lunedì 22 febbraio 2021

LITTLE VOICE: amatoriale e deprimente

Ho proprio trascinato a fatica la visione di Little Voice (Apple TV+), che mi è sembrata scritta in modo amatoriale da autori che hanno recepito la regola di creare ostacoli alla felicità dei propri personaggi e l’hanno applicata senza misura e senza sosta. Tutto è stato pesante, anche spunti potenzialmente interessanti sono sembrati sprecati.

Bess King (Brittany O’Grady) è una giovane cantautrice che aspira al successo. Per sbarcare il lunario si barcamena fra molti lavori: barista, insegnante di musica, assistente in una casa per anziani, dog-sitter…e ogni idea che le viene in mente la registra su un taccuino nei momenti liberi che ha, provando poi a realizzarne delle canzoni in una stanza di deposito che ha affittato appositamente. Il padre Percy (Chuck Cooper) è una vecchia star della musica che è ormai mezza persa all’alcolismo. Il fratello maggiore Louie è autistico (così come l’attore che lo interpreta, Kevin Valdez, è pure nello spettro) ed è un grande appassionato di musical di Broadway. Da quando la madre li ha abbandonati Bess si prende cura di lui. La sua migliore amica e compagna di stanza è Prisha (Shalini Bathina), una lesbica che con la gran parte delle persone nasconde il proprio orientamento, e i cui genitori, di origina indiana, cercano di combinarle un matrimonio con un uomo.  Ad accompagnarla alla chitarra mentre Bess canta c’è Samuel (Colton Ryan), che presto si innamora di lei, mentre lei è più interessata ad Ethan (Sean Teale, Reign), un regista inglese che pure ha affittato un deposito accanto al suo.

Il ritratto di una giovane donna intenta a trovare la propria voce, e convinta che la musica, anche quando mentiamo perfino a noi stessi, dica sempre la verità è convincente, così come ho apprezzato che fra i parecchi personaggi neuroatipici che ormai popolano il piccolo schermo non si sia ricaduti nello stereotipo dell’autistico savant (si pensi a The Good Doctor) ma si scelga qualcuno che ha notevoli problemi cognitivi. Forse è così perché sono il terreno su cui si trovano più a loro agio due delle voci dietro al questo progetto che ha fra i produttori esecutivi J.J. Abrams, ovvero l’ideatrice Jesse Nelson, conosciuta per I Am Sam, qui sia sceneggiatrice che regista di diversi degli episodi, e la ben nota Sara Bareilles che nella season finale (1.09) fa pure un cameo nel ruolo di se stessa. In fondo anche la storyline secondaria dell’amica oggetto di un attacco omofobo che lo nasconde ai genitori dicendo che si trattava di razzismo ha funzionato bene.

Lì dove lo storytelling è stato carente è stato proprio nelle vicende della protagonista. Glissiamo sul ritorno della madre nelle ultime due puntate della prima stagione, imbarazzanti per quanto siano sembrate un esercizio da studente di scrittura creativa, ma pure il potenziale triangolo amoroso con Samuel e Ethan è stato sprecato, nonostante la buona recitazione, in particolare da parte del primo, che una regia attenta ha saputo valorizzare. È stato goffo e realizzato a tentoni, come se mancassero dei pezzi: per nulla convincente e tedioso anche quello. Non che i due contendenti siano stati in qualche modo approfonditi. Come identità erano inesistenti, più dei segnaposto che altro.

Il problema vero è che perfino la musica, che è ciò che trascina il personaggio nella vita, il fuoco artistico che in teoria dovrebbe animarla, è tiepido e malandato: il personaggio ne risucchia ogni gioia. Le ballate proposte, che potremmo definire indie pop – e nel cercar un’etichetta al genere in 1.07 c’è qualche scena divertente – non sono di mio gusto, ma non credo sia stato quello un ostacolo al mio apprezzamento. L’atteggiamento dei produttori che ascoltavano la sua musica per passar oltre è stato un po’ il mio nei confronti della serie. Non coglievano, così come proprio qui non colgo io.

Non arrivo ad essere così graffiante come Lucy Mangan su The Guardian che scrive “(a) meno che non faccia parte di una strategia aziendale segreta per penetrare nel mercato dell'antiemetica - nel qual caso, Apple, ci hai azzeccato, e prenderò immediatamente una bottiglia piena delle vostre compresse più belle e  costose…", e non arrivo nemmeno a considerarlo in fondo così vomitevole, ho visto di peggio, ma è orribilmente deprimente sia nel contenuto che nella modalità in cui ci viene presentato.

lunedì 15 febbraio 2021

JOSS WHEDON: #IstandwithCharisma

 

Nei giorni scorsi è scoppiata una bomba nel mondo della televisione: su Joss Whedon (Buffy, Angel, Dollhouse, Firefly), uno degli autori più amati, stimati, studiati, riveriti e ammirati, non solo perché considerato un autentico genio nel suo lavoro, ma perché un modello di comportamento e un femminista che si batteva per l’uguaglianza di genere e il rispetto delle donne, si sono riversate accuse che ne fanno crollare il mito. Ed era un tale faro all’interno della comunità che tanti stanno soffrendo di queste rivelazioni. Sono stata indecisa se affrontare la questione perché mi occupo di serie, in linea di massima, e non di altre questioni, ma in passato io stessa ne ho parlato e l’ho lodato qui sul mio blog (qui e qui), e per questo ho deciso di almeno accennare a quanto sta succedendo.

La Warner Brothers stava già investigando sul presunto comportamento abusante di Whedon dopo le accuse mosse nei suoi confronti da Ray Fisher, l’attore di Cyborg nel film Justice League. Nei giorni scorsi Charisma Carpenter, che interpretava Cordelia Chase in Buffy ed Angel, è intervenuta con un tweet intitolato “la mia verità” (si legga qui)  in cui accusa lo sceneggiatore di gravi comportamenti di cui dice di riportare conseguenze fisiche croniche tutt’ora, di aver creato sul set un’ambiente tossico e ostile, e se in passato non ha avuto il coraggio di parlare, ora non si sente più di rimanere in silenzio. Non ha usato mezzi termini nell’affermare che il vampiro era lui.

Si è aperto un vaso di pandora, con ulteriori accuse, da parte di altri attori – Michelle Trachtenberg, che interpretava Dawn in Buffy, allora minorenne, ha dichiarato che in seguito ad un “incidente” era vietato a Whedon di essere in camerino da solo con lei (si legga qui) e sceneggiatori – Jose Molina in un tweet scrive che “casualmente crudele” era il modo perfetto per descrivere l’autore e di come trovasse divertenti le cattiverie. Numerosi altri hanno o corroborato le accuse, o comunque dato il proprio sostegno alle vittime (a partire da Sarah Michelle Gellar, l’attrice di Buffy), anche lì dove non hanno vissuto l’esperienza in prima persona o magari non se ne sono nemmeno accorti (è il caso di Anthony Head, che interpretava Giles). 

Naturalmente uno è innocente fino a prova contraria, ma qui diciamo che le accuse sono pesanti e numerose e la gente sta credendo – io stessa credo – alle voci delle vittime che hanno molto da perdere e nulla da guadagnare. Whedon da parte sua non ha rilasciato dichiarazioni in proposito. Queste accuse non arrivano nemmeno del tutto inaspettate, dato che in passato anche la moglie dell’autore aveva dichiarato che Joss non era chi voleva far credere di essere. Gli spettatori non potevano sapere, o in una certa misura, accecati dalla sua figura, forse hanno preferito non vedere.  

I fan di Joss sono stati traditi ferocemente. Whedon ha creato intorno alla propria immagine e ai valori che propugnava un vero e proprio brand. L’ipocrisia perciò fa bruciare ancora di più la delusione. Io stessa che ho pubblicato su Slayage il mio primo saggio e che su Facebook faccio parte del gruppo della Whendon Studies Association, che al mio scrivere sta valutando di cambiare nome, non posso negare di essermi sentita veramente molto triste nell’ascoltare così tante accuse rivolte a questo autore, nonostante sia anni che non lo “frequenti” nei suoi testi.  

Ed è inevitabile che, come recentemente è capitato ad un’altra amata icona del piccolo schermo, il comico Louis CK, le sue opere vengano ora lette in una certa misura non più come una denuncia del marcio della società, ma come una confessione di comportamenti da lui stesso messi in atto. Dollhouse, in questa prospettiva, risuonerà in particolare. Queste vicende riaprono un dibattito, in qualche caso secolare, sulla necessità e l’opportunità di distinguere autore da opera, su come gestire personalità umanamente problematiche di fronte a un loro contributo intellettuale apprezzabile, sul senso dell’autorialità, sul #metoo… e altre questioni ancora.

Invito a leggere una buona sintesi e riflessione scritta da Jason Winslade, che condivido nel suo spirito: qui. La sola cosa sui cui mi sento di puntualizzare è che non credo che dovremmo promuovere la "cultura dell'annullamento" ma indubbiamente la "cultura della responsabilità". Dopo tutto, se abbracciamo veramente il senso di Buffy come ideale e nella sua eredità spirituale, nonostante gli errori fatali dal suo stesso ideatore, siamo noi come persone ad avere la forza di uccidere demoni e mostri, non importa la forma e l'aspetto che hanno. Se il comportamento di Whedon è stato mostruoso, ognuno di noi è il prescelto e ergersi contro di esso, ognuno di noi ha il dovere di denunciare.

Riguardava Louis CK ed altri, anche perché è stato scritto ben prima, ma rispetto a questi temi consiglio, se non l'avete già letto, il saggio “Confessioni di uno scudo umano” che Emily Nussabaum   che riconosce in Buffy il suo programma TV formativo, che è quello che l’ha fatta diventare una critica televisiva, e pure ha espresso delusione alle notizie - qui ha scritto nel suo libro "Mi piace guardare". È una delle riflessioni più complesse e illuminanti su queste tematiche in generale che abbia mai letto.

Credo che sia importante riflettere su questi temi, perché è così che una società e ciascun essere umano migliorano. E se giudicare l’uomo non sta a noi, condannare certi comportamenti è essenziale. Sono dispiaciuta per le vittime e deploro gli abusi, e in questa prospettiva mi sento di dire che #IstandwithCharisma.   

giovedì 11 febbraio 2021

BORGEN: la politica danese

Ha debuttato oltre 10 anni fa, nel 2010, ma non risente del peso del tempo Borgen – Il Potere la serie danese in passato trasmessa in Italia da LaEffe, ora disponibile su Netflix, che intende produrne una quarta stagione il cui debutto è previsto nel 2022. Si ha giusto il tempo di mettersi in pari con le tre passate stagioni disponibili.

Il titolo originale, Borgen (“Il castello”), fa riferimento al nomignolo con cui è conosciuto il Palazzo di Christiansborg, a Copenaghen, dove hanno ora sede il Parlamento danese, gli Uffici del Ministro di Stato e la Corte Suprema.

La serie è un’investigazione sull’argomento del sottotitolo italiano, ed in particolare sull’esecutivo e il legislativo e sulla politica, con i suoi dietro le quinte, e nei sui rapporti con il giornalismo e nel suo impatto sulla vita privata delle persone. Si tratta di una produzione via via più complessa che riecheggia The West Wing e The Newsroom, ma con meno retorica e più small-scale, e che ha echi di Commander-in-Chief.

Birgitte Nyborg (Sidse Babett Knudsen, doppiata da Alessandra Korompay), una quarantenne idealista, è a capo del partito moderato centrista. Alle più recenti elezioni risulta vincente e, dopo aver negoziato con i rivali, diventa Prima Ministra – prima donna a rivestire questo ruolo in Danimarca - e perché il suo governo possa rimanere al potere e portare avanti il proprio programma deve gestire le alleanze e gli scontri con gli altri partiti, quello laburista e quello liberale in primis. A sostenerla, con il ruolo di suo spin doctor, ma anche come speech writer e consulente politico in senso ampio, c’è Kasper Juul (Pilou Asbæk, l’Euron Greyjoy del Trono di Spade). Nella vita privata è felicemente sposata con Philip Christensen (Mikael Birkkjær), un professore universitario alla Copenhagen Business School che ha messo da parte la sua carriera di uomo d’affari per permettere alla moglie di seguire le proprie ambizioni politiche e per seguire lui i figli, Laura di 12 anni e Magnus di 8. A registrare con interesse l’attualità c’è una determinata e brillante giornalista trentenne, Katrine Fønsmark (Birgitte Hjort Sørensen), che lavora come mezzobusto per il canale TV1, che ha un rapporto spesso conflittuale con il suo capo Torben Friis (Søren Malling) e ha un passato sentimentale con Kasper.

La protagonista principale si dice sia modellata su quella che è diventata la prima Prima Ministra danese, Helle Thorning Schmidt,  anche se questa ha avuto lo stesso ruolo solo dopo che la produzione aveva terminato di registrare la seconda stagione (si legga qui in proposito). Il partito di cui lei è segretaria, così come gli altri rappresentati, sono di finzione, cosa che giustifica la mia perplessità mentre guardavo le puntate nel sentirlo definire moderato, ma contemporaneamente progressista e radicale. Non mi sembravano avere le idee molto chiare, di primo acchito, su chi volessero essere. La pagina di Wikipedia in inglese sulla serie (qui) chiarisce che si tratta di un partito di centro-sinistra basato sul partito social-liberale danese, il Radikale Venstre.

Ideato da Adam Price, che la ha scritta insieme a Jeppe Gjervig Gram e Tobias Lindholm, e prodotta da DR, l’emittente pubblica danese che già aveva portato al successo The Killing, questo political drama riesce ad avvincere facendosi via via sempre più complesso in un riuscitissimo equilibrio fra narrazione verticale delle puntate simil-autoconclusive, e quella orizzontale di stagione, e allo stesso modo nell’intrecciarsi degli aspetti professionali a quelli personali, affrontando anche tematiche molto toste, come l’abuso sessuale su minore (1.08) o come l’aborto (1.03). In quest’ultimo caso, ho trovato davvero notevole e inusitato l’approccio verso il tema. ATTENZIONE SPOILER. Katrine si ritrova incinta di un uomo sposato con cui aveva una relazione e che amava e che è morto dopo essere stato con lei. Vorrebbe tenere il bambino ma sua madre, la vedova del defunto e il suo ex spingono tutti perché lei abortisca. È una decisione difficile, ponderata, matura, dolorosa, ma senza troppi sentimentalismi.

C’è qualche raro momento in cui si rimane indispettiti - l’iniziale fissa di Birgitte per il proprio peso, che sembrava voler essere un mal riuscito tentativo di umanizzarla; la segretaria incompetente che faceva la riverenza in cui si è visto un infelice esperimento di creare comic relief… Qualche volta non si è risultati credibili – come si può essere convinti che non è politicamente rilevante il fatto che una segretaria di partito abbia fatto delle dichiarazioni, registrate sei anni prima, in cui sosteneva che si sarebbe dovuto organizzare il rapimento dei figli dell’allora primo ministro? Sei anni prima insistono che è molto tempo prima, quando è un nulla, e fanno passare come attenuante il fatto che fosse ubriaca a una festa. Io non sarei sicuramente di questo avviso. Queste critiche sono pecche minori.

Ogni puntata si apre con una citazione – “La storia è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi” di Joyce, ad esempio, fa da cappello introduttivo alla 1.08. Parte del fascino, da italiana, è vedere trattate questioni di cui non sono a conoscenza, o quanto meno inusitate. L’episodio 1.04, “I Primi cento giorni”, è emblematico: c’è un atterraggio non autorizzato in Groenlandia di aerei della CIA che trasportano prigionieri. Questo mette in crisi i rapporti diplomatici USA-Danimarca, e di mezzo ci sono anche i servizi segreti, ma anche Danimarca-Groenlandia, fra cui c’è una ruggine di 300 anni dovuta all’invasione danese. Birgitte si reca in territorio groenlandese, nazione che definisce “maestosa, deprimente, detestabile, il luogo più bello che abbia mai visto in vita mia, piena di contrasti”. Nello svolgersi delle scene si viene a conoscenza di una realtà molto specifica, dando anche informazioni come il fatto che il 20% degli Inuit adolescenti ha tentato il suicidio, ma al contempo si vedono le ramificazioni e i delicati equilibri politici in gioco, anche nel rapporto con la stampa. Tutto è svolto in modo semplice, ma non ipersemplificando le questioni, e in modo cristallino, e ha echi al di là del possibile caso specifico.

Lo stesso sul piano personale, dosando molto attentamente gli eventi, si è visto come gli impegni professionali della protagonista hanno eroso il suo tempo con la sua famiglia, rendendola spesso assente alle esigenze di figli e marito e portando al collasso del suo matrimonio. Il bambino che si fa la pipì addosso, il marito che deve rinunciare a investimenti che ha fatto indipendentemente, ma che potrebbero ugualmente gettare cattiva luce sul governo, o altre rinunce, anche della semplice presenza nella vita dei familiari amati, sono umanamente credibili e ben calibrati.

Si tratta in conclusione di una serie sufficientemente lineare e asciutta, anche perché limita il cast a pochi personaggi essenziali, ma molto seria e adulta. Molto avvincente anche. Da recuperare.

venerdì 5 febbraio 2021

Goden Globe - Binging - 2 minuti: alcune considerazioni TV

Nel video sotto faccio alcune considerazioni su tre argomenti di cui si sta parlando molto in questi giorni nel mondo della TV, ovvero:

1.       L’esclusione di I May Destroy You dai nominati ai Golden Globe.

2.      To Binge or not To Binge? Ovvero fare binge-watching o no?

3.      Netflix e la soglia dei 2 minuti per considerare un programma come visto.