martedì 10 giugno 2025

BLACK MIRROR: la settima stagione

Black Mirror, dopo una virata verso un Red Mirror (ne avevo parlato qui), con la settimana stagione è tornata quella di prima, con mia soddisfazione. Gli episodi sono tutti scritti da Charlie Brooker, in qualche caso accostato da altri sceneggiatori. Tecnologia, vita digitale e intelligenze artificiali sono perciò al centro delle vicende. Forse non dice nulla di particolarmente originale, ma è una solida stagione. Segue un’analisi episodio per episodio.

ATTENZIONE SPOILER

 


COMMON PEOPLE – GENTE COMUNE

Tristissima e graffiante, disperata e accusatoria, la prima delle nuove puntate, “Common people” (7.01) è una caustica denuncia della mercificazione della salute e della medicina che impone costi sanitari proibitivi alla gente che, persone comuni appunto, non possono sostenerle se non rinunciando alla propria dignità e umanità. Gli esseri umani non sono visti come tali, ma come abbonati di servizi che ti succhiano sempre di più con la promessa di qualcosa di sempre migliore, con il risultato di offrirtelo sì, ma di rovinarti la vita nel frattempo. Siamo in un prossimo futuro in cui sono api robot ad impollinare i fiori. Una giovane insegnante, Amanda (Rashida Jones), che con il marito Mike (Chris O'Dowd), che lavora come saldatore, sta da tempo cercando di avere dei figli, ha un malore ed entra in coma a causa di un tumore al cervello. Mike viene approcciato da Gaynor (Tracee Ellis Ross) della Rivermind, che gli parla di una nuova tecnologia capace di risanare la moglie. Clonano la parte del cervello che poi le asportano, che viene rimpiazzata da tessuto sintetico. Dal back-up del loro server, poi, ritrasmettono in modalità wireless i dati della funzione cognitiva al cervello della donna, dietro pagamento di un canone mensile. La copertura geografica è limitata e Amanda è costretta a dormire molto, ma il marito si sobbarca volentieri turni extra di lavoro pur di tenere in vita la moglie. A poco a poco, il piano della Rivermind ha delle funzioni sempre più sofisticate a un prezzo sempre più alto a cui ci si può abbonare, diversamente, Amanda si ritrova a pronunciare frasi pubblicitarie di cui non è consapevole nel bel mezzo della conversazione, ad esempio promuovere una marca di cereali al miele quando parla delle api ai propri studenti, o suggerire un lubrificante mentre fa sesso col marito e altre cose ancora più problematiche, tanto che le costano il lavoro. Ed è costretta a dormire sempre di più. Pur di far sopravvivere la moglie, Mike fa ogni tipo di lavoro e comincia a far soldi un Internet prestandosi alle sfide più umilianti (tipo bere la propria urina, usare una trappola per topi sulla propria lingua o togliersi un dente in diretta). La situazione diventa sempre più insostenibile: per avere un figlio dovrebbero pagare una cifra ulteriore. Un anno dopo sono allo stremo: Mike, su richiesta della moglie, la soffoca con un cuscino mentre lei promuove l’ennesimo prodotto. La denuncia di un mondo che dà un prezzo ad ogni cosa, di come questo diventi sempre più alto e insostenibile dalla gente comune non potrebbe essere più esplicito e tagliente.

 


BÊTE NOIRE – BESTIA NERA

Una brillante creatrice di nuovi cibi al cioccolato, Maria (Siena Kelly), si vede assumere nella sua azienda una vecchia compagna di scuola, Verity (Rosy McEwen), che lei ricorda come una tipa strana, una nerd del computer che veniva pesantemente bullizzata e isolata. All’improvviso Maria inizia a notare che nella sua vita ci sono piccoli eventi che sono diversi da come lei li ricordava, anche se avrebbe giurato di che la sua versione fosse quella corretta e di avere ragione. Ad esempio era convinta di aver mandato una mail con una specifica indicazione e non era così, o ricorda il nome di un locale con una lettera diversa…La situazione peggiora e lei si rende conto che dietro c’è Verity, che vuole vendicarsi degli abusi subiti da ragazza, finché non scopre che lei riesce a cambiare la realtà attraverso una  serie di computer collegati a un suo pendente, sintonizzando le frequenze a una delle realtà parallele in cui quei che lei dice è sempre stato vero. In questo modo la realtà è qualunque cosa lei voglia. L’episodio, pur con il suo fascino e la sua inquietudine nel mostrare qualcuno la cui realtà e verità cambiano in modo non riconoscibile, alla “Ai confini della Realtà”, minando le certezze sulla propria sanità mentale, è la più irreale delle puntate, soprattutto nelle estreme conseguenze in cui la si vede arrivare, tuttavia riflette sulla manipolazione delle informazioni, poiché ci si trova in una sorta di deep fake portato alle estreme conseguenze, oltre che su come le cattiverie e le maldicenze che si è costretti a subire non te le scrolli di dosso facilmente rimangono anche se diventi “imperatrice dell’universo”.

 


HOTEL REVERIE (titolo invariato in italiano)

Un’attrice di successo che ama i vecchi film che le fanno sognare l’amore, Brandy Friday (Issa Ray), accetta di partecipare a un remake di un grande classico romantico che adora, “Hotel Reverie”, non sapendo esattamente a che cosa va incontro, nel ruolo della protagonista che nell’originale era un uomo. Quello che rende speciale la produzione è che le riprese non sono tradizionali, ma immergono la sua coscienza in una quinta dimensione facendo sì che le sue sinapsi di interfaccino con la storia che per i personaggi del film è una realtà vera e l’unica che conoscono. Inizialmente tutto procede per il meglio, finché una serie di incidenti di percorso non la costringono ad andare fuori copione e a rivelare la situazione alla protagonista femminile della storia, Dorothy (Emma Corrin), con cui vive un’autentica storia d’amore. Se non chiude però con le battute finali del copione originario, lei rischia di rimanere intrappolata della realtà della pellicola per sempre. La puntata, malinconica e delicata e con una certa tensione, riflette su un tema che già in passato è stato trattato dalla fantascienza (penso ad esempio a Star Trek: TNG) ovvero quello della possibilità di una coscienza dei personaggi di finzione, confinati dalla storia in un ruolo ma passibili di una propria identità, e della possibilità che una simile situazione si verifichi ora che abbiamo l’intelligenza artificiale.

 


PLAYTHING – COME UN GIOCATTOLO

Un talentuoso ma timido recensore di videogiochi, Cameron Walker (Lewis Gribben) sottrae l’ultimo progetto di un famoso ideatore (Will Poulter, The Bear) di nuovi games, dal titolo “Thronglet”. Da anziano (Peter Capaldi) viene arrestato, o meglio fa in modo di farsi arrestare, come presto si scopre, e racconta la sua storia a un poliziotto e una psicologa che lo interrogano rispetto all’omicidio di un uomo di cui non conoscono l’identità che è stato trovato a pezzi in una valigia. Spiega così di aver sviluppato un profondo legame con le creature digitali del videogioco, con cui riusciva a comunicare grazie all’utilizzo di droghe che il defunto gli procurava. Quando questi le aveva uccise per puro divertimento, lui che curava amorevolmente queste creature, per le quali si era anche fatto impiantare nel cranio una porta  cerebrale per ospitarli dentro di sé, aveva reagito con violenza uccidendolo. Il suo obiettivo di farsi arrestare ora, era di permettere ai Thronglets di prendere il controllo del server centrale del governo attraverso le telecamere di sicurezza e riprogrammare la mente umana. La puntata, in cui si possono leggere dei riferimenti biblici (la mela del paradiso terrestre, Caino e Abele), indaga la violenza dell’umanità come specie, e anche in questa prospettiva ci si interroga sull’apprendimento delle intelligenze artificiali. Il protagonista sviluppa una coesistenza simbiotica con degli esserini digitali, che imparano tutto da lui e da quello che lui immette loro. Mimano il comportamento sociale umano. Se vedono violenza, imparano violenza. Che cosa stiamo insegnando alle intelligenze artificiali con cui noi interagiamo ogni giorno?

 


EULOGY  (titolo invariato in italiano)

Un uomo maturo, Philip (Paul Giamatti) viene a sapere della morte di un suo vecchio amore, Carol, una donna con cui ha perso i contatti da tempo e che da ragazzo lo ha fatto molto soffrire, quando viene contattato da Eulogy, una compagnia che realizza dei funerali di esperienza immersiva, grazie alla condivisione dei ricordi delle persone che avevano conosciuto la defunta in vita. Lui ha fatto di tutto per dimenticare, compreso eliminare il volto dell’amata da tutte le foto che li ritraevano insieme. Grazie all’aiuto di un avatar, The Guide (Patsy Ferran, Miss Austen), cerca di ricostruire quella parte del proprio passato, ripercorre quando era accaduto finendo anche per rileggere gli eventi in una nuova luce. Nel più lirico e nostalgico degli episodi di questa stagione, si affronta il tema della memoria, del valore dell’essere ricordati e di quello che ci spinge a conservare le nostre tracce mnestiche o a volerle cancellare, sulla necessità o meno di dimenticare, sul valore delle foto per come riportano in vita sentimenti ed esperienze passate e di come ricostruiscono per noi realtà lontane, sulla possibilità di riesaminare il passato con occhi nuovi, propri e di altri, e sull’appropriatezza di condividere aspetti della vita più o meno privati. Una puntata delicata, eppure incisiva, fatta anche di rimpianti. E poi, più che dalla puntata da un evento che troppo spesso si verifica nella vita reale, un monito: assicuriamoci che i messaggi rilevanti di vita che siamo convinti di aver trasmesso a qualcuno, siano davvero stati ricevuti – anche se non c’entra, come ho ripensato alla vita reale di William Howell Masters a questo proposito (che si era dichiarato al suo grande amore, si era creduto respinto quando lei in realtà non aveva mai ricevuto il suo messaggio).

 


USS CALLISTER: INTO INFINITY - USS CALLISTER: INFINITY

Sequel dell’episodio della quarta stagione USS Callister, che partiva da una rivisitazione parodistica di Star Trek, questo “Into Infinity” vede l’equipaggio della USS Callister intrappolato nel videogioco Infinity. Per sopravvivere, guidati da Nan (clone di Nanette) Cole (Cristin Milioti), vivono come pirati digitali che rubano ai milioni di utenti della vita reale il necessario per non essere cancellati. Per loro non è una vita virtuale da cui possono staccarsi a piacimento, è la vita reale. Per sfuggire da questa situazione intendono anche hackerare i server per ottenere uno spazio tutto loro. Attraverso Walt, il clone rigenerato del CEO James Walton (Jimmi Simpson), che scoprono essere vivo, e che nella sua controparte reale vuole in realtà eliminarli, vogliono raggiungere il cuore di Infinity dove chiedono alla versione digitale dell’ideatore del gioco Robert Daly (Jesse Plemons), morto nella vita reale, di fondere le loro coscienze con quelle del loro mondo reale. Lui, pur vedendosi come un eroe, è uno psicotico disperato di contatti che cerca di ottenere con la forza quando viene respinto. Aveva creato cloni digitali senzienti di persone reali, una tecnologia in sé fuorilegge, con l’obiettivo di abusare di loro. Messa alle strette dall’ennesimo tentativo di abuso, per salvarsi la vita, Nan lo uccide e si attiva l’autodistruzione del gioco, ma non prima che i suoi compagni siano stati copiati nella sua testa. Ricca di suspense e colpi di scena l’episodio si apre anche alla possibilità di un ulteriore sequel, esamina un tema caro a questa stagione che è quello della identità e della coscienza delle creature virtuali, ponendosi interrogativi etici sulla natura della vita digitale e sulle sue potenziali conseguenze, compreso il diritto alla vita della creature virtuali. Come ben argomentato su Nocturno in un notevole pezzo, si affrontano anche i temi della depressione, dell’isolamento, della misoginia e della cultura incel.  

sabato 31 maggio 2025

MISS AUSTEN: misurata, credibile e coinvolgente

Basata sull’omonimo romanzo di Gill Hornby, Miss Austen (BBC1 e per ora inedita in Italia), è una miniserie in 4 puntate che catapulta in atmosfere simili a quelle delle famosa scrittrice Jane Austen di cui quest’anno ricorre il 250esimo anniversario della nascita.

Ci si muove su due linee temporali: nel 1830, tredici anni dopo la morte della sorella Jane (Patsy Ferran), le vicende seguono Cassandra (Keeley Hawes, Orphan Black: Echoes) che si reca a Kintbury, presso la casa della famiglia Fowle. Ufficialmente è lì per aiutare Isabella (Rose Leslie, Game of Thrones), figlia della defunta amica Eliza, che dopo la morte del padre è costretta a traslocare in fretta e furia e ha un futuro incerto; è innamorata del dott. Lidderdale (Alfred Enoch), ma con lui non vede futuro. In realtà l’obiettivo di Cassandra è un altro: trovare e distruggere le lettere private di Jane, che potrebbero compromettere la reputazione della sorella se divulgate.

ATTENZIONE SPOILER

Attraverso una serie di flashback, si svelano episodi della giovinezza delle sorelle Austen: il promesso sposo di una giovanissima Cassandra (Synnøve Karlsen) muore subito prima di sposarla, ma dal momento che lei aveva promesso che non si sarebbe sposata con nessun altro, rifiuta le avance di un giovane di cui si era successivamente innamorata, nonostante le pressioni della sorella Jane che al contrario vuole poter dedicare la propria vita alla scrittura e, come Cassandra stessa, vive con i genitori, mentre loro fratello è diventato il marito di Mary (Liv Hill da giovane, Jessica Hynes da adulta), sorella di Eliza, la migliore amica di Jane a cui aveva scritto tutte quelle lettere che ora da adulta Cassandra intende recuperare. Anche Mary, piuttosto odiosa a tutti e manipolatrice, che esalta il marito come scrittore non riconoscendo la maggiore grandezza letteraria di Jane, arriva a casa Fowle e cerca quelle stesse lettere.

È molto pacata e sensibile questa miniserie, diretta da Aisling Walsh e sceneggiata da Andrea Gibb, che ricalca quelli che erano le passioni e le difficoltà e le sfide nel XIX° secolo per le donne, limitate nella possibilità di esprimere se stesse e spesso rassegnate a ruoli molto specifici, oltre che completamente dipendenti dagli uomini da un punto di vista economico. C’è affetto nei confronti dei personaggi e della narrativa dell’illustre scrittrice britannica, verso Persuasione in particolare, che viene letto dai personaggi nella diegesi e punteggia le vicende offrendo anche lo spunto per una soluzione alla vita amorosa di Isabella, permettendole così un lieto fine. Il restraint, la moderazione, la compostezza, la misura, il controllo delle proprie reazioni, la mancanza di ostentazione sono la nota distintiva. L’amore per l’autrice la cui memoria viene omaggiata non la fanno eroina sopra le altre, anzi, si vede come la sua brillantezza è anche consentita dal supporto e dall’amore delle persone che le stanno vicine e la sostengono nella propria vita.

Le interpretazioni sono di prim’ordine e dimostrano molta profondità emozionale, e anche i valori produttivi sono elevati. C’è chi ha lamentato una tensione drammatica limitata. Dal momento che la serie è più incentrata su una tranquilla riflessione emotiva e sui ricordi personali piuttosto che su drammi o conflitti esterni, alcuni ritengono sia un po' troppo sommessa o priva di slancio per coloro che si aspettano una narrazione più dinamica. Chi conosce la letteratura a cui fa riferimento però non può rimanere deluso da questa caratteristica, anzi, perché è proprio un suo punto di forza. Diversa l’obiezione di chi ha visto un eccesso di empatia nei confronti di Cassandra, plasmata negli anni dal proprio dolore e dall’amore per la sorella, nel suo atto di distruggere le lettere di quest’ultima per proteggere la reputazione, il decoro e la privacy suoi e dei propri familiari, mal giudicata per aver compiuto un atto di vandalismo culturale – di circa 3000 lettere stimate ne sono sopravvissute solo 160, probabilmente le più “innocue” (fonte: wikipedia). Personalmente vedo buone ragioni in entrambe le posizioni (distruggere o preservare le lettere cioè) e non so scegliere quella più meritevole da sostenere, perciò mi sta bene la scelta della serie che rimane sospesa sul giudizio. Lo comprende e non lo condanna e questa è, volendo, una presa di posizione, ma preferisco interpretarla come una presa di posizione rimandata a eventuali considerazioni successive quando qui si guarda solo alle motivazioni di Cassandra che agiva come persona del suo tempo con un rapporto personale con un’autrice che poteva stimare ma non poteva sapere quanto importante sarebbe divenuta per i posteri.

Questa specifica narrazione è finzione, ma sembra vera, credibile e coinvolgente, svolta con ragione e sentimento, è il caso di dirlo.

mercoledì 21 maggio 2025

THE WHITE LOTUS: la terza stagione, in Thailandia

La conclusione è stata degna di una tragedia classica, e il cast è di prim’ordine, ma per il resto, la terza stagione di The White Lotus (HBO, Sky Atlantic), sempre naturalmentre firmata da Mike White, è stata sottotono rispetto alle precedenti, pur comunque appassionante.

Ci siamo spostati in Thailandia e al resort vanno tre gruppi che seguiremo durante la vacanza. Ci sono tre amiche dai tempi della scuola, Jaclyn Lemon (Michelle Monaghan), che è diventata una famosa attrice e ha deciso di pagare l’esperienza alle altre due, Laurie Duffy (Carrie Coon), avvocata a New York recentemente divorziata, e Kate Bohr (Leslie Bibb), una texana conservatrice. Presto sono attratte da Valentin (Arnas Fedaravicius), aiutante coach del benessere.

C’è la famiglia Ratliff: padre Timothy (Jason Isaacs), un ricco uomo d’affari che sta avendo gravi problemi finanziari di cui non vuole dire nulla agli altri, la madre Victoria (Parker Posey) amante del lusso e perennemente impasticcata, e i loro tre figli. Saxon (Patrick Schwarzenegger), il figlio maggiore che lavora con il padre, sa di essere un ragazzo dalle attrattive non indifferenti ed è sicuro di sé come seduttore. Piper (Sarah Catherine Hook) è stata la causa del loro viaggio. Convertitasi al buddismo ha infatti detto di voler scrivere una tesi di laurea intervistando un monaco locale, quando in realtà la sua intenzione è quella di trasferirsi per un anno a vivere in monastero e ha voluto cogliere questa occasione per capire se possa andarle a genio; Lochlan (Sam Nivola) è il figlio più giovane e un po’ timido a cui il fratello maggiore vuole insegnare come far colpo sulle donne.

C’è poi una coppia. Rick Hatchett (Walton Goggins), il cui obiettivo non è quello di rilassarsi nel resort di proprietà dell’ex attrice e cantante Sritala (Lek Patravadi) ma di affrontare l’anziano marito di lei e co-proprietario, Jim Hollinger (Scott Glenn), che ritiene responsabile della morte del proprio padre, ha portato con sè anche la ben più giovane fidanzata Chelsea (Aimee Lou Wood, Sex Education) che, a dispetto della differenza di età, è genuinamente innamorata di lui. In loco Rick contatta un vecchio amico, Frank (Sam Rockwell).

In trasferta per imparare in Thailandia dal direttore del centro di wellness Pornchai (Dom Hetrakul) nuove tecniche di massaggio, c’è anche Belinda Lindsey (Natasha Rothwell), che avevamo già conosciuto perché direttrice della spa del White Lotus alle Hawaii, che viene poi raggiunta dal figlio Zion (Nicholas Duvernay). Con sorpresa trova lì Gary (Jon Gries), che riconosce come il vedovo e lei sospetta l’assassino di Tanya McQuoid con cui in passato era intenzionata a mettersi in affari prima che quest’ultima si tirasse indietro. Lui, divenutone l’erede, è ricchissimo e frequenta una giovane donna, Chloe (Charlotte Le Bon). Al resort, sotto la direzione di Fabian (Christian Friedel) lavorano anche Mook (Lalisa Manobal, a quanto pare una superstar nel suo Paese), coach del benessere, e Gaitok (Tayme Thapthimthong), timida guardia di sicurezza che è innamorato di lei.

SPOILER PER LA TERZA STAGIONE

Il percorso più affascinante e forse quello più affine a un tema conduttore di tutte le stagioni della serie, ovvero quello che il denaro corrompe, è quello di Belinda e di Piper, che arrivano a delle scelte diametralmente opposte a quelle con cui hanno iniziato. Piper, che si era vantata di dare poco peso al denaro e alle comodità, tutta protesa a una vita spirituale, ha conosciuto se stessa meglio realizzando di essere molto più attaccata alla bella vita di quanto non credesse; Belinda si considerava integerrima nel non sorvolare sul fatto che si trova davanti un presunto assassino, anche di fronte alla più grossa somma di denaro, salvo poi cedere invece e, cosa emotivamente ustionante, la vediamo fare a Pornchai, con cui aveva fatto progetti di aprire un’attività, quello che Tanya aveva fatto a lei, noncurante della sua situazione e dei suoi sentimenti. Davvero caustico, graffiante, corrosivo. E per quest’ultima in particolare davvero una corruzione dell’io che abbiamo visto sbriciolarsi più gradatamente, memori anche del suo storico. In fondo, per motivi diversi anche Gaitok tradisce se stesso, mite e non violento, per conquistare il cuore di Mook che lo vuole più ambizioso e macho.

La vicenda più piccante e chiacchierata, e godibile anche perché a tratti giocata in termini umoristici, è stata quella di Saxon e il fratello Lochlan e il loro rapporto incestuoso: Lochlan bacia il fratello (3.05) e poi successivamente Saxon si rende conto con dei flashback di semi-lucidità che quest’ultimo lo ha masturbato (3.06), e il suo imbarazzo e disgusto, sono stati fulcro di tanta attenzione. Con il fatto che entrambi erano sotto l’effetto di sostanze in quello che è partito come un ménage à trois con Chloe ha fatto sì che la questione diventasse meno “problematica” di quanto non avrebbe potuto diversamente essere, ma ugualmente è stata significativa, anche perché ha messo in crisi la mascolinità performativa del fratello maggiore, rivelandone la fragilità e rendendolo  molto più umano e di spessore di quanto non sembrasse inizialmente, indagando anche questioni di potere e identità. I tre fratelli Ratliff, mostrati all’arrivo metaforicamente come le tre scimmiette “non vedo, non sento, non parlo”, sono ri-mostrati come trio al ritorno con un parallelo ma ben diverso aspetto.

Le tre amiche, apparentemente legatissime ma poi pronte a sparlare l’una dell’altra fra loro alla prima occasione in cui una si assenta, è stata una disamina veritiera di alcune dinamiche femminili, ma concordo con chi ritiene che la serie non si sia guadagnata attraverso una adeguata costruzione narrativa quella che è la conclusione finale del loro rapporto, espressa in chiusura di vacanza da Laurie, durante l’ultima cena al resort, anche se per me rimane vero almeno per alcuni dei personaggi, e penso in particolare a Timothy, che ha avuto pensieri intrusivi di suicidio per tutta la stagione. Vista anche l’ambientazione, uno dei focus è stata la spiritualità. Che cosa ci fa andare aventi e che cosa è qualcosa a cui ci aggrappiamo come se fosse una religione? Per tutti i personaggi è qualcosa di diverso. Laurie in un breve monologo dice che per lei questo qualcosa è stato il lavoro, poi ha creduto lo fosse l’amore, che si è rivelata una religione dolorosa, successivamente ha sperato che a salvarla fosse il diventare madre. Alla fine la sua illuminazione è stata quella di non avere un sistema di credenze, ma si è resa conto – e questa è la lezione morale ultima della stagione – che non ha bisogno di religione e di Dio per dare un senso alla propria vita, perché è l’hic et nunc del tempo trascorso con le persone a cui si vuole bene quello che dà senso, quello che conta.  

Il marchio di fabbrica del ritrovamento di un cadavere nella scene d'apertura, con la soluzione riservata per la chiusura, rimane un espediente tensivo che funziona, rinforzato da piccoli dettagli in corso di via che ti fanno immaginare ora l’uno ora l’altro come possibile vittima. Questa eccitazione immaginativa rimane un buon propulsore. Ammetto che è stata una delusione la variazione della musica sui tableaux animati dei titoli di testa. Per il resto visivamente la serie rimane uno spettacolo, e ti porta in vacanza, ma in quel senso non c’è dubbio che la satira del capitalismo che mette in scena  ̶ dei soldi che non ti rendono meno infelice, dello stress che non ti fa mai staccare da una tecnologia che porta miseria, degli eccessi che non riescono ad anestetizzarti, delle apparenze che nascondono tensioni sommerse, del privilegio di gente che vede gli altri come persone da fruttare a proprio vantaggio  ̶ , riguardano gli americani, e americani in vacanza appunto. I locali, nel senso delle persone del luogo, per quanto presenti, sono un pensiero secondario.  C’è stato tanto su cui riflettere in ogni caso, anche sul potere corrosivo dei propri pensieri (penso a Rick in particolare).  

Già ci sono ipotesi su dove potrà essere ambientata la quarta stagione.

lunedì 12 maggio 2025

MEDICI COME PAZIENTI: su ME/CFS, Long-COVID, Lyme cronica, PAIS

Solitamente non parlo di film in questo blog, ma solo di programmi televisivi, ma in questo caso faccio un’eccezione perché il film documentaristico in questione, uscito solo qualche giorno fa, è su YouTube e riguarda la patologia di cui soffro io e di cui oggi si celebra la giornata mondiale di sensibilizzazione.

Doctors as Patients, Medici come Pazienti cioè, tratta perciò di Encefalomielite Mialgica/Sindrome da Fatica Cronica (ME/CFS), ma anche di Long-COVID, Lyme cronica, PAIS (Sindromi infettive post-acute) ed è firmato da Anil van der Zee, lui stesso un paziente, che ne ha curato regia e montaggio.

La particolarità? Come è facile intuire dal titolo, a parlare sono medici che sono diventati loro stessi pazienti e hanno dovuto abbandonare il lavoro a pausa del proprio stato di salute. Si tratta di una prospettiva originale, che non mi risulta mai adottata prima, e molto efficace. Sappiamo di medici che soffrono della nostra patologia, e talvolta ne parlano anche da pazienti, ma spesso, anche per ragioni professionali, dal momento che si tratta di una disabilità invisibile, preferiscono non fare coming out, per così dire, come malati. Lo stigma è ancora profondo. Rispetto chi per ragioni varie preferisce non dirlo, ma applaudo chi ha il coraggio di farlo. Forte della propria competenza professionale la loro testimonianza ha più peso.

Vengono loro poste diverse domande, a cui rispondono proprio dalla loro prospettiva particolare di professionisti della salute. In ogni caso, con un linguaggio accessibile. Uno degli elementi di maggiore impatto è proprio quello che è stato scelto come esergo del film, ovvero

“Ho imparato di più quando sono stata promossa a paziente”

- Jolien Plantinga, medica di medicina generale

L’originale è in olandese, ma è ora disponibile anche con i sottotitoli in italiano. La traduzione nella nostra lingua l’ho fatta io stessa: https://youtu.be/J0ywwLIfH_w

giovedì 8 maggio 2025

SOMEBODY SOMEWHERE: una potente, intima terza e ultima stagione

Ha chiuso i battenti con una spettacolosa terza stagione Somebody Somewhere, con il suo tono agrodolce, sempre sul confine fra lo spezzarti il cuore e il farti ridere.

In “Margarini” (3.01) ci sono grandi cambiamenti per la gran parte dei personaggi: Joel (Jeff Hiller), il migliore amico della protagonista, decide di andare a vivere con il suo innamorato Brad (Tim Bagley), la sorella Tricia (Mary Catherine Garrison) ha divorziato ed esce con vari uomini, l’amico Fred Rococo (Murray Hill) ora che è sposato deve mettersi a dieta per la salute e non può più incontrarla al solito locale dove pranzavano insieme, perfino la fattoria del padre ora è stata data in affitto a qualcun altro, un europeo dei Paesi nordici, Víglundur 'Iceland' Hjartarson (Ólafur Darri Ólafsson). Tutti hanno qualcosa da fare e Sam (Bridget Everett) rimane da sola. Viene tentata di adottare un cane, ma alla fine anche quello le sfugge.

La serie è stata ancora una volta la celebrazione dell’amicizia e dell’amore in senso ampio, familiare ed amicale prima ancora che romantico, con momenti toccanti come quello in cui Brad canta a Joel una canzone d’amore. Mai a suo agio nell’esprimere i propri sentimenti, chiede a Sam di insegnarglielo e alla fine è lei a cantare lì dove lui non è in grado di farlo. O in chiusura, quando nella series finale (“AGG”, 3.07) sono tutti riuniti proprio per celebrare l’amicizia reciproca, e ancora una volta Sam canta, mostrando il potere comunicativo, evocativo, liberatorio, catartico di questa forma di espressione vocale. E il balsamo che è la condivisione lo si vive attraverso il rapporto Sam-Joel, come in passato, ma anche attraverso la crescente intimità emozionale con la sorella, che sia quando lei si becca la clamidia o quando la difende credendola offesa da un uomo che le interessa, “Iceland”, che ha affittato la fattoria del padre.

L’amicizia è la forma ultima di riscatto e di salvezza dalla scarsa autostima che Sam si porta dentro. Ci viene ricordato  ̶  in “Nums Num” (3.05) ad esempio, la puntata di Thanksgiving  ̶  che non conosciamo mai l'interiorità altrui e quali emozioni ci possano essere subito sotto la superficie. Ci sono momenti in cui la nudità fisica di Sam, a una visita medica, è anche metaforica. La dottoressa le dice che ha zuccheri e colesterolo troppo alti, artrite a un ginocchio, che deve dimagrire: è come se Sam percepisse che tutti le dicono che lei non va bene, che c’è qualcosa di sbagliato in lei. Le piace “Iceland”, e a lui piace lei, ma la sua insicurezza le fa credere che nel momento in cui lui dovesse conoscerla sul serio non gli piacerebbe più, e così auto-sabota una possibilità di felicità. È attraverso uno scambio molto umano, terribilmente reale con persone che ci tengono a lei che questa cruda vulnerabilità viene a galla e si prova a superarla. Con rispetto e amore. Attraverso gli occhi altrui impara a volersi bene e a prendersi cura di se stessa. E quanto coraggio ci vuole.

Sono contenta che, pur nelle difficoltà, abbiano deciso di mostrare Sam che ha interesse per un uomo. Qualche critico l’aveva letta come lesbica solo perché non stava con qualcuno e aveva amici tutti fondamentalmente della comunità LGBTQ+. Lo avevo trovato stereotipico e ingannevole, nel senso che nulla si era detto in tal senso e poteva essere asessuale, o semplicemente senza qualcuno per le motivazioni più varie. La verità delle persone è più varia e indefinita delle categorie in cui vogliamo infilarle, e sono stata proprio contenta di vedere che il fatto di non averla vista con un uomo e con amicizie “queer” (nel senso non offensivo del termine) non sia stato fatto equivalere a un’identità necessariamente tale.

Si riesce ad essere grandi e potenti nelle vicende minime e apparentemente ininfluenti. Scrive bene Kathryn VanArendonk su Vulture, quando dice: “Non succede quasi nulla, ed è per questo che Somebody Somewhere è la migliore serie televisiva di quest'anno e uno dei grandi show televisivi di quest'epoca. Fa esattamente tutto nel modo sbagliato, secondo le attuali regole della televisione. La maggior parte delle serie recenti deve giustificare la propria esistenza con le dimensioni: la grandezza delle star, la proprietà intellettuale, il budget, la reputazione dello showrunner, l'universo narrativo collegato, la posta in gioco. Somebody Somewhere è minuscola: una storia splendida, introspettiva e intima su una donna con problemi devastantemente banali, il cui ostacolo principale è il suo stesso doloroso senso di dolore e dislocazione. (...) Le sue vittorie e le sue complicazioni rimangono sviluppi modesti, insignificanti per i  tipici standard televisivi e monumentali sulla scala della vita quotidiana (un divorzio, una tempesta, una conversazione difficile, una morte)”.

La nota di speranza e di gioia con cui termina la serie è proprio quella del quotidiano esserci gli uni per gli altri, condividendo dolori e gioie: è la vita. Mi unisco al loro brindisi.

martedì 29 aprile 2025

THE RESIDENCE: uno spassoso whodunit

Ispirata all’omonimo libro saggistico scritto da Kate Andersen Brower, The Residence di ShondaLand, ideata da Paul William Davies (Scandal), ha al centro delle vicende una investigatrice troppo magnetica e iconica per essere sfruttata per una sola stagione: Cordelia Cupp (Uzo Aduba, Orange is the New Black) è quel genere di detective alla Sherlock Holmes, Miss Marple e Colombo che risolve i casi grazie alla sua attenta capacità di osservazione, ascolto e deduzione. Talvolta pare vacuamente interessata ad altro, nel suo caso al birdwatching, ma puoi star certo che non si è persa un dettaglio.

Non si sovverte un genere, lo si frutta al meglio. Il giallo ha perciò un gusto antico, quello in cui tutti i colpevoli sono riuniti in un solo posto, secondo la classica tradizione di Agatha Christie, e in questo caso il luogo è d’eccezione: la Casa Bianca. La narrazione si muove su due piani temporali: la notte dell’omicidio dell’usciere capo A.B. Wynter (Giancarlo Esposito, Breaking Bad, Better Call Saul, ineccepibile in un ruolo che doveva essere di Andre Braugher, alla cui memoria è dedicata la season finale), responsabile di tutto il personale della residenza presidenziale, che aveva dichiarato poche ore prima “sarò morto prima della fine della serata”, quando ad indagare viene chiamata dal capo della polizia Larry Dokes (Isiah Whitlock Jr.) proprio Cordelia Cupp, consulente del Dipartimento di Polizia Metropolitana, che viene affiancata dall’agente speciale dell’FBI Edwin Park (Randall Park, WandaVision), nonostante il consigliere capo Harry Hollinger (Ken Marino, Party Down) spinga affinché la morte venga dichiarata un suicidio; e c’è poi una seconda linea temporale, quella di un'udienza del Congresso durante la quale il senatore Aaron Filkins (Al Franken) ascolta i vari testimoni di quanto è accaduto in quell’occasione, spesso interrotto dalla senatrice Margery Bay Bix (Eliza Coupe, Happy Endings), che accusa l'amministrazione del presidente Perry Morgan (Paul Fitzgerald) di aver coperto l’avvenuto.

In sé la serie non è qualcosa di cui correre a raccontare in giro, ma è un cozy mystery infarcito di umorismo, è perciò gradevole con un misto di mistero e humor, politica dei rapporti e gossip sulle relazioni fra i sospettati, anche se Cordelia si rifiuta di chiamarli così; la dimora di 1600 Pennsylvania Avenue è un personaggio a sé, ricostruita anche con un modellino che ce ne fa vedere la sezione. Sono 132 stanze, e i potenziali colpevoli sono ben 157, dal momento che l’omicidio si è verificato in occasione di una cena di stato piena di ospiti organizzata dal presidente e dal First Gentleman, il marito Elliot Morgan (Barrett Foa),  con l’obiettivo di risanare rapporti incrinati con l’Australia – curioso notare che ad interpretare il primo ministro australiano è Julian McMahon (Nip/Tuck), che nella vita reale è il figlio di un ex-primo ministro australiano William McMahon. Fra gli ospiti ci sono Kylie Minogue (che interpreta se stessa) e Hugh Jackman (che in realtà non compare). Lilly Schumacher (Molly Griggs) segretaria del presidente, che ha le idee molto chiare su come vuole che le cose cambino, e Colin Trask (Dan Perrault), agente dei servizi segreti esilarante nel suo vagamente patetico timore reverenziale, cercano di tenere tutto sotto controllo.

A “dare l’allarme” è stato il  grido di shock della suocera del presidente, Nan Cox (Jane Curtin), che ha trovato il cadavere. Chi sarà il colpevole fra i numerosi idiosincratici personaggi? Molti avevano litigato con il leale e severo Wynter quella sera. L’assistente usciere Jasmine Haney (Susan Kelechi Watson, This is us) che fa da cicerone e spiega come funziona la gestione della casa, che sperava di prenderne il posto prima che lui rinunciasse ancora alla pensione? La valletta Sheila Cannon (Edwina Findley) perennemente ubriaca che rimpiange l’amministrazione precedente e le è stato impedito di interagire con gli ospiti durante la serata? Il pasticcere Didier Gotthard (Bronson Pinchot) la cui creazione è stata relegata in una stanza meno prestigiosa o la chef Marvella (Mary Wiseman) che arrabbiata lo aveva minacciato di morte? Magari il fratello del presidente Tripp Morgan (Jason Lee) che vive lì in modo parassitario? Forse la cameriera Elsyie Chayle (Julieth Restrepo) o l’ingegnere-idraulico Bruce Geller (Mel Rodriguez)? Non lo rivelerò se non per dire che l’immagine del/la colpevole è fra le immagini dei personaggi indicati della locandina della serie.

Cordelia Cupp, tutta sicura di sé al punto da essere perfino arrogante, e arguta nelle battute di spirito, impaurisce con la sua calma gli interrogati. Il più delle volte si siede in silenzio davanti a loro che si contorcono a disagio e finiscono per spifferare tutto. È gioiosa perché sa di essere brava. I tempi comici sono impeccabili ed Edwin Park le fa da spalla alla perfezione, sempre un passo indietro e a rincorrerla sia fisicamente che metaforicamente nei suoi ragionamenti, un po’ impressionato un po’ intimorito. Fa uscite inaspettate, come quando alla domanda di come definisca il sesso dice che è qualcosa che le piace di più dei beni immobili e meno del bird-watching. E quest’ultima passione travolge tutto, perché è sempre un momento buono per praticarla e perché fornisce ottimi paragoni in quello che sta per dire, spesso davanti all’esasperata reazione degli altri. Le prove si accumulano, le relazioni fra i vari personaggi vengono alla luce.  

Uno spassoso whodunit di puro intrattenimento.  

sabato 19 aprile 2025

RIVALS: salace, gustoso intrattenimento

Lo spassoso, esuberante, gustoso, eccessivo Rivals (Disney TV+), ambientato nel mondo della concorrenza spietata fra le televisioni indipendenti inglesi negli anni ’80, offre una critica metatestuale a se stessa nella season finale della prima stagione (1.08). Due emittenti si stanno scontrando per ottenere la concessione: la Corinium, che l’ha avuta finora, e la neonata Venturer. Quest’ultima si vende come l’immagine del focolare intorno a cui ci si raduna per sentire delle storie. Il piccolo schermo, sostengono, ha il potere di riunirci, di portare nuove idee, aiuta a perdonarci, è una finestra sulla vita delle altre persone, cerca la verità e si pregia di integrità; è in definitiva la più grande forma d’arte creata dall’uomo. La prima di contro, che definisce questa posizione una di “lirismo saccente”, offre al contrario quello che il pubblico vuole e dietro a una facciata di moralità ci sono manipolazioni e puro interesse arrivista, dove ci si finge ipocritamente distanti da volgarità e violenza si nasconde il letamaio di abusi ignorati perché più comodo per gli affari. A quale modello si ispira Rivals? A quest’ultimo  ̶  rivalità, tradimenti, edonismo  ̶  sembra strizzarci l’occhio: mentre nella diegesi di sottofondo su uno schermo scorrono le immagini del magniloquente discorso pro-nobiltà della televisione, assistiamo a un omicidio non intenzionale; o così almeno pare – nel libro, che non ho letto, questa scena pare non ci sia e che il personaggio sia non solo vivo in seguito ma pure significativo nello svolgimento della trama; cosa ne farà il programma? Cerchiamo il piccante, il torbido, l’osceno. L’ironia e l’umorismo sono quello che permettono a Rivals di scollarsi da quel genere vagamente soap-operatico in cui si muove, pur avvalendosi dei suoi stilemi, perché contemporaneamente lo irride. È come se ammettesse di essere tutto quello, una Dallas o Dynasty dei giorni mostri in salsa British, ma smaliziata per averne la piena consapevolezza e attenta a non condonarla nei suoi aspetti più beceri, se non per un momentaneo innocuo divertimento, posizione che la redime.

Siamo nel 1986, Lord Tony Baddingham (David Tennant, Doctor Who, Broadchurch, Good Omens), uno che sul caminetto ha inciso il motto della famiglia “pacifico è il Paese che è ben armato”, sposato con Monica (Claire Rushbrook), per inalzare il profilo della propria emittente televisiva, la Corinium, il cui più grande successo è “Quattro uomini in campagna” la cui attrattiva è mostrare uomini mezzi discinti, assume l’apprezzato giornalista della BBC Declan O'Hara (Aidan Turner, Poldark, Being Human), a cui viene affidato un suo talk show, che si trasferisce in una grande casa di campagna nella bucolica fittizia contea di Rutshire, nella regione delle Cotswolds nel sud-ovest dell’Inghilterra, con la moglie Maud O'Hara (Victoria Smurfit) ex-attrice che già in passato lo ha tradito e a cui la scelta del marito sta stretta, e alle sue figlie, Agatha detta ‘Taggie’ (Bella Maclean), che aspira ad avere una sua attività di catering, e Caitlin (Catriona Chandler), che presto va in collegio. Lord Baddingham assume anche una talentuosa produttrice americana, Cameron Cook (Nafessa Williams) con cui intreccia una relazione, e mira a distruggere, dal momento che non riesce ad averlo dalla sua parte, un suo grande rivale che non sopporta e verso il quale schiuma di rabbia, l’adorato donnaiolo perennemente arrapato Rupert Campbell-Black (Alex Hassell), ex-campione olimpico di equitazione diventato poi politico conservatore e ministro dello sport, di cui si prende una gran cotta Taggie e che dopo un’iniziale ostilità con Declan ne diventa amico, rivelandosi più corretto di quanto non ci si aspettasse da lui. Grande amica di Rupert, e prima a salutare la famiglia di Declan appena si insediano nella nuova case, è Lizzie Vereker (Katherine Parkinson, The It Crowd, Humans), scrittrice di romanzi rosa frustrata da un marito che la ignora, James (Oliver Chris), un vanesio conduttore alla Corinium, e presto sviluppa sentimenti romantici per il ben più attento Freddie (Danny Dyer), un imprenditore di successo nel campo dell’elettronica, sposato senza amore con Valerie (Lisa McGrillis) a cui interessa prevalentemente la scalata sociale. Qui il trailer ufficiale.  

Basato sull’omonimo romanzo del 1988 di Jilly Cooper e con una sigla che è un incrocio fra The Morning Show e Bad Sisters, Rivals, già rinnovato per una seconda stagione, si lancia con gusto spavaldo e gioiosamente scandaloso nell’arena di rivalità, appetiti rampanti e maligni dispetti del “decennio dell’avidità” e dell’ostentazione dell’opulenza, in un calibrato mix di nostalgia e satira, radicato in una recitazione eccellente. Rivals è un piacere nella misura in cui riesce ad essere senza vergogna e senza scuse, nelle sfuriate di Baddingham, nelle capriole d’alcova di Rupert, che Taggie incrocia la prima volta mentre gioca a tennis in costume adamitico, in Maud che arriva su un cammello per capodanno che è anche festa di compleanno di suo figlio, nelle maliziose frasi “birichine” per le quali si sghignazza, che sia l’appassionato “che bello sentire il software diventare hardware” (1.08),  il riferirsi al “calore biblico del suo cespuglio in fiamme” (1.05) o a lui (Rupert) vestito da Babbo Natale che trova lei nuda a letto che lo invita ad infilare un lungo pezzo di carbone nella sua calza (1.03)… insomma i doppi sensi non mancano. Fra una partita a croquet e un garden party o una battuta di caccia, una trasferta in Spagna per una award ceremony, una bottiglia di champagne che viene stappata o un volo in elicottero, si è dissoluti e salaci, ma attenti anche a decostruire dinamiche sociali e guerre di classe, privilegiati e paria, con affilata veridicità – il reverendo anglicano troppo “amichevole” stupra una dipendente della Corinium e a lei si chiede di dimenticare perché lui è troppo importante, il collaboratore gay si domanda se si esista veramente se nessuno si accorge di te e devi fare tutto nell’ombra… Come osserva Zoe Williams sul Guardian il programma non finge che gli anni ’80 non fossero così: “L'omofobia velenosa e senza ritegno della politica Tory; gli stupri taciuti, lo sfruttamento sessuale, l'abuso di potere, l'oggettificazione. Per non parlare della disuguaglianza, dello snobismo, dell'eccesso di volgarità, della deferenza davvero nauseante nei confronti dell'aristocrazia - una resa vile alla loro innata superiorità - e del razzismo e della misoginoir”. (NB. Misoginoir è una crasi fra misoginia e noir, e quindi fa riferimento alla quella misoginia specificatamente rivolta alle donne nere).

Scritta da Dominic Treadwell-Collins e Laura Wade insieme agli sceneggiatori della loro writers room è intrattenimento che può vantare anche diversi premi e che ha raccolto entusiaste reazioni sia dal pubblico che dalla critica. 

mercoledì 9 aprile 2025

ADOLESCENCE: una miniserie necessaria

Memorabile, necessaria. A meno che nell’ultimo mese non abbiate vissuto da eremiti, è probabile che abbiate profusamente sentito parlare della mirabile, celebrata, acuta, scorticante miniserie britannica Adolescence (Netflix), rilasciata lo scorso 13 marzo. Mutatis mutandis è per quest’anno quello che l’anno scorso è stata Baby Reindeer, e non solo sta venendo sezionata da un punto di vista artistico (come accade a un Severence), ma sta avendo un forte impatto socio-culturale con potenziali evidenti dirette conseguenze: una politica inglese, Anneliese Midgley, sostenuta dal primo ministro Starmer, ha chiesto che la serie venga proiettata in Parlamento e nelle scuole. Ideata da Jack Thorne e Stephen Graham è un pseudo-giallo drammatico poliziesco, anche se è un’etichetta che sta strettissima, in cui un ragazzino di 13 anni, Jamie Miller (Owen Cooper) viene accusato dell’omicidio di una coetanea compagna di scuola, Katie Leonard (Emilia Holliday), che viene trovata pugnalata sette volte. Siamo nello Yorkshire, in Inghilterra.

Nella prima puntata l'ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e la sergente capo Misha Frank (Faye Marsay) arrestano il ragazzo che viene condotto alla stazione di polizia, mentre lui si dichiara innocente. Gli viene affiancato un avvocato e il padre Eddie (Stephen Graham, che è il co-autore, non un omonimo) fa da garante al figlio. Seguono la procedura, viene visitato. Mi ha colpito la gentilezza con cui lo hanno trattato. Nella seconda puntata, tre giorni dopo, la polizia si reca nell’istituto scolastico del ragazzo,  dove studia anche il figlio di Bascome, e interrogano alcuni ragazzi, fra cui Jane (Fatima Bojang), migliore amica della vittima. Che dettaglio fantastico quando presentano lui ma non lei alla classe, poi scusandosi! Nel terzo episodio il giovane Jamie, sette mesi dopo il suo arresto, ha un colloquio con una psicologa forense, Briony Ariston (Erin Doherty), che deve fare una valutazione e relazione su di lui che, in attesa del processo, si trova in una struttura di detenzione minorile. Per me è stato il più riuscito: fa una dissezione chirurgica di quello che vuole essere il tema principale, la rabbia maschile e le sue radici. È recitato alla grande, ma in primo luogo è scritto in modo mozzafiato, nel mostrare Jaime che da solo con una donna cerca di sfidarla e di provocarla, di come lei eccellente nel suo lavoro ma profondamente scossa debba mostrarsi indifferente alle minacce e agli scatti d’ira, e di come lui in fondo sia solo un bambino ma non per questo poco pericoloso. Il quarto e ultimo episodio, molti mesi dopo, a ridosso del processo in cui il figlio annuncia di volersi dichiarare colpevole, è concentrato sui familiari e in particolare sui genitori.  

Con la regia di Philip Barantini, ogni singola puntata è un unico piano sequenza, quindi segue in tempo reale e senza stacchi di scena tutti gli eventi che si susseguono nella puntata, un notevolissimo vero tour de force, coreograficamente e anche attorialmente, che dà forza di realtà impattante a quello che vediamo perché non ti permette davvero di staccare mai. Ti lascia senza respiro. Il solo che ho letto che lo ha trovato privo di senso e giudicato un mero gimmick, un trucchetto che distrae dalla storia, è Robert King (The Good Wife, The Good Fight), che ha giudicato il programma molto ben scritto e ben recitato e ritiene che anche in forza di questo dovrebbero essere proprio gli attori il fulcro, non la steadicam (qui). Pur comprendendo il suo punto di vista, io non ho sentito che ci fosse troppo “blocking baggage”, come lo definisce lui, quindi un eccessivo bagaglio tecnico nello stabilire chi sta dove, anzi dà la sensazione di essere senza filtri, crudo. È una scelta che Barantini ha usato in precedenza, nel film del 2021 Boiling Point che ha nel cast anche lì Stephen Graham. Non ho visto il film ma qui nello show questa “tecnica” è indubbiamente usata con virtuosismo. Lo valuto, come la maggior parte dei critici, un successo estetico.    

È comunque forma che sostiene contenuti altrettanto pregnanti, perché mostra, in modo potente ma anche sottile, come si crea invisibilmente una cultura misogina, di violenza contro donne e ragazze, diffusa dalla subcultura Incel che nasce nella manosfera (quelle variegate risorse web che promuovono odio per la donna, opposizione al femminismo e pompano un’idea di mascolinità prepotente) e che trova poi tragica attuazione nella realtà quotidiana. Non fa grandi lezioni sull’argomento, lo mostra di atto. Così come non mostra il risentimento degli uomini che con autocommiserazione e odio pianificano di sfogare la propria rabbia repressa prendendo come bersaglio il sesso femminile, come magari può essere stato mostrato in The Power - Ragazze eletttriche, dove vediamo che il protagonista maschile adolescente viene davanti ai nostri occhi radicalizzato perché si ritiene ingiustamente defraudato di privilegi che dovrebbero essergli dati di diritto in quanto uomo. Qui si parte delle conseguenze, un’orrida morte di una ragazzina, per sviscerare le ragioni umane di un simile atto d’odio, per portare alla luce i meccanismi di quella che viene chiamata mascolinità tossica, dove gli uomini sono anche vittime di una mancanza di educazione che li fa sentire sessualmente inadeguati quando sono ancora giovanissimi e rabbiosi nei confronti di una vita da cui si sentono traditi e di cui scaricano la colpa sulle donne. In questo senso si trovano in una situazione di vulnerabilità  nella società attuale. “Non ho fatto niente di male” continua a ripetere il ragazzino, che non ritiene di aver fatto nulla di male, di avere una giusta legittimazione al suo comportamento.

Si mostrano genitori che non se ne sono fregati, hanno cercato nei liniti del possibile di essere brave figure parentali, sicuramente migliori di quelle che hanno cresciuto loro, ma si trovano davanti a un fallimento clamoroso, questo anche a ribadire che è un problema di tipo sistemico, nel senso che puoi anche avere una brava famiglia alle spalle, ma sei a rischio di radicalizzazione in una società che facilmente approfitta della tua fragilità – bella la versione cantata da un coro di ragazzi alla fine del secondo episodio di “Fragile” di Sting. La voce della ragazza che emerge sugli altri, riporta Netflix (qui) è quella della ragazza che interpreta la compagna di scuola uccisa.

Si mostra anche il distacco fra le generazioni adulte e quelle giovani che hanno un linguaggio loro. È il figlio di Bascombe, Adam (Amari Jayden Bacchus), che a scuola prende da parte il padre per spiegargli che le emoticon con cui commentavano le immagini di Jaime su Instagram erano insulti. La scollatura non permette comunicabilità, non rende visibile agli adulti che potrebbero fare da guida un disagio che matura in rancore. E gli adulti sono privi di strumenti per farvi fronte. Una lettura importante, tanto più in un contesto come quello britannico, è anche in termini di classe. In proposito rimando a questo post di Sophie Pender.

Con la serie entrano così nel mainstream queste questioni, essenziale anche perché gli Incel vengano visti nella loro pericolosità sociale, invece di normalizzarli, come be arguisce Attilio Palmieri in questo post che invito a leggere, e questioni come il 80-20 (ovvero l’80% delle donne sarebbe attratta dal 20% degli uomini) e la teoria redpill (ovvero in qualche modo risvegliati alla presunta verità che le donne cercano negli uomini solo bell’aspetto, denaro e potere, con un termine che deriva dalla pillola rossa di Matrix rivisitato ad hoc). Ipoestesia sociale unita a giovani istigati alla violenza e aggressività, misoginia e maschilismo, controllo e dominazione, come forme di successo e potere per essere maschi alfa, veri uomini, conduce facilmente al femminicidio.

Non è un vero giallo: anche se il ragazzo nega, capiamo subito che è lui il colpevole; è un horror dove l’orrore non è quello del mostro, è quello del ragazzino della porta accanto dall’aria pulita che per pressione e cyberbullismo da parte dei coetanei che lo umiliano, per quella difficile fase dell’età che è l’adolescenza (che è non a caso il titolo del programma), privi di anticorpi verso la cultura misogina e maschilista in cui è immerso, e in contatto con modelli educativi inadeguati al contesto in cui deve muoversi, conduce a conseguenze drammatiche.

Un appunto però mi sento di farlo. Da un lato penso che la serie sia perfetta così com’è, completa. “Mio Dio, ogni momento, ogni battuta, ogni personaggio, ogni pensiero. Perfetto. Furioso. Geniale. Orripilante. Cosa facciamo? @netflixuk” ha commentato Russell T Davies (qui), che a cui ho pensato per due ragioni: con Queer As Folk mi ha insegnato che ogni racconto è parziale, si sceglie di raccontare uno spicchio, senza che debba rappresentare tutti e parlare per tutti; con il corto Screwdriver (ne ho parlato qui all’interno del saggio su Cucumber), ha vocalmente fatto una chiamata alle armi contro l’abbandono dei ragazzini alle influenze nefaste della rete, in quel caso rispetto alla pornografia, chiedendo lui stesso che fosse fatto qualcosa contro la vulnerabilità dei ragazzi, tema qui significativo. Dall’altro, forte anche di molti corsi deontologici di aggiornamento professionale come giornalista fatti su questo argomento che insistono sulla necessità di quanto segue, condivido a pieno un’osservazione fatta in questo post su Instagram che riporto in parte, di seguito, tradotto, di Charlotte Archibald,

“Per comprendere veramente la portata delle azioni di Jamie, avevamo bisogno di sentire il vuoto lasciatosi dietro quando Katie è stata strappata al mondo.

Un quinto episodio, incentrato sulla sua storia attraverso gli occhi delle persone a lei più vicine, avrebbe potuto illustrare con forza l'impatto profondo e duraturo della violenza maschile sulle donne. Avrebbe permesso allo spettatore di comprendere appieno le devastanti conseguenze della rabbia di Jamie.

Ma questa cornice, o la sua mancanza, non è nuova. È una narrazione fin troppo familiare nello storytelling, nel riportare le notizie e nel modo in cui discutiamo di questi crimini: le donne e le ragazze diventano note a piè di pagina nei loro stessi omicidi.

Quindi sì, raccontate la storia del mondo di oggi in cui viene cresciuto Il Ragazzo. Raccontate il ruolo che tutti noi dobbiamo avere nel creare una società che nutra e protegga. Mostrare quanto disperatamente i ragazzi abbiano bisogno di amore, rassicurazione, tenerezza e modelli positivi. Adolescence lo ha fatto brillantemente.

Ma dobbiamo anche raccontare le storie delle ragazze e delle donne le cui vite sono sconvolte da queste ideologie tossiche. Dobbiamo ascoltare le loro voci e riconoscere la loro umanità. Perché solo quando le loro storie saranno raccontate, e solo quando le donne e le ragazze saranno viste e valorizzate come persone, potremo sperare che meno di noi saranno ferite o uccise da ragazzi e uomini.

FINO AD ALLORA, IL CICLO CONTINUERÀ, E LE DONNE E LE RAGAZZE RESTERANNO invisibili nelle loro stesse tragedie”.

Penso che sia voluto, la voce delle donne non esiste nel mondo distorto che viene rappresentato, c’è anche un’osservazione in questa direzione ad un certo punto. Non è un programma didattico, e non si può dire tutto appunto. Eppure…è il motivo per qui all’inizio del mio post ho voluto indicare la vittima con nome e cognome, e con l’indicazione dell’attrice che la interpreta, per quanto non la si veda veramente mai, se non molto di sfuggita.

Molto si potrebbe ancora dire, e sicuramente molto verrà ancora detto. Un impatto in ogni caso c’è stato non solo a livello di dibattito che ha elicitato, cosa già importante: sembra che le scuole nel Regno Unito inizieranno a offrire lezioni contro la misoginia nell’ambito delle materie di educazione sessuale, salute e relazioni, cominciando per gradi a seconda dell’età per trattare poi nella scuola secondaria temi come consenso, comunicazione ed etica delle relazioni romantiche. Un risultato importante a quello artistico che è innegabile.

domenica 30 marzo 2025

SEVERANCE s02: maestra di libido abduttiva

Dopo una appassionante prima stagione, il ritorno di Severance (Apple TV+) non ha deluso, anzi la serie si è fatta via via più intrigante e può definirsi uno dei thriller più stimolanti e cerebrali degli ultimi anni. Elicita una intensa “libido abduttiva”, come la definirebbe Nicola Dusi facendo riferimento ad Eco, ovvero ha il gusto della sfida e del rompicapo e si accompagna al piacere di risolverlo, spinge alla ricerca di un sistema, di regole alla luce delle quali i dettagli creativi vengano illuminati di un significato coerente. Kafkiano e Lynchiano, in equilibrio fra Realpolitik e esaltazione da setta religiosa, con la Lumon Industries, intorno a cui si svolgono le vicende, che incoraggia la visione del fondatore Kier come quella di un profeta: un cult, è il caso di dirlo, in divenire, a partire dall’artistica sigla d’apertura, evocativa e cervellotica. A sentire l’autore stesso nel segmento delle brevi riflessioni che fanno seguito a ciascun episodio,  l'idea è che Severance mostri il modo in cui siamo diversi in ambienti diversi e che la stagione 1 sia l'infanzia e la stagione 2 l'adolescenza, con i personaggi che iniziano ad avere un senso di sé e a conquistare la propria indipendenza (2.03), fino a un’esplosiva, dinamica, intensa season finale, che mi ha tenuta meno in suspence di quella della stagione precedente, ma che ha appassionato ed è stata pressoché perfetta, spiegando molto ma lasciando molto anche da risolvere, e con un uso formidabile delle luci (bianco e nero, blu, rosso). In chiusura, chiarendo alcuni aspetti (che cos’è Cold Harbor, and esempio), ci ha permesso di concentrarci meno sugli aspetti “investigativi” e di andare più a fondo al cuore della questione, alla lotta umana che i personaggi devono affrontare. La recitazione è stata di primordine su tutta la linea. Sono stata entusiasta di tutta la stagione. E hanno promesso che non dovremo aspettare altri tre anni prima di avere la terza. 

Dopo che Mark S. (Adam Scott) ha corso per infiniti labirintici corridoi, cinque mesi dopo (o così dicono) quella che la Lumon chiama la “Rivolta dei Macrodata”, in cui Helly (Britt Lower), Mark, Dylan (Zach Cherry) e Irving B. (John Turturro) hanno trovato un modo per risvegliare il proprio io nel mondo esterno, per denunciare la schiavitù e l’infelicità in cui vivono, viene messo a capo di una nuova squadra: non la vuole, pretende quella vecchia, ed è così che si riuniscono. Rispetto al passato, ho forse notato di più la palette cromatica con cui è costruita l’estetica, un vero codice emotivo, ma in questa stagione ho ripreso le vecchie sensazioni, trovando tutto molto più umoristico e autoironico. Si trova fin dal pilot anche nel semplice “Lumon is listening – Lumon ascolta” e nel video dell’azienda pentita che cerca di imparare da propri errori, con l’edificio che nell’originale ha la voce di Keanu Reeves,  da intendersi come “ascoltiamo tutto ciò che dici” e non nel senso di “siamo aperti a ciò che dici” come vorrebbe far credere. La sorpresa iniziale è stata che, mentre tutti raccontano la verità su quello che hanno scoperto di se stessi là fuori, Helly ha mentito non rivelando che è in realtà Helena, figlia del fondatore dell’azienda. Gli episodi iniziali hanno lasciato del dubbio, poi svelatosi corretto, se Helly non fosse in realtà Helena che si fingeva la sua “innie”.

Ci si è molto concentrati sul dualismo, non solo fra “innie” (interni) e “outie” (esterni), ma inizialmente in particolare anche in altre inquadrature: in 2.01 l’aquario sembra diviso in due con due pesci di colori diversi; al colloquio di lavoro di Dylan, quando il potenziale datore di lavoro gli dice “you remind me of me” (mi ricordi me stesso) sono l’immagine speculare l’uno dell’altro. Perfino la composizione della musica in fondo, come è evidente da quella della sigla iniziale, risponde a questa esigenza: la mano sinistra suona la normale vita degli “outie”, la sinistra offre accordi dissonanti che simboleggiano l’inquietante realtà deli “innie”  ̶   affascinante peraltro anche la sigla finale dell’ultima puntata, con un notevole gioco di linee che ripercorre gli elementi visivi della serie. Ho trovato stimolante che il fatto di essere “severed” (scissi) fosse visto come qualcosa di disgustoso e ha elicitato una sorte di severancephobia – scissionefobia – discriminatoria. C’è un’esplorazione dell’io e i personaggi sono stati davanti ad altri se stessi, anche in contrasto con se stessi, e sono stati in grado di esprimere come il fatto di essere stati separati abbia permesso loro di raggiungere qualcosa che il loro esterno non ha mai permesso loro di avere. A volte siamo oppressi da ciò che siamo nella vita e non ci permettiamo di essere qualcun altro, e per i personaggi la loro separazione è stata un modo per “essere di nuovo innocenti”, come ha detto Burt (Christopher Walken) a Irving (2.09). Lo abbiamo visto in Helena che ha trovato in Helly una libertà che la rigida educazione paterna non le ha mai concesso, in Irving che si è innamorato ed è finalmente pronto a vivere una storia d'amore, in Dylan la cui moglie Gretchen (Merritt Wever) “lo tradisce” scambiando un bacio con il suo “innie” che le si dichiara. È stato agrodolce vedere come fossero invidiosi di se stessi, alla fine, desiderando il potenziale in loro che non sono riusciti a ottenere come “outies”. Abitano più persone nello stesso corpo, e vogliono cose diverse. Non è mai stato così chiaro come in chiusura, con Mark S soprattutto. Molto si è giocato anche sulla triade, in seguito. Seth Milchick (Tramell Tillman), la neoarrivata Miss Huang (Sarah Bock), Harmomy Cobel (Patrucia Arquette) a cui è stata interamente dedicata “Dolce Vetriolo” (2.08), Drummond (Ólafur Darri Ólafsson)… su ogni personaggio ci sarebbe tantissimo da dire.

Numerosi sono anche gli echi di altre serie che vengono richiamate, come già osservato nella prima stagione (ne ho parlato qui). Al di là dell’esplicito (2.09) The Twilight Zone - Ai Confini della Realtà, mi sono stati richiamati Counterpart, Foundation (Jame Eagan e il loro impero ricordano tantissimo i regnanti clone uno dell’altro), Stranger Things e Monarch (2.03), Äkta människor e Real Humans (2.06 e 2.07), Black Mirror (2.07) e perfino Six Feet Under (2.05 – appropriato in una puntata che ha un funerale). Lo show è molto ricco in generale, che sia per il senso pittorico molto deciso  ̶  penso ad esempio a quando hanno mostrato Helena camminare all’interno degli edifici nel pilot con un gran senso di solitudine che, mutati mutandis, mi ha fatto ricordare Hopper; che sia nell’inquadrare il complesso Bell Labs Holmdel, che ospita le industrie Lumon, dell’architetto Eero Saarinen e per me una bellezza architettonica e una scelta culturalmente appropriata come luogo di sperimentazione; che sia  il riferimento di Gemma all'illusione del coniglio/anatra, tanto più come elemento ricorrente, di cui abbiamo visto anche la rappresentazione tridimensionale nell'ufficio di Milchick, o le loro letture: Gemma che studia i temi delle conversioni religiose ne La morte di Ivan Ilyich di Leo Tolstoj e Mark che legge un saggio sull'uso di droghe da parte dei soldati arruolati durante la Prima Guerra Mondiale (2.07); che sia infine che spettacolosa cinematografia che ci ha regalato Jessica Lee Gagné nel ricostruire la storia d’amore di Mark e Gemma, con alcuni passaggi visivi danno l'idea di onde cerebrali che si reintegrano e di memoria che va in profondità  ̶  anche il modo in cui ciò viene realizzato è molto artistico (2.07).

C’è tanto da decodificare. Il linguaggio tutto crea una realtà aliena e separata – e portate pazienza ma ho seguito in inglese e non ho idea di quali siano i corrispettivi italiani, anzi, se volete dirmeli voi, siete benvenuti:  il “verboso” di Milchick, ripreso per usare un linguaggio troppo aulico (“devour feculence”), le espressioni bizzarre e datate (“Fetid moppet”), o semplicemente originali (“shared vessel” per “fare sesso”) sono significanti che gli appassionati condividono nel loro significato, ma che li separano da chi non segue le vicende. L’estetica è astorica, atemporale. Severance è un mondo da cultori, un trionfo televisivo che ci regala anche la visione di adorabili caprette, una serie veramente degna di una celebrazione della banda musicale Choreography and Merriment, diventato Coreografia e Meraviglia in italiano.

Io ho seguito e commentato ogni episodio della stagione come parte di The Box Set, club della TV curato da Tim Goodman (https://timgoodman.substack.com/).