sabato 27 novembre 2021

COMPLEX TV, di Jason Mittell: un must-read

Se un solo libro di televisione intendete leggere, fate che sia questo: Complex TV, di Jason Mittell (Minimum Fax, 2017).

Scrivo in termini personali come raramente faccio.

Ho un distinto ricordo di me alle elementari che penso “la mia maestra non capisce niente di televisione”, io che all’epoca facevo già le schede dei cartoni animati. Come farle, per i libri, ce lo aveva insegnato una supplente di terza elementare. C’è voluto molto tempo prima di incontrare qualcuno che “parlasse la mia lingua”, televisivamente parlando. La maggior parte dei critici colti erano troppo snob nei confronti del medium, e non riuscivano a coglierne l’essenza. La gran parte della gente comune è spesso così tutt’ora. Per i più la televisione in passato era la sorella stupida del cinema, non qualcosa con una propria identità. Ora sono grande e non mi disturba o ferisce come quando ero bimba, ora mi irrito solo quando un simile atteggiamento viene da presunti esperti o da persone la cui opinione dovrebbe valere più di quella di qualcun altro in virtù del proprio ruolo culturale in altri settori, come è stato il caso quando ho attaccato pubblicamente lo scrittore e poeta Hans Magnus Enzensberger  che presenziava alla manifestazione culturale che si tiene a Pordenone chiamata “Dedica Festival”, nell’orami lontano 18 marzo 2010: aveva snocciolato troppi insulsi luoghi comuni. Avevo pubblicato un piccolo articolo in proposito per il giornale per cui scrivevo, e magari lo riproporrò qui sul mio blog, in futuro. Suppongo che in passato la maggiorana degli studiosi fosse anche culturalmente troppo vecchia e rigida per comprendere a pieno qualcosa con cui non erano cresciuti. Quei pochi che magari ci provavano anche, e penso ai vari “Espresso” e “Panorama” e affini, con le varie donne nude in copertina, con tutto quello che si porta appresso un atteggiamento accettante di questo genere di confezione, erano troppo respingenti in toto per essere presi sul serio da una giovane donna. E anche lì, quello che leggevo raramente dimostrava di comprendere i meccanismi del mezzo che fruivano come autonomi, con proprie regole funzionali ed estetiche. Non so nemmeno di preciso quando io sia riuscita ad averlo, ma non è prima degli anni del liceo che sono riuscita a leggere “Television: the critical view – fourth edition”, difficile com’era all’epoca recuperare qualunque tipo di materiali, e mi sono sentita finalmente meno sola. 

Ora c’è una vibrante comunità di critici e accademici, e talvolta anche di semplici appassionati,  spesso più brillanti e acuti di me che ho comunque una comprensione di queste tematiche nel sangue, sono la mia identità, sono nel mio DNA culturale più di ogni altra realtà, e che con l’espandersi quantitativa degli universi narrativi seriali e per le mie difficoltà di salute, in qualche caso mi sento in ritardo, sempre sommersa e in difficoltà a stare al passo. Bene così. Io so di sapere, ma so di non sapere. Si dice che se si è i più brillanti in una stanza, si è nella stanza sbagliata. Io mi trovo a mio agio in molte stanze, e lo stimolo migliore viene dal dialogo, dal confronto, dall’accettazione e convivenza di asserzioni contrapposte ugualmente vere. Evviva.

Quando poi leggo libri come quello citato in apertura sono finalmente a casa. Mi sento profondamente in sintonia con Mittell, di cui ho anche avuto l’onore di essere la traduttrice per la raccolta saggistica “Cult TV”. Ha un inglese elegante, e lo consiglio in originale, anche se in questo caso l’ho letto in italiano (un’offerta lampo dell’edizione digitale, ammetto). La traduzione è molto buona, anche se non capisco perché si sia deciso di tenere producer invece di produttore. Forse indica una figura professionale differente rispetto all’italiano e io, a dispetto delle mie vantate conoscenze non me ne rendo conto? Ripenso alla mia tesi di laurea: nel caso di “opinion” della Corte Suprema americana e “opinione” dei giudici nostrani aveva senso tenere “opinion” perché ha un valore giuridico diverso rispetto ad “opinione”.  È una situazione simile?  Se avete una risposta, illuminatemi. La sola volta in cui la traduzione mi ha deluso è quando ho visto scritto “il critico Emily Nussbaum”, invece de “la critica Emily Nussbaum”: è una donna, e capita che abbia vinto il Pulitzer per i suoi articoli di critica televisiva. Sto a pignolare.

Sono in sintonia con Mittell – anche se a me Mad Men piace molto, mentre a lui no – e sono appagata dal fatto che ci siano studiosi che riescono a ragionare in questi termini rispetto al piccolo schermo. Non è il primo e non è l’unico, nel mare magnum accademico attuale, ma è sicuramente una voce autorevole che è al contempo lucida, aperta e innovativa. Riesce a offrire categorie di indagine e di riflessione stimolanti e utili.

Qui, in un testo modulare – come lo definisce appropriatamente Barra in una postfazione - di cui spiega in chiusura la costruzione ed evoluzione, parlando di serialità ci introduce alla categoria di “TV complessa”, di cui indaga i meccanismi narrativi, prendendo le distanze dalla più problematica dicitura di “TV di qualità”. L’approccio scelto è quello della poetica (storica, cognitiva, orientata al lettore), quindi cerca di capire come funziona un testo guardando ai modi stilistico-formali in cui costruisce il suo senso. Lo fa in una prospettiva che non si limita al testo, ma è anche profondamente legata al contesto perché fa riferimento a una visione culturale in cui interagiscono autori, industria, critica e pubblico concorrendo a plasmare lo storytelling, e in cui un programma è l’origine di una rete intertestuale dove hanno un ruolo anche i paratesti, che considera parte integrante della testualità televisiva nella misura in cui un testo costruisce il suo significato quando circola e viene fruito e diventa e vive in pratiche culturali attive.

Questo libro è denso di spunti, su inizi e fini, personaggi, eventi, temporalità. L’idea dell’estetica funzionale fa da filo conduttore, ovvero il principio per cui la narrativa seriale televisiva complessa spinge gli spettatori non tanto a chiedersi che cosa avverrà, e quindi ad essere trasportati in un mondo finzionale credibile, ma come è stato realizzato, giocando perciò con il senso di stupore nell’osservare gli ingranaggi in azione. Lo spettacolo è l’effetto speciale narrativo.

Fra le riflessioni più stimolanti c’è quella sull’autorialità, un tema spinoso in un medium collaborativo come la televisione. Utile è il concetto della funzione dell’autore desunto. L’Autore è creato dagli spettatori in dialogo con il testo, viene appunto “desunto” creando un ipotetico “loro” di responsabili dello storytelling, è quindi costruito dal testo, ma anche attraverso l’atto di ricezione e quindi dalla fruizione e dai discorsi intorno al testo stesso.

Infine un altro aspetto che apprezzo molto, e questa non è la prima volta che Mittell lancia un simile appello: auspica una maggiore trasparenza da parte degli studiosi nel senso di non avere timore di esprimere un giudizio valutativo nei confronti delle serie di cui parlano. Non farlo non rende lo studio più scientifico, ma al contrario nasconde un elemento importante nella discussione di un’opera culturale. “Un’obiezione mossa di frequente al giudizio critico è che esso crea e alimenta delle gerarchie culturali, perché valorizza una pratica culturale a scapito di un’altra, attraverso una modalità di distinzione che, come dimostrato da Bordieu, rinforza i rapporti di potere sociale. Dobbiamo comunque spingerci al di là di una logica binaria, e quindi riduttiva, per la quale il valore sarebbe un «gioco a somma zero», in cui lodare un qualsiasi canone scredita il suo opposto”. Concordo in pieno: è approccio ideale, per quanto mi riguarda.         

Sicuramente sarà una strenna graditissima a chi è appassionato di TV, se siete in cerca di idee in quel senso, ma penso possa anche essere una scoperta per chi non ha idea di che cosa facciano i television studies, che senso abbiano. Il mio unico scrupolo in questo caso è che non riesco ragionevolmente ad avere una percezione di come possa essere recepito da lettori che non conoscono per nulla i testi che cita. Non credo che ci fosse un solo titolo da lui menzionato che io non conoscessi o su cui magari non avessi anche scritto. Se lo spettatore medio dubito conosca magari titoli come Kingpin (che io ho amato molto), Rubicon (ne ho parlato qui) o Boomtown (che apprezzo molto per una narrativa che ricordo di aver pensato “alla Picasso”, ma che non ho seguito interamente), è anche vero che questi sono citati en passant, e che le analisi più approfondite sono su mostri sacri come Lost, Breaking Bad, The Wire, I Soprano, che mi aspetto che il fruitore medio interessato abbia, se non visto, almeno più o meno presenti. Se così non fosse, ho l’impressione che il lettore comunque potrebbe capire, ma magari mi sbaglio, o magari parte delle sue argomentazioni non riescono altrettanto a centrare il bersaglio perché non si capisce di che cosa si sta parlando. Salvo questa riserva, penso che sia una lettura pregnante. Un must-read.         

giovedì 18 novembre 2021

TRIGONOMETRY: una traide poliamorosa

In Trigonometry, della BBC2 (2020), Ramona (Ariana Labed), detta Ray, è una piccola stella del nuoto sincronizzato. Un giorno ha un grosso incidente e deve lasciare l’attività. Lei, francese, decide di vivere a Londra e prende in affitto una stanza nell’appartamento di Kieran (Gary Carr, Downton Abbey, The Deuce) e Gemma (Thalissa Teixeira), che sono a corto di denaro e per questo decidono di aprire la propria casa a un’inquilina. Lui è un paramedico, che spesso si trova in situazioni anche fisicamente pericolose, lei sogna di ristrutturare e aprire un piccolo bistrò, l’Ampersand, cucinando per gli avventori. Presto fra i tre nasce una forte reciproca attrazione, che, se pure con difficoltà, diventa presto amore conclamato, e i tre cominciano una relazione di poliamore, uscendo allo scoperto anche con le persone a loro care.

La serie si sviluppa principalmente sui tre personaggi principali, indaga il triangolo, che come si rammenta a chiusura di serie è studiato dalla trigonometria, da cui il titolo. È considerato la figura geometrica più forte, ci viene detto, per quanto si distinguano fra triangolo equilatero, isoscele e scaleno. Questo è perciò lo studio di un triangolo relazional-amoroso. Ci sono dei personaggi secondari, come la madre di Ray o la sua migliore amica Moi (Isabella Laughland), il padre e il fratello di Gemma, la collega e la madre di Kieran. Hanno comunque tutti un ruolo marginale perché le vicende drammatiche sono appunto fortemente concentrate sulla triade.

Diversamente da You Me Her, dove c’è subito un rapporto sessuale, e i protagonisti lo  fanno per la prima volta separatamente, qui c’è una combustione lenta, c’è una reciproca attrazione che viene inizialmente negata, solo accennata, e che diventa sempre più forte, e quando alla fine i personaggi la confessano gli uni agli altri, è prima sul piano sentimentale (Ray dice che è innamorata di loro in 1.03), poi su quello fisico, e quando viene finalmente consumata avviene a tre, per la prima volta, e solo a metà della prima stagione (alla fine di 1.04, con la 1.05 che comincia con loro tre a letto insieme).

Gemma e Kieran ammettono in modo più esplicito il proprio amore nei confronti di Ray in 1.05. Da poco sposi, vanno in luna di miele da soli, e fanno ghosting a Ray: non le rispondono al telefono, ignorano i suoi messaggi. Si rendono conto di averle spezzato il cuore e si giudicano cattive persone, ma sono in difficoltà sul modo migliore di comportarsi. La conclusione, molto romantica, li vede andare loro questa volta a dichiararsi da lei, portandole una fetta di torta nuziale a cui agli sposini è stata aggiunta la statuina di lei, presa da uno dei suoi trofei di nuoto sincronizzato. La scrittura è giocata come la più classica delle romantic comedy solo che è a tre, e a gestire la relazione non sono solo due persone quindi, ma una coppia con una terza persona.

Sebbene si interroghino sull’accettabilità sociale dei loro sentimenti e della loro relazione, e si pongano quesiti anche sull’aspetto logistico concreto, quello che i personaggi non mettono mai in dubbio è la verità e l’autenticità dei propri sentimenti e della propria attrazione. Forse è tipico delle fasi più belle dell’innamoramento non prevedere la possibilità che rapporto un giorno finisca e che ci sia disamore, però questa possibilità loro non sembrano contemplarla. Anche se gli altri lo fanno per loro. Sul piano puramente emozionale, la serie è molto più ottimista di quanto sarei io, che vedrei sicuramente aumentate difficoltà nel gestire un rapporto a tre, anche solo per il fatto che ci sono più persone da tenere in considerazione e quindi potenzialmente più ostacoli. In questo si è piuttosto ingenui e favolistici. Intenzionalmente, ritengo.  

Quando Keiran e Gemma decidono di sposarsi, affrontano in modo molto esplicito la questione, e dalle loro parole è chiaro che lo standard verso cui giudicano la possibilità di esprimere il proprio amore è sempre nei termini della monogamia eteronormativa, anche lì dove è chiaro che il desiderio invece li porta a pensare a tre. In questo senso, così come nella decisione di fare una sorta di coming out, c’è l’interrogarsi della serie su che cosa sia legittimo e che cosa no.

Non ci sono dubbi però che vengono rappresentate come tre persone innamorate le une delle altre, e quella che viene mostrata è autenticamente una famiglia, un’opzione relazionale meno usuale, ma non di meno valida, piena di momenti romantici così come di momenti che spezzano il cuore, e di situazioni in cui ci si dà piacere e sostegno così come ci sono difficoltà che si affrontano insieme: siano esse fisiche, economiche o quotidiane, è una relazione che funziona e che dà felicità ai coinvolti, per quanto possa apparire bizzarra, o poco appropriata agli altri. Si dichiarano di essere gelosi gli uni degli altri, anche se devo dire che non l’ho visto. Inizialmente vedevo più “compersione”, come chiamano nell’ambiente poliamoroso la gioia empatica che si prova quando una persona che amiamo è felice con un suo altro partner. Ma in realtà anche questa l’ho vista poco, perché l’ho vista proprio più come un’armonia concepita sempre a tre.

Ho apprezzato il fatto che sia stata trattata questa tematica che rimane ancora taboo, mostrando anche le varie reazioni sociali – il giorno del suo compleanno, Ray (1.07) deve trovare il modo di spiegarlo alla madre; la collega di Kieran è fin troppo entusiasta all’idea di trovare qualcun altro che ha questo tipo di relazione. Se ne parla un po’ di più del passato – The Good Doctor nella sua quarta stagione ha introdotto un personaggio che si definisce poliamoroso – ed è indubbiamente un modo di allargare la finestra di Overton, e “normalizzare” forme d’amore esistenti viste socialmente con sospetto. Sebbene ben costruita e ben recitata, con i personaggi molto convincenti nel loro amore, la serie è tuttavia priva di mordente, stanca.

mercoledì 10 novembre 2021

PURE: coraggiosa e audace

Pure (su RaiPlay in Italia, ma dell’inglese Channel4), una serie britannica di una sola stagione (non è stata rinnovata) di sei episodi basata sull’omonimo libro di Rose Cartwright, ha come protagonista Marnie (Charlie Clive, al suo primo ruolo televisivo), una ventiquattrenne tormentata costantemente da pensieri sessuali intrusivi da quando aveva 14 anni.

Quando questi costanti flash di atti sessuali, in cui lei a volte è coinvolta, a volte è solo spettatrice, in occasione dell’anniversario dei suoi genitori cominciano a riguardare anche loro, si spaventa ancora di più e scappa dalla Scozia a Londra cercando una via di fuga. Lì almeno, fra milioni di persone, non deve dimostrare niente a nessuno e può essere chiunque.  

È un dramedy, e c’è molta leggerezza anche nel trattare una questione delicata e difficile. Lei a un certo punto dice di essere come il protagonista de ll Sesto Senso, solo che invece di vedere persone morte, lei vede persone nude (1.01). Si sghignazza, ma a quel punto è già molto ben chiaro come sia una sofferenza per lei vivere tutto questo, e di come lo sarebbe per chiunque. Ipotizza di essere lesbica, e di non ammetterlo nemmeno con sé stessa, ma queste fantasie che non riesce a controllare le impediscono anche di fare sesso: quando si trova con la testa fra le gambe di una ragazza per la prima volta, immagina di farlo con sua madre e non riesce a proseguire. Non esattamente una goduria.  E fantasie con uomini mettono in crisi anche l’ipotesi che sia lesbica. “Non so che cosa non vada in me”, si dice, e si vede che è un tormento. “Non è sexy, è disgustoso” (1.02) quello che le accade, per come lo vive.

Non trova sollievo nemmeno dal partecipare a un gruppo di auto-aiuto (1.02) per persone dipendenti dal sesso o dalla pornografia. Gli altri la guardano senza riconoscerla e lei stessa si rende conto che non appartiene a nessun gruppo. Finché non sembra riuscire a dare un nome a quello che ha: OCD – disturbo ossessivo compulsivo, che per sé stessa aveva escluso. Il titolo lo avevo immaginato come un riferimento alla purezza in modo ossimorico, visto il problema con cui convive la ragazza, ed è probabile che anche questa lettura sia voluta, ma in realtà viene proprio da “Pure O”, O puro, noto anche come OCD puramente ossessivo, l’etichetta che viene data a quello di cui soffre. Finalmente prova sollievo. Ma non è sufficiente, rimane fortemente confusa: perché lo immagina, se non desidera farlo? Come distinguere se si tratta di una compulsione patologica o se è genuinamente attratta da qualcuno e arrapata? (1.04)

Alle normali difficoltà di scoprire chi si è e che cosa si cerca in una relazione e nel rapporto con gli altri si aggiunge tutta una dimensione che fa interrogare la protagonista su sé stessa e se mai possa avere una vita normale. C’è paura, disorientamento e solitudine. E si medita anche sull’intimità, su come sia il poter confessare a qualcuno le proprie vulnerabilità e quello che ci spaventa di noi stessi, cosa che lei non riesce a fare con l’amica Shereen (Kiran Sonia Sawar, The Nevers) che la ospita a casa sua, o con l’amica storica Helen (Olive Gray) che va a trovarla (1.05), ma che invece le viene naturale con l’amico appena conosciuto nel gruppo di auto-aiuto, Charlie (Joe Cole, Black Mirror), che ha una storia secondaria, con il quale si trova in sintonia per avere entrambi problemi “inconfessabili” perché socialmente tabù. Poi la gente magari ti sorprende. Il messaggio finale è infatti comunque di speranza: per trovare veramente se stessi bisogna avere il coraggio di mostrare agi altri chi si è veramente, anche o forze soprattutto quando mostrarlo ci fa paura.

La sceneggiatura di Kirstie Swain, che ha adattato il libro, ci offre una serie su sessualità e salute mentale che non è azzardato definire coraggiosa e audace. 

lunedì 1 novembre 2021

EVIL: la seconda stagione

Anche più che nella prima, ha continuato a essere godibilissima la seconda stagione di Evil (che dalla CBS si è spostata alla Paramount+) dove, attraverso l’espediente di un procedurale in cui il trio di protagonisti deve indagare sulla validità di presunte possessioni demoniache, eventi sovrannaturali vari e affini, esamina questioni pesanti come la natura del male, il libero arbitrio, psicologia e spiritualità, traumi e paure, fede e ragione…E per certi versi sarà anche considerata una sorta di X-Files più moderna e religiosa, ma vede i protagonisti molto personalmente compromessi, e immersi in modo personale tanto quanto i personaggi della settimana il cui caso devono investigare. Nella seconda stagione in particolare emergono i loro demoni più oscuri.

David Acosta (Mike Colter, Luke Cage), che è prossimo all’ordinazione sacerdotale della season finale (2.13), è tormentato da visioni che cerca di decifrare. E a pungolarlo è anche il demoniaco Leland Townsend (Michael Emerson, Person of Interest, Lost). Tutte le interpretazioni sono molto convincenti, ma come sempre Emerson è sinistramente magnetico, creepy, minacciosamente umoristico anche: qualunque scena con lui è must-see, non si riesce a smettere di guardarlo. Schernisce, irride, pungola, stuzzica, e si infiltra nella vita dei personaggi: un vero incubo.  Lo scettico Ben (Aasif Mandvi, The Daily Show), che non crede ma è stato comunque cresciuto in una famiglia dove la madre era una devota musulmana, deve fare i conti con quella eredità spirituale, pur rigettandola, e permette alla serie di espandere il suo sguardo al di là della chiesa cattolica, che qui è il loro “datore di lavoro”. Perfino il vescovo Marx (Peter Scolari, recentemente scomparso) è stato al centro di un episodio in cui sono venuti a galla i suoi fin troppo umani peccati. 

Chi in quest’arco è stata più messa sotto pressione è stata la psicologa Kristen Bouchard (una spettacolosa e versatile Katja Herbers, Westworld). Si lamenta il fatto che mentre agli uomini ormai è stato permesso di avere dei forti antieroi (The Sopranos e The Shield sono i primi due programmi che di primo acchito mi saltano alla mente), per le donne non è stato finora altrettanto facile. Ho apprezzato intellettualmente, ma sono stata anche moralmente in difficoltà ad accettare una “eroina” che ha ucciso in modo premeditato l’uomo che minacciava le sue figlie. La stagione si apre proprio a ridosso di quell’atto. Aveva tutte le giustificazioni possibili, ma è diventata un’assassina, tormentata lei stessa da quanto ha fatto. Non un terreno facile su cui tenerla. Si rivolge al suo psicoterapeuta, il dottor Bogg (Kurt Fuller). E attraverso sogni e visioni e altri espedienti il rimorso di lei e la paura sono venuti a galla, fino al crollo (2.13). Il suo comportamento è cambiato, è diventato aggressivo e violento in alcune occasioni, ed è stato notato. La scomodità della sua posizione è stata tanto più rilevante in quanto lei stessa lo condanna razionalmente e non vuole che diventi l’insegnamento che lascia alle sue quattro figlie. La serie rimane ambigua, e questa è parte della sua forza.

Ogni puntata si apre con un “caso della settimana” che viene annunciato da un libro pop-up di cose terrificanti che ha il titolo dell’episodio. Ha dialoghi intelligenti e storie che vengono direttamente dai titoli dei giornali, così come i King, che qui sono ideatori e produttori esecutivi, ci hanno abituato in The Good Wife e The Good Fight. Non condivido che abbia un livello di caos pari a The Leftovers, per quanto senza essere pretenzioso, come ha twittato Emily Nussbaum, ma sottoscrivo il fatto che continui a sorprendere per la sua capacità di miscelare gonzo e filosofico. A volte si vorrebbe che quest’ultimo aspetto fosse maggiormente approfondito. La linea di fondo sembra essere, a dispetto di tutto lo scetticismo, che c’è una guerra in corso fra bene e male, una guerra spirituale che diventa tanto più fisica quanto ci sia avvicina alla sua realtà, verità, essenza.  

E i personaggi che incarnano varie prospettive sono sempre messi in crisi essi stessi.

Un tema caro già nella prima stagione è stato quello della misoginia. Questo giro torna ad esempio in “S sta per Silenzio” (2.07), quando si recano in un convento dove i monaci hanno fatto voto di silenzio e dove lavora una giovane suora al loro servizio, che stringe un’istantanea gioiosa amicizia con Kristen. La disparità e la segregazione fra uomini e donne così come il trattar male delle donne non viene accettata perché quello è il loro modo di fare, ma viene sottolineata in più passaggi. E l’introduzione dell’apparentemente mite Sorella Andrea (Andrea Martin), particolarmente ostile, dà un ulteriore rinforzo femminile alla serie.

La storyline orizzontale di sottofondo, già ripresa dalla precedente stagione, che vede la squadra credere che i demoni abbiano il controllo di una clinica della fertilità e corrompano spiritualmente gli ovuli delle donne in attesa, ancora deve trovare una risoluzione, e il coinvolgimento sempre maggiore della madre di Kristen, Sheryl (Christine Lahti), offre molto materiale per una prossima attesa terza stagione.