jason Sudeikis, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attrice non protagonista: Hannah Waddingham, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attore non protagonista: Brett Goldstein, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior sceneggiatura: Hacks (HBO Max), Lucia Aniello, Paul W. Downs, Jen Statsky

Miglior Regia: Hacks (HBO Max), Lucia Aniello

 

Per le categorie Limited Series/Film per la TV/ Serie antologica:

Miglior Limited Series: The Queen’s Gambit (Netflix)

Miglior attrice: Kate Winslet (Mare of Easttown)

Miiglior attore: Ewan McGregor (Halston)

Miglior attrice non protagonista: Julianne Nicholson, Mare of Easttown (HBO)

Miglior attore non protagonista: Evan Peters, Mare of Easttown (HBO)

Miglior sceneggiatura: I May Destroy You (HBO), Michaela Coel (

Miglior Regia: The Queen’s Gambit (Netflix), Scott Frank


Altre categorie:

Miglior Variety o Talk

Last Week Tonight with John Oliver (HBO)

Miglior sceneggiatura per un Variety

Last Week Tonight With John Oliver (HBO)

Miglior Variety a Sketch

Saturday Night Live (NBC)

Miglior serie di competizione

RuPaul’s Drag Race (VH1)

Miglior Variety Special (Live)

Stephen Colbert’s Election Night 2020: Democracy’s Last Stand Building Back America Great Again Better 2020 (Showtime)

Miglior Variety Special (Pre-Registrato)

Hamilton (Disney+) (WINNER)