martedì 29 aprile 2025

THE RESIDENCE: uno spassoso whodunit

Ispirata all’omonimo libro saggistico scritto da Kate Andersen Brower, The Residence di ShondaLand, ideata da Paul William Davies (Scandal), ha al centro delle vicende una investigatrice troppo magnetica e iconica per essere sfruttata per una sola stagione: Cordelia Cupp (Uzo Aduba, Orange is the New Black) è quel genere di detective alla Sherlock Holmes, Miss Marple e Colombo che risolve i casi grazie alla sua attenta capacità di osservazione, ascolto e deduzione. Talvolta pare vacuamente interessata ad altro, nel suo caso al birdwatching, ma puoi star certo che non si è persa un dettaglio.

Non si sovverte un genere, lo si frutta al meglio. Il giallo ha perciò un gusto antico, quello in cui tutti i colpevoli sono riuniti in un solo posto, secondo la classica tradizione di Agatha Christie, e in questo caso il luogo è d’eccezione: la Casa Bianca. La narrazione si muove su due piani temporali: la notte dell’omicidio dell’usciere capo A.B. Wynter (Giancarlo Esposito, Breaking Bad, Better Call Saul, ineccepibile in un ruolo che doveva essere di Andre Braugher, alla cui memoria è dedicata la season finale), responsabile di tutto il personale della residenza presidenziale, che aveva dichiarato poche ore prima “sarò morto prima della fine della serata”, quando ad indagare viene chiamata dal capo della polizia Larry Dokes (Isiah Whitlock Jr.) proprio Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, che viene affiancata dall’agente speciale dell’FBI Edwin Park (Randall Park, WandaVision), nonostante il consigliere capo Harry Hollinger (Ken Marino, Party Down) spinga affinché la morte venga dichiarata un suicidio; e c’è poi una seconda linea temporale, quella di un'udienza del Congresso durante la quale il senatore Aaron Filkins (Al Franken) ascolta i vari testimoni di quanto è accaduto in quell’occasione, spesso interrotto dalla senatrice Margery Bay Bix (Eliza Coupe, Happy Endings), che accusa l'amministrazione del presidente Perry Morgan (Paul Fitzgerald) di aver coperto l’avvenuto.

In sé la serie non è qualcosa di cui correre a raccontare in giro, ma è un cozy mystery infarcito di umorismo, è perciò gradevole con un misto di mistero e humor, politica dei rapporti e gossip sulle relazioni fra i sospettati, anche se Cordelia si rifiuta di chiamarli così; la dimora di 1600 Pennsylvania Avenue è un personaggio a sé, ricostruita anche con un modellino che ce ne fa vedere la sezione. Sono 132 stanze, e i potenziali colpevoli sono ben 157, dal momento che l’omicidio si è verificato in occasione di una cena di stato piena di ospiti organizzata dal presidente e dal First Gentleman, il marito Elliot Morgan (Barrett Foa),  con l’obiettivo di risanare rapporti incrinati con l’Australia – curioso notare che ad interpretare il primo ministro australiano è Julian McMahon (Nip/Tuck), che nella vita reale è il figlio di un ex-primo ministro australiano William McMahon. Fra gli ospiti ci sono Kylie Minogue (che interpreta se stessa) e Hugh Jackman (che in realtà non compare). Lilly Schumacher (Molly Griggs) segretaria del presidente, che ha le idee molto chiare su come vuole che le cose cambino, e Colin Trask (Dan Perrault), agente dei servizi segreti esilarante nel suo vagamente patetico timore reverenziale, cercano di tenere tutto sotto controllo.

A “dare l’allarme” è stato il  grido di shock della suocera del presidente, Nan Cox (Jane Curtin), che ha trovato il cadavere. Chi sarà il colpevole fra i numerosi idiosincratici personaggi? Molti avevano litigato con il leale e severo Wynter quella sera. L’assistente usciere Jasmine Haney (Susan Kelechi Watson, This is us) che fa da cicerone e spiega come funziona la gestione della casa, che sperava di prenderne il posto prima che lui rinunciasse ancora alla pensione? La valletta Sheila Cannon (Edwina Findley) perennemente ubriaca che rimpiange l’amministrazione precedente e le è stato impedito di interagire con gli ospiti durante la serata? Il pasticcere Didier Gotthard (Bronson Pinchot) la cui creazione è stata relegata in una stanza meno prestigiosa o la chef Marvella (Mary Wiseman) che arrabbiata lo aveva minacciato di morte? Magari il fratello del presidente Tripp Morgan (Jason Lee) che vive lì in modo parassitario? Forse la cameriera Elsyie Chayle (Julieth Restrepo) o l’ingegnere-idraulico Bruce Geller (Mel Rodriguez)? Non lo rivelerò se non per dire che l’immagine del/la colpevole è fra le immagini dei personaggi indicati della locandina della serie.

Cordelia Cupp, tutta sicura di sé al punto da essere perfino arrogante, e arguta nelle battute di spirito, impaurisce con la sua calma gli interrogati. Il più delle volte si siede in silenzio davanti a loro che si contorcono a disagio e finiscono per spifferare tutto. È gioiosa perché sa di essere brava. I tempi comici sono impeccabili ed Edwin Park le fa da spalla alla perfezione, sempre un passo indietro e a rincorrerla sia fisicamente che metaforicamente nei suoi ragionamenti, un po’ impressionato un po’ intimorito. Fa uscite inaspettate, come quando alla domanda di come definisca il sesso dice che è qualcosa che le piace di più dei beni immobili e meno del bird-watching. E quest’ultima passione travolge tutto, perché è sempre un momento buono per praticarla e perché fornisce ottimi paragoni in quello che sta per dire, spesso davanti all’esasperata reazione degli altri. Le prove si accumulano, le relazioni fra i vari personaggi vengono alla luce.  

Uno spassoso whodunit di puro intrattenimento.  

sabato 19 aprile 2025

RIVALS: salace, gustoso intrattenimento

Lo spassoso, esuberante, gustoso, eccessivo Rivals (Disney TV+), ambientato nel mondo della concorrenza spietata fra le televisioni indipendenti inglesi negli anni ’80, offre una critica metatestuale a se stessa nella season finale della prima stagione (1.08). Due emittenti si stanno scontrando per ottenere la concessione: la Corinium, che l’ha avuta finora, e la neonata Venturer. Quest’ultima si vende come l’immagine del focolare intorno a cui ci si raduna per sentire delle storie. Il piccolo schermo, sostengono, ha il potere di riunirci, di portare nuove idee, aiuta a perdonarci, è una finestra sulla vita delle altre persone, cerca la verità e si pregia di integrità; è in definitiva la più grande forma d’arte creata dall’uomo. La prima di contro, che definisce questa posizione una di “lirismo saccente”, offre al contrario quello che il pubblico vuole e dietro a una facciata di moralità ci sono manipolazioni e puro interesse arrivista, dove ci si finge ipocritamente distanti da volgarità e violenza si nasconde il letamaio di abusi ignorati perché più comodo per gli affari. A quale modello si ispira Rivals? A quest’ultimo  ̶  rivalità, tradimenti, edonismo  ̶  sembra strizzarci l’occhio: mentre nella diegesi di sottofondo su uno schermo scorrono le immagini del magniloquente discorso pro-nobiltà della televisione, assistiamo a un omicidio non intenzionale; o così almeno pare – nel libro, che non ho letto, questa scena pare non ci sia e che il personaggio sia non solo vivo in seguito ma pure significativo nello svolgimento della trama; cosa ne farà il programma? Cerchiamo il piccante, il torbido, l’osceno. L’ironia e l’umorismo sono quello che permettono a Rivals di scollarsi da quel genere vagamente soap-operatico in cui si muove, pur avvalendosi dei suoi stilemi, perché contemporaneamente lo irride. È come se ammettesse di essere tutto quello, una Dallas o Dynasty dei giorni mostri in salsa British, ma smaliziata per averne la piena consapevolezza e attenta a non condonarla nei suoi aspetti più beceri, se non per un momentaneo innocuo divertimento, posizione che la redime.

Siamo nel 1986, Lord Tony Baddingham (David Tennant, Doctor Who, Broadchurch, Good Omens), uno che sul caminetto ha inciso il motto della famiglia “pacifico è il Paese che è ben armato”, sposato con Monica (Claire Rushbrook), per inalzare il profilo della propria emittente televisiva, la Corinium, il cui più grande successo è “Quattro uomini in campagna” la cui attrattiva è mostrare uomini mezzi discinti, assume l’apprezzato giornalista della BBC Declan O'Hara (Aidan Turner, Poldark, Being Human), a cui viene affidato un suo talk show, che si trasferisce in una grande casa di campagna nella bucolica fittizia contea di Rutshire, nella regione delle Cotswolds nel sud-ovest dell’Inghilterra, con la moglie Maud O'Hara (Victoria Smurfit) ex-attrice che già in passato lo ha tradito e a cui la scelta del marito sta stretta, e alle sue figlie, Agatha detta ‘Taggie’ (Bella Maclean), che aspira ad avere una sua attività di catering, e Caitlin (Catriona Chandler), che presto va in collegio. Lord Baddingham assume anche una talentuosa produttrice americana, Cameron Cook (Nafessa Williams) con cui intreccia una relazione, e mira a distruggere, dal momento che non riesce ad averlo dalla sua parte, un suo grande rivale che non sopporta e verso il quale schiuma di rabbia, l’adorato donnaiolo perennemente arrapato Rupert Campbell-Black (Alex Hassell), ex-campione olimpico di equitazione diventato poi politico conservatore e ministro dello sport, di cui si prende una gran cotta Taggie e che dopo un’iniziale ostilità con Declan ne diventa amico, rivelandosi più corretto di quanto non ci si aspettasse da lui. Grande amica di Rupert, e prima a salutare la famiglia di Declan appena si insediano nella nuova case, è Lizzie Vereker (Katherine Parkinson, The It Crowd, Humans), scrittrice di romanzi rosa frustrata da un marito che la ignora, James (Oliver Chris), un vanesio conduttore alla Corinium, e presto sviluppa sentimenti romantici per il ben più attento Freddie (Danny Dyer), un imprenditore di successo nel campo dell’elettronica, sposato senza amore con Valerie (Lisa McGrillis) a cui interessa prevalentemente la scalata sociale. Qui il trailer ufficiale.  

Basato sull’omonimo romanzo del 1988 di Jilly Cooper e con una sigla che è un incrocio fra The Morning Show e Bad Sisters, Rivals, già rinnovato per una seconda stagione, si lancia con gusto spavaldo e gioiosamente scandaloso nell’arena di rivalità, appetiti rampanti e maligni dispetti del “decennio dell’avidità” e dell’ostentazione dell’opulenza, in un calibrato mix di nostalgia e satira, radicato in una recitazione eccellente. Rivals è un piacere nella misura in cui riesce ad essere senza vergogna e senza scuse, nelle sfuriate di Baddingham, nelle capriole d’alcova di Rupert, che Taggie incrocia la prima volta mentre gioca a tennis in costume adamitico, in Maud che arriva su un cammello per capodanno che è anche festa di compleanno di suo figlio, nelle maliziose frasi “birichine” per le quali si sghignazza, che sia l’appassionato “che bello sentire il software diventare hardware” (1.08),  il riferirsi al “calore biblico del suo cespuglio in fiamme” (1.05) o a lui (Rupert) vestito da Babbo Natale che trova lei nuda a letto che lo invita ad infilare un lungo pezzo di carbone nella sua calza (1.03)… insomma i doppi sensi non mancano. Fra una partita a croquet e un garden party o una battuta di caccia, una trasferta in Spagna per una award ceremony, una bottiglia di champagne che viene stappata o un volo in elicottero, si è dissoluti e salaci, ma attenti anche a decostruire dinamiche sociali e guerre di classe, privilegiati e paria, con affilata veridicità – il reverendo anglicano troppo “amichevole” stupra una dipendente della Corinium e a lei si chiede di dimenticare perché lui è troppo importante, il collaboratore gay si domanda se si esista veramente se nessuno si accorge di te e devi fare tutto nell’ombra… Come osserva Zoe Williams sul Guardian il programma non finge che gli anni ’80 non fossero così: “L'omofobia velenosa e senza ritegno della politica Tory; gli stupri taciuti, lo sfruttamento sessuale, l'abuso di potere, l'oggettificazione. Per non parlare della disuguaglianza, dello snobismo, dell'eccesso di volgarità, della deferenza davvero nauseante nei confronti dell'aristocrazia - una resa vile alla loro innata superiorità - e del razzismo e della misoginoir”. (NB. Misoginoir è una crasi fra misoginia e noir, e quindi fa riferimento alla quella misoginia specificatamente rivolta alle donne nere).

Scritta da Dominic Treadwell-Collins e Laura Wade insieme agli sceneggiatori della loro writers room è intrattenimento che può vantare anche diversi premi e che ha raccolto entusiaste reazioni sia dal pubblico che dalla critica. 

mercoledì 9 aprile 2025

ADOLESCENCE: una miniserie necessaria

Memorabile, necessaria. A meno che nell’ultimo mese non abbiate vissuto da eremiti, è probabile che abbiate profusamente sentito parlare della mirabile, celebrata, acuta, scorticante miniserie britannica Adolescence (Netflix), rilasciata lo scorso 13 marzo. Mutatis mutandis è per quest’anno quello che l’anno scorso è stata Baby Reindeer, e non solo sta venendo sezionata da un punto di vista artistico (come accade a un Severence), ma sta avendo un forte impatto socio-culturale con potenziali evidenti dirette conseguenze: una politica inglese, Anneliese Midgley, sostenuta dal primo ministro Starmer, ha chiesto che la serie venga proiettata in Parlamento e nelle scuole. Ideata da Jack Thorne e Stephen Graham è un pseudo-giallo drammatico poliziesco, anche se è un’etichetta che sta strettissima, in cui un ragazzino di 13 anni, Jamie Miller (Owen Cooper) viene accusato dell’omicidio di una coetanea compagna di scuola, Katie Leonard (Emilia Holliday), che viene trovata pugnalata sette volte. Siamo nello Yorkshire, in Inghilterra.

Nella prima puntata l'ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e la sergente capo Misha Frank (Faye Marsay) arrestano il ragazzo che viene condotto alla stazione di polizia, mentre lui si dichiara innocente. Gli viene affiancato un avvocato e il padre Eddie (Stephen Graham, che è il co-autore, non un omonimo) fa da garante al figlio. Seguono la procedura, viene visitato. Mi ha colpito la gentilezza con cui lo hanno trattato. Nella seconda puntata, tre giorni dopo, la polizia si reca nell’istituto scolastico del ragazzo,  dove studia anche il figlio di Bascome, e interrogano alcuni ragazzi, fra cui Jane (Fatima Bojang), migliore amica della vittima. Che dettaglio fantastico quando presentano lui ma non lei alla classe, poi scusandosi! Nel terzo episodio il giovane Jamie, sette mesi dopo il suo arresto, ha un colloquio con una psicologa forense, Briony Ariston (Erin Doherty), che deve fare una valutazione e relazione su di lui che, in attesa del processo, si trova in una struttura di detenzione minorile. Per me è stato il più riuscito: fa una dissezione chirurgica di quello che vuole essere il tema principale, la rabbia maschile e le sue radici. È recitato alla grande, ma in primo luogo è scritto in modo mozzafiato, nel mostrare Jaime che da solo con una donna cerca di sfidarla e di provocarla, di come lei eccellente nel suo lavoro ma profondamente scossa debba mostrarsi indifferente alle minacce e agli scatti d’ira, e di come lui in fondo sia solo un bambino ma non per questo poco pericoloso. Il quarto e ultimo episodio, molti mesi dopo, a ridosso del processo in cui il figlio annuncia di volersi dichiarare colpevole, è concentrato sui familiari e in particolare sui genitori.  

Con la regia di Philip Barantini, ogni singola puntata è un unico piano sequenza, quindi segue in tempo reale e senza stacchi di scena tutti gli eventi che si susseguono nella puntata, un notevolissimo vero tour de force, coreograficamente e anche attorialmente, che dà forza di realtà impattante a quello che vediamo perché non ti permette davvero di staccare mai. Ti lascia senza respiro. Il solo che ho letto che lo ha trovato privo di senso e giudicato un mero gimmick, un trucchetto che distrae dalla storia, è Robert King (The Good Wife, The Good Fight), che ha giudicato il programma molto ben scritto e ben recitato e ritiene che anche in forza di questo dovrebbero essere proprio gli attori il fulcro, non la steadicam (qui). Pur comprendendo il suo punto di vista, io non ho sentito che ci fosse troppo “blocking baggage”, come lo definisce lui, quindi un eccessivo bagaglio tecnico nello stabilire chi sta dove, anzi dà la sensazione di essere senza filtri, crudo. È una scelta che Barantini ha usato in precedenza, nel film del 2021 Boiling Point che ha nel cast anche lì Stephen Graham. Non ho visto il film ma qui nello show questa “tecnica” è indubbiamente usata con virtuosismo. Lo valuto, come la maggior parte dei critici, un successo estetico.    

È comunque forma che sostiene contenuti altrettanto pregnanti, perché mostra, in modo potente ma anche sottile, come si crea invisibilmente una cultura misogina, di violenza contro donne e ragazze, diffusa dalla subcultura Incel che nasce nella manosfera (quelle variegate risorse web che promuovono odio per la donna, opposizione al femminismo e pompano un’idea di mascolinità prepotente) e che trova poi tragica attuazione nella realtà quotidiana. Non fa grandi lezioni sull’argomento, lo mostra di atto. Così come non mostra il risentimento degli uomini che con autocommiserazione e odio pianificano di sfogare la propria rabbia repressa prendendo come bersaglio il sesso femminile, come magari può essere stato mostrato in The Power - Ragazze eletttriche, dove vediamo che il protagonista maschile adolescente viene davanti ai nostri occhi radicalizzato perché si ritiene ingiustamente defraudato di privilegi che dovrebbero essergli dati di diritto in quanto uomo. Qui si parte delle conseguenze, un’orrida morte di una ragazzina, per sviscerare le ragioni umane di un simile atto d’odio, per portare alla luce i meccanismi di quella che viene chiamata mascolinità tossica, dove gli uomini sono anche vittime di una mancanza di educazione che li fa sentire sessualmente inadeguati quando sono ancora giovanissimi e rabbiosi nei confronti di una vita da cui si sentono traditi e di cui scaricano la colpa sulle donne. In questo senso si trovano in una situazione di vulnerabilità  nella società attuale. “Non ho fatto niente di male” continua a ripetere il ragazzino, che non ritiene di aver fatto nulla di male, di avere una giusta legittimazione al suo comportamento.

Si mostrano genitori che non se ne sono fregati, hanno cercato nei liniti del possibile di essere brave figure parentali, sicuramente migliori di quelle che hanno cresciuto loro, ma si trovano davanti a un fallimento clamoroso, questo anche a ribadire che è un problema di tipo sistemico, nel senso che puoi anche avere una brava famiglia alle spalle, ma sei a rischio di radicalizzazione in una società che facilmente approfitta della tua fragilità – bella la versione cantata da un coro di ragazzi alla fine del secondo episodio di “Fragile” di Sting. La voce della ragazza che emerge sugli altri, riporta Netflix (qui) è quella della ragazza che interpreta la compagna di scuola uccisa.

Si mostra anche il distacco fra le generazioni adulte e quelle giovani che hanno un linguaggio loro. È il figlio di Bascombe, Adam (Amari Jayden Bacchus), che a scuola prende da parte il padre per spiegargli che le emoticon con cui commentavano le immagini di Jaime su Instagram erano insulti. La scollatura non permette comunicabilità, non rende visibile agli adulti che potrebbero fare da guida un disagio che matura in rancore. E gli adulti sono privi di strumenti per farvi fronte. Una lettura importante, tanto più in un contesto come quello britannico, è anche in termini di classe. In proposito rimando a questo post di Sophie Pender.

Con la serie entrano così nel mainstream queste questioni, essenziale anche perché gli Incel vengano visti nella loro pericolosità sociale, invece di normalizzarli, come be arguisce Attilio Palmieri in questo post che invito a leggere, e questioni come il 80-20 (ovvero l’80% delle donne sarebbe attratta dal 20% degli uomini) e la teoria redpill (ovvero in qualche modo risvegliati alla presunta verità che le donne cercano negli uomini solo bell’aspetto, denaro e potere, con un termine che deriva dalla pillola rossa di Matrix rivisitato ad hoc). Ipoestesia sociale unita a giovani istigati alla violenza e aggressività, misoginia e maschilismo, controllo e dominazione, come forme di successo e potere per essere maschi alfa, veri uomini, conduce facilmente al femminicidio.

Non è un vero giallo: anche se il ragazzo nega, capiamo subito che è lui il colpevole; è un horror dove l’orrore non è quello del mostro, è quello del ragazzino della porta accanto dall’aria pulita che per pressione e cyberbullismo da parte dei coetanei che lo umiliano, per quella difficile fase dell’età che è l’adolescenza (che è non a caso il titolo del programma), privi di anticorpi verso la cultura misogina e maschilista in cui è immerso, e in contatto con modelli educativi inadeguati al contesto in cui deve muoversi, conduce a conseguenze drammatiche.

Un appunto però mi sento di farlo. Da un lato penso che la serie sia perfetta così com’è, completa. “Mio Dio, ogni momento, ogni battuta, ogni personaggio, ogni pensiero. Perfetto. Furioso. Geniale. Orripilante. Cosa facciamo? @netflixuk” ha commentato Russell T Davies (qui), che a cui ho pensato per due ragioni: con Queer As Folk mi ha insegnato che ogni racconto è parziale, si sceglie di raccontare uno spicchio, senza che debba rappresentare tutti e parlare per tutti; con il corto Screwdriver (ne ho parlato qui all’interno del saggio su Cucumber), ha vocalmente fatto una chiamata alle armi contro l’abbandono dei ragazzini alle influenze nefaste della rete, in quel caso rispetto alla pornografia, chiedendo lui stesso che fosse fatto qualcosa contro la vulnerabilità dei ragazzi, tema qui significativo. Dall’altro, forte anche di molti corsi deontologici di aggiornamento professionale come giornalista fatti su questo argomento che insistono sulla necessità di quanto segue, condivido a pieno un’osservazione fatta in questo post su Instagram che riporto in parte, di seguito, tradotto, di Charlotte Archibald,

“Per comprendere veramente la portata delle azioni di Jamie, avevamo bisogno di sentire il vuoto lasciatosi dietro quando Katie è stata strappata al mondo.

Un quinto episodio, incentrato sulla sua storia attraverso gli occhi delle persone a lei più vicine, avrebbe potuto illustrare con forza l'impatto profondo e duraturo della violenza maschile sulle donne. Avrebbe permesso allo spettatore di comprendere appieno le devastanti conseguenze della rabbia di Jamie.

Ma questa cornice, o la sua mancanza, non è nuova. È una narrazione fin troppo familiare nello storytelling, nel riportare le notizie e nel modo in cui discutiamo di questi crimini: le donne e le ragazze diventano note a piè di pagina nei loro stessi omicidi.

Quindi sì, raccontate la storia del mondo di oggi in cui viene cresciuto Il Ragazzo. Raccontate il ruolo che tutti noi dobbiamo avere nel creare una società che nutra e protegga. Mostrare quanto disperatamente i ragazzi abbiano bisogno di amore, rassicurazione, tenerezza e modelli positivi. Adolescence lo ha fatto brillantemente.

Ma dobbiamo anche raccontare le storie delle ragazze e delle donne le cui vite sono sconvolte da queste ideologie tossiche. Dobbiamo ascoltare le loro voci e riconoscere la loro umanità. Perché solo quando le loro storie saranno raccontate, e solo quando le donne e le ragazze saranno viste e valorizzate come persone, potremo sperare che meno di noi saranno ferite o uccise da ragazzi e uomini.

FINO AD ALLORA, IL CICLO CONTINUERÀ, E LE DONNE E LE RAGAZZE RESTERANNO invisibili nelle loro stesse tragedie”.

Penso che sia voluto, la voce delle donne non esiste nel mondo distorto che viene rappresentato, c’è anche un’osservazione in questa direzione ad un certo punto. Non è un programma didattico, e non si può dire tutto appunto. Eppure…è il motivo per qui all’inizio del mio post ho voluto indicare la vittima con nome e cognome, e con l’indicazione dell’attrice che la interpreta, per quanto non la si veda veramente mai, se non molto di sfuggita.

Molto si potrebbe ancora dire, e sicuramente molto verrà ancora detto. Un impatto in ogni caso c’è stato non solo a livello di dibattito che ha elicitato, cosa già importante: sembra che le scuole nel Regno Unito inizieranno a offrire lezioni contro la misoginia nell’ambito delle materie di educazione sessuale, salute e relazioni, cominciando per gradi a seconda dell’età per trattare poi nella scuola secondaria temi come consenso, comunicazione ed etica delle relazioni romantiche. Un risultato importante a quello artistico che è innegabile.