giovedì 30 settembre 2021

ORDINARY JOE: tre scelte, tre vite alternative

Nell’incipit di Ordinary Joe, che ha debuttato sull’americana NBC lo scorso 20 setembre, Joe Kimbreau (James Wolk, Mad Men, Zoo) è alla sua cerimonia di laurea. Deve decidere che cosa fare subito dopo: andare a pranzo con i suoi, uscire con una compagna appena conosciuta, Amy (Natalie Martinez), o andare in spiaggia con la sua migliore amica, Jenny (Elizabeth Lail). Lui cita Frost, “La strada non presa”, pensando che il poeta ce l’aveva facile avendo davanti a sé solo due alternative, mentre il suo miglior amico Eric (Charlie Barnett) lo spinge a prendere davvero una decisione per una volta. Una scelta diversa si porta dietro conseguenze di vita a lungo termine differenti, e la serie le esplora in parallelo, mostrando punti di contatto fra i vari risultati.   

Con la prima opzione, finisce per cedere alle pressioni dello zio Frank (David Warshofsky) e diventa poliziotto ed è single; con la seconda diventa il cantante di successo che ha sempre desiderato essere ed è sposato con Amy, che nonostante ripetuti tentativi non riesce a portare a termine una gravidanza; nella terza strada, è sull’orlo della separazione con Jenny, dalla quale ha avuto un figlio disabile, Christopher, e lavora nel turno di notte come infermiere, mentre il suo miglior amico Eric ha sposato Amy. Sono passati 10 anni da quella scelta.  

Le timeline funzionano in modo lineare e autonomo, con la produzione che le differenzia sulla base della palette di colori: blu per il poliziotto, verde per l’infermiere, arancione per il cantante rock. E il carismatico James Wolk, con la sua aria da simpatico compagnone, rende credibile ogni sua possibile diversa incarnazione. I personaggi sono grosso modo gli stessi e ciò che intriga sono alla fine anche i punti di contatto che sembrano emergere dalle diverse opzioni di questo Sliding Doors.       

Dal pilot, sviluppato da Russel Friend e Garrett Lerner sulla base di un format di Caleb Ranson, è difficile valutare quanto le alternative ai bivi della vita facciano riflettere sul valore di certe scelte o in che modo il confronto fra le diverse conseguenze possa gettare reciprocamente luce, se si mediterà su successi, rimpianti, obblighi, destino e libero arbitrio. La sceneggiatura non mostra picchi memorabili, ma c’è un’atmosfera confortevole e accogliente, che rendono forse le vicende “ordinarie”, ma abitabili senza sforzo.    

sabato 25 settembre 2021

THE LOST SYMBOL di Dan Brown: potenziale sprecato

The Lost Symbol, che ha appena debuttato sull’americana Peacock, è ispirato all’omonimo libro di Dan Brown, Il simbolo perduto in italiano. Dei popolari romanzi si dice che sono degli appassionanti thriller ricchi di curiosità, ma che, seppur ben costruiti, sono scritti in modo linguisticamente pedestre e per questo hanno scarso valore letterario. Lo stesso di fatto si può dire della realizzazione televisiva, a giudicare dal pilot. L’intreccio scorre bene, senza momenti morti, c’è un buon cast, ma la sceneggiatura è cheap e la regia piatta. Non c’è un’inquadratura memorabile nemmeno nel pilot, dove di solito si cerca di fare un po’ di colpo presentandosi al meglio.

Il professore di simbologia ad Harvard Robert Langdon (Ashley Zuckerman, Succession, Manhattan) con la scusa di una conferenza viene attirato a Washington dove scopre che il suo mentore, Peter Solomon (Eddie Izzard, The Riches) è stato rapito, e gli è stata mozzata una mano, che viene ritrovata al centro delle Rotonda del Campidoglio, coperta di tatuaggi con simboli che rimandano alla massoneria. Il rapitore, Mal’ahkh (Beau Knapp), - e non si vedeva un personaggio così tatuato dai tempi di Prison Break - costringe lo studioso a cercare un antico portale, se vuole rivedere vivo l’amico. Si trova così, fra luoghi misteriosi, artefatti e citazioni a dipanare un’intricata serie di indizi, anche con l’aiuto dell'agente della CIA Sato (Sumalee Montano), e di una guardia con un passato militare (Rick Gonzalez) e con quello della figlia di Peter, Katherine (Valorie Curry), che si interessa di scienza noetica e per questo viene guardata da lui con un po’ di supponenza.  

Nelle prime scene gli autori Dan Dworkin e Jay Beattie mostrano il protagonista mentre fa lezione ai suoi studenti sul potere dei simboli e sul significato che hanno e su come cambiano anche nel tempo. Li spinge ad interrogarsi su a che punto determinati simboli da benigni diventano maligni. Nella convinzione della liberà di ciascuno di credere in quello che vuole, in qualunque superstizione, domanda loro in che momento rischiano di diventare una minaccia per le proprie convinzioni. Fa notare come alcune frange estremiste si appropriano di alcune immagini (una per tutti la svastica, ma ne mostra diverse altre) e come interpretazioni spesso libere forgiano il cospirazionismo. In che modo diventa un pericolo? Come distinguere i fatti dalle finzioni? Sono quesiti importanti, e il fatto che gli eventi sono collocati nella capitale statunitense, alla luce dei riot di recente avvenuti proprio incoraggiati da questo genere di teorie, poteva dare uno spessore pregnante alla storia, ma in realtà il discorsetto finisce lì.

Non ho letto questo romanzo di Brown, ma ho letto Il Codice Da Vinci, capisco quindi il fascino delle sue storie e apprezzo la sua abilità nel costruire misteri intriganti e affascinare con questi simboli millenari: qui non si viene avvinti allo stesso modo, ma si inanellano una serie di puzzle, che siano oggetti o frasi in latino magari, per cui il professore dà la spiegazione e si va oltre. Non si riesce a tenere un minino di suspence. E visivamente si poteva elevare la narrazione rendendola elettrizzante, ma non ci si riesce. Se avesse avuto più mordente, lo avrei seguito. In questa incarnazione non lo farò, non mi pare nemmeno in fondo che riesca a rendere giustizia alla capacità affabulatoria dello scrittore del materiale originale.

Potenziale sprecato.

lunedì 20 settembre 2021

EMMY AWARDS 2021: i vincitori

Credits dell'immagine: The Hollywood Reporter

Ieri sera sono stati consegnati gli Emmy Awards, giunti alla loro 73esima edizione e presentati da Cedric the Entertainer. Sotto, i vincitori.


Per le categorie drammatiche:

Miglior drama: The Crown (Netflix)

Miglior attrice: Olivia Colman, The Crown (Netflix)

Miiglior attore: Josh O’Connor, The Crown (Netflix)

Miglior attrice non protagonista: Gillian Anderson, The Crown (Netflix)

Miglior attore non protagonista: Tobias Menzies, The Crown (Netflix)

Miglior sceneggiatura: The Crown (Netflix) Peter Morgan

Miglior Regia: The Crown (Netflix), Jessica Hobbs

 

Per le categorie di commedia:

Miglior comedy: Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attrice: Jean Smart, Hacks (HBO Max)

Miiglior attore: Jason Sudeikis, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attrice non protagonista: Hannah Waddingham, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior attore non protagonista: Brett Goldstein, Ted Lasso (Apple TV+)

Miglior sceneggiatura: Hacks (HBO Max), Lucia Aniello, Paul W. Downs, Jen Statsky

Miglior Regia: Hacks (HBO Max), Lucia Aniello

 

Per le categorie Limited Series/Film per la TV/ Serie antologica:

Miglior Limited Series: The Queen’s Gambit (Netflix)

Miglior attrice: Kate Winslet (Mare of Easttown)

Miiglior attore: Ewan McGregor (Halston)

Miglior attrice non protagonista: Julianne Nicholson, Mare of Easttown (HBO)

Miglior attore non protagonista: Evan Peters, Mare of Easttown (HBO)

Miglior sceneggiatura: I May Destroy You (HBO), Michaela Coel (

Miglior Regia: The Queen’s Gambit (Netflix), Scott Frank


Altre categorie:

Miglior Variety o Talk

Last Week Tonight with John Oliver (HBO)

Miglior sceneggiatura per un Variety

Last Week Tonight With John Oliver (HBO)

Miglior Variety a Sketch

Saturday Night Live (NBC)

Miglior serie di competizione

RuPaul’s Drag Race (VH1)

Miglior Variety Special (Live)

Stephen Colbert’s Election Night 2020: Democracy’s Last Stand Building Back America Great Again Better 2020 (Showtime)

Miglior Variety Special (Pre-Registrato)

Hamilton (Disney+) (WINNER)


giovedì 16 settembre 2021

LA FERROVIA SOTTERRANEA: fuga dalla schiavitù

“L’uomo bianco è il diavolo” diceva inizialmente Malcom X, nella sua autobiografia raccontata ad Alex Haley, l’autore di Radici da cui è stata tratta una storica miniserie televisiva. Erede spirituale di quella produzione, per i tempi contemporanei, è “La Ferrovia Sotterranea” (Amazon Prime), adattata da Berry Jenkins anch’essa da un romanzo, l’omonimo di Colson Whitehead, che dimostra bene come quell’affermazione del leader nasca in un substrato storico che non la rende proprio gratuita, ma al contrario ben condivisibile.

The Undergroud Railroad, in originale, è la storia di un viaggio, meglio una fuga, di una schiava nera, Cora (Thuso Mbedu), dalla piantagione dei Randall in Georgia attraverso numerosi stati del Sud, in cerca della libertà, attraverso la misteriosa ferrovia sotterranea del titolo e perennemente e ferocemente inseguita dal cacciatore di schiavi Arnold Ridgeway (Joel Edgerton), che ha al suo seguito un piccolo aiutante nero, Homer (Chase W. Dillon). La ferrovia in questione è un’invenzione della finzione, lì dove quella opzione di salvezza nella realtà era costituita da una rete di abolizionisti e nascondigli secreti che aiutavano uomini e donne a fuggire e mettersi in salvo.

L’aspetto che più mi ha sorpreso è quanto questa produzione mi abbia richiamato Westworld. Al di là di questo accostamento, che non ho idea se altri l’abbiano fatto, è la cinematografia l’elemento che la eleva, con inquadrature di scenografie naturali che ci si incanta a guardare. Nel suo intimo la storia è non tanto forse di denuncia quanto di testimonianza di quello che un popolo, se così vogliamo chiamarlo, ha dovuto subire – ai passeggeri che trovano così la fuga viene chiesto infatti di raccontare la propria storia, annotata su appositi libroni. Assistiamo al senso del raccontare la propria storia come atto rivoluzionario, come azione di consapevolezza della propria identità e rilevanza, dinanzi alle atrocità subite.

È un pugno nello stomaco. Si fatica a scrollarsi il sadismo del pilot dove un fuggitivo viene arso vivo dopo essere stato frustato ai limiti dell’incoscienza mentre i padroni si godono lo spettacolo banchettando, o a dimenticare il proprietario bianco che sta a guardare i suoi schivi mentre copulano per assicurarsi che figlino, come fossero bestiame. L’apparente buonismo della Carolina del Sud (1.02) nasconde esperimenti medici sugli uomini e donne operate perché non possano avere figli, in nome di una società che mira a migliorare la “razza negra”; il supremazismo bianco della Carolina del Nord, con i suoi sentieri alberati di impiccati e i suoi roghi di libri, cerca un folle stato “puro” dove agli afro-americani non è permesso neppure di esistere, nemmeno come schiavi, annullati completamente, e con coloro chi osa aiutarli.

Ci sono le vite sprecate per nulla, e talenti – Cora incontra ed è costretta a lasciarsi alle spalle numerosi altri fuggitivi come lei che incontrano un brutto destino, da quel Caesar (Aaron Pierre) dagli occhi azzurri che deve nascondere di saper leggere, che inizialmente scappa con lei, al testardo Jasper che canta e si rifiuta di mangiare, il cui corpo viene abbandonato nell’inferno del Tennessee.

Oltre alle aggressioni al corpo nero, come ben ce le ricorda Ta-Nehisi Coates, la deumanizzazione dei neri, creduta dai bianchi e dai neri stessi, ha mostrato come si è potuti arrivare a legittimare pratiche che sembrano incivili e insensate ora, che erano messe in atto solo l’altro ieri. E di come i neri stessi possano essersene fatti complici. Alla fine questa epopea è una lotta di volontà, quella della ragazza indomita che fa di tutto per lasciarsi alle spalle gli orrori, credendo di essere stata abbandonata dalla madre, la cui storia viene abbozzata in chiusura (1.10), e quella del cacciatore che pure è scresciuto con un padre antischiavista (Peter Mullan) che gli insegna a cercar il “grande spirito” in tutti gli esseri umani, ma non lo trova e diventa un terribile persecutore, per denaro.

C’è speranza di fronte a tutto il male e la violenza a cui si assiste. Ce lo trasmette la protagonista con la sua resilienza, ma viene anche dall’idea, espressa da uno dei personaggi (1.09), che “un’illusione feconda è meglio di un’infeconda verità”, credere di poter costruire una società in cui ci sia uguaglianza e rispetto reciproco, anche quando le circostanze fanno credere che non sia possibile, aiuta a renderla vera, più di quanto non farebbe un realistico disfattismo che vede con cruda desolazione i fatti.  

Mi sono chiesta, se, al di là di una solida narrazione, qualitativamente notevole, mi sia stato detto qualcosa di nuovo sul razzismo, qualche prospettiva inusuale che non avessi già incontrato. Devo ammettere, con rammarico, che non credo sia così. Non mi ha svelato nulla di nuovo. Il solo taglio inatteso è la giustificazione della schiavitù come una prova della teoria del “destino manifesto”, ovvero nel ruolo di predominio che Dio avrebbe assegnato agli Stati Uniti. Non l’avevo mai considerata in questi termini. Al di là di quello non mi pare di aver scoperto altro sulla condizione dei neri d'America, come invece magari mi era capitato con LovecraftCountry. Forse sono stata cieca io?

Ammesso questo: che valore etico ha questa miniserie? Io per me lo vedo, metaforicamente, nel sacchettino di semi che Cora si porta dietro come un piccolo tesoro, che qui tanto metaforico non è. Queste storie, proprio come dei semi, dovrebbero far germogliare la consapevolezza di come il razzismo sia cresciuto endemico e sistemico e della necessità dell’antirazzismo.  

lunedì 6 settembre 2021

THE CHAIR: per un paradigma di sviluppo umano

Sono tutte persone che stanno metaforicamente annegando e devono arrabattarsi per stare a galla, i personaggi di The Chair – La direttrice (Netflix), la commedia in sei dinamiche puntate di mezz’ora circa ideata da Amanda Peet (Togetherness), anche produttrice esecutiva insieme a David Benioff e D.B. Weiss (Game of Thrones), e Annie Julia Wyman, una laureata di Stanford con PhD in inglese ad Harvard che come accademica ha un grande interesse per la comicità, sulla quale lavora in prospettiva di una teorizzazione trans-storica (profilo LinkedIn; bio sul sito di Harvard).

Ji-Yoon Kim (Sandra Oh, Grey’s Anatomy) è la prima donna, peraltro di origine coreana, a diventare direttrice (chair, in originale) di un dipartimento di lingua e letteratura inglese in un’università, il fittizio Pembroke College, che sta perdendo rapidamente iscritti. Avere quel ruolo è per lei il sogno di una vita che si realizza, ma si trova subito a dover affrontare situazioni spinose. Il preside Paul Larson (David Morse) la informa che, dato che i fondi sono scarsi, deve mandare in pensione alcuni professori che, pur bravi, non attirano studenti. L’anziana studiosa di Chaucer, Joan Hambling (Holland Taylor), che riceve innumerevoli recensioni negative, è stata relegata in uno scantinato; le classi del professore di letteratura americana Elliot Rentz (Bob Balaban) sono così scarne che Ji-Yoon, per non ferire il suo ego, unisce le sue lezioni a quelle dell’emergente, grintosa, richiestissima collega Yazmin McKay (Nana Mensah), che aspira a diventare di ruolo e di cui lui però non condivide il metodo didattico. E poi c’è Bill Dobson (Jay Duplass), ammirato professore di modernismo che, vedovo da circa un anno, perde un po’ la rotta ora che la figlia parte per il college e lui rimane solo: Ji-Yoon gli vuole bene. Sul fronte di casa, la direttrice è separata dopo che il compagno si è trasferito per lavoro e l’ha lasciata per un’altra. È madre adottiva della bimba ispanica Ju-Hee (Everly Carganilla), detta Ju-Ju, a cui ogni tanto finisce per fare da baby-sitter il vecchio padre che le parla in coreano, Habi (Ji-Yong Lee).

Non c’è un momento di pausa in questa produzione che, scrive bene The Atlantic (qui), segue la struttura della piramide di Freytag: nello spazio di circa tre ore affronta con leggerezza bene molte questioni significative, anche se ritengo fallisca nella sua argomentazione principale.

Un punto forte della serie è che si vede che chi scrive ha una effettiva competenza letteraria che va al di là della citazione erudita. Troppo spesso certe professioni si pensa che possa farle chiunque perché il senso comune fa ritenere intuitivo un certo genere di sapere. In chiusura si fa una dichiarazione d’amore per le lettere: una storia è uno stato di possibilità, una conversazione, un’occasione per appropriarsi di un punto di vista diverso dal proprio. Dal primo all’ultimo, i personaggi sono convinti di svolgere un compito sociale rilevante insegnando lettere. Quando la scuola decide di assumere David Duchovny (The X-Files), nel ruolo di sé stesso, per sostituire Bill, in modo da attirare nuovi iscritti grazie alla sua fama, Ji-Yoon si mostra indispettita del fatto che, come syllabus questi vuole rispolverare la dissertazione di dottorato mai finita scritta decenni prima. Ma gli studi sono andati avanti. Gli snocciola (1.05) che nel frattempo ci sono stati teoria degli affetti, ecocriticismo, informatica umanistica, nuovo materialismo, storia del libro, studi di genere e teoria critica della razza…Quello che la serie fa qui è mostrare con consapevolezza che, forse dall’esterno appariranno statici, ma anche in questi studi ci sono ricerca e novità di rilievo per il pensiero. E in tutto il percorso diegetico – e in che modo necessiterebbe uno specifico approfondimento – ci si tiene in costante equilibrio nella necessità di dar valore allo stesso tempo alle radici passate e alle innovazioni di concetti e prospettive e metodologie. Mai l’ho visto fare come qui. Anche perché l’unica serie che io ricordi che si è avvicinata a queste tematiche è la troppo-presto-cancellata The Education of Max Bickford.

Un ulteriore punto di forza è la multiculturalità. Madre di origine coreana e figlia ispanica sembrano avere di fatto poco in comune, eppure le tradizioni di ciascuna convivono e si intersecano in modo pregnante. La piccola Ju-Ju viene accompagnata ad una cerimonia Doljabi, dove una bimba di un anno deve scegliere fra diversi oggetti, che rappresentano quello che le riserva il futuro. Ci sono uno stetoscopio (sarà medico), una matita (insegnante), un pennello (artista), una pallina (sportiva), una banconota (ricca), e una lunga corda (avrà lunga vita). Poi però in casa contemporaneamente si prepara per essere ambasciatrice culturale per la sua classe del messicano Dia de los muertos, e per Bill che la segue in queste tradizioni culturali hanno un impatto umano che va al di là dell’aspetto folkloristico. Per la piccola unirle è naturale e in chiusura - ATTENZIONE SPOILER – la vediamo capire un’osservazione fatta in coreano dal nonno, quando quest’ultimo era convinto che lei non lo intendesse.

Dove ritengo che l’intenzione degli autori fallisca è nella gestione della propria storia principale. Bill, durante una lezione seguitissima, videoregistrata coi cellulari, nel fare considerazioni sul potere e il fascismo, in modo satirico fa il saluto nazista. La reazione degli studenti rispetto a quel gesto innesca un focoso dibattito sulla libertà di espressione e sull’importanza del dissenso e culmina con la sospensione e successiva richiesta di licenziamento dell’insegnante.

Ora, la questione di Hitler mi è parsa pretestuosa. Questo non perché un evento del genere non possa verificarsi  - anzi, posso dire senza timore di smentite che una cosa del genere si è verificata nel mio liceo, con intenzioni molto meno sacastiche da parte dell’insegnante di quanto non si sia verificato qui e con una gestione dell’accaduto molto differente. Questo nemmeno perché non meriti di venire messa in discussione l’opportunità in toto di un simile gesto, anche se con un intento di certo non di supporto dell’ideologia che rappresenta. Però qui sta il punto, se dico che la questione è stata pretestuosa è perché, sebbene la lettura che ne è stata fatta sia stata pronazista, allo spettatore è evidente senza alcunissima ombra di dubbio che non era minimamente intesa in quel modo, ma era di critica e di smacco. Forse non era appropriata comunque, e questo meritava di essere discusso – ovvero quali siano i limiti dell’espressione del pensiero e in che modo specifici registri di espressione possano colorare una stessa locuzione con un significato piuttosto che con un altro – ma non si sono di fatto messi in contrapposizione due modi di pensare diversi.

Il professore e gli studenti la pensano allo stesso modo qui rispetto al nazismo, ma il professore lo ha comunicato in un modo che non è stato decodificato come era inteso. E qui sta per me il fallimento, che è un fallimento pedagogico. Questo quei professori dovevano insegnare. La serie sottoscrive l’idea per cui l’educazione (e tanto più quella universitaria) non è solo passiva assimilazione di contenuti, ma è una formazione a un metodo e un allenamento a recepire fatti e traduzioni culturali in modo attivo e critico, tenendo conto delle complessità. Qui c’è un atteggiamento di un ragionevole dissenso verso un contenuto tossico, ma contemporaneamente appunto pretestuoso, perché incapace di legare quel gesto al significato che aveva nel contesto con cui è stato utilizzato. Se fosse stato un gesto fatto sul serio sarebbe stato diverso ma così si mostra solo un corpo studenti privo degli strumenti necessari per leggere appropriatamente un elemento del discorso. Potevano osteggiarlo ugualmente appunto, nella sua opportunità – i riferimenti al nazismo sono purtroppo sufficientemente ubiquitari da rendere rilevanti simili disquisizioni. Così gli autori hanno solo trovato una facile scappatoia per creare un contrasto senza compromettere un co-protagonista dandogli un modo di pensare scomodo (che poteva essere un tema anche meno problematico di questo). Per aver costruito gran parte della sua narrazione intorno a questo nucleo, si sono curate troppo poco le argomentazioni. Un piano di speculazione importante poteva essere dato dalla dissonanza fra quello che è e quello che sembra, e sul ruolo dell’apparire in un certo modo, tanto più in una società visuale come la nostra – tangenzialmente infatti questi temi sono emersi. Insomma, l’agone intellettuale ingaggiato doveva essere combattuto su un piano diverso.

Ci sono in nuce variegate riflessioni sul ruolo delle donne e delle minoranze etniche, su come è cambiato nel tempo, in un ambiente tradizionalmente dominato da uomini bianchi restii al cambiamento, in modo minore anche sull’ageismo – Joan, declinata prevalentemente in modo comico, ne è un esempio; si desume dalle poche parole della moglie del rettore; Yaz, in modo molto interessante, rimarca a Ji-Yoon che si comporta nel suo ruolo come se finalmente le concedessero di averlo, non come se lo meritasse. Emerge anche la flessibilità del mondo accademico americano, comparata al nostro.

La protagonista principale ama insegnare, ma quello che deve imparare a navigare sono le richieste burocratiche, le pubbliche relazioni, le pressioni di budget e di gestione del personale… Sono questioni che non ha il lusso di poter ignorare, ma alla fine in ogni caso quello che si può evidenziare – e si rileva nella protesta di Bill nei confronti del tentativo di influenzare la scelta della bimba di un anno nella cerimonia doljabi come dalle parole di Ji-Yoon che lo difende dinanzi alla commissione disciplinare – è che la serie crede in quello che Martha Nussbaum, nel suo “Not For Profit” chiama un paradigma di sviluppo umano contrapposto ad un paradigma orientato alla crescita economica, un’argomentazione non da poco per una serie frizzante di circa tre ore totali che spero rinnovino per una seconda stagione.