Magnifica. La seconda
stagione di The Handmaid’s Tale (sui
cui, volendo, avevo scritto il mio saggio per Osservatorio TV
2017 alla fine della stagione di debutto), è riuscita anche meglio
della prima, un risultato raro per qualunque serie, dove il secondo atto di
regola comporta una flessione, il cosìdetto sophomore
slump, e tanto più per una che
deriva da un libro tanto celebrato e amato come quello della Atwood. Dirlo
suona come un’eresia, ma c’è stato più respiro, e Gilead è stato (nel
linguaggio e nella rappresentazione) meno una scatola fuori dal tempo, più un
regime che ha le sue radici nel presente che conosciamo e che ha delle copie
carbone alternative nella realtà che ci circonda. Al suo credo di fiction
speculativa - narrazione perciò che basa le proprie radici su eventi non
inventati, ma che con un altro volto sono comunque comparsi nel percorso della
storia umana - si è rimasti fedeli. L’esordio, in una stagione che si è fatta
anche più brutale, è una finta impiccagione delle ancelle che si erano
ribellate all’uccisione di una compagna, che non può non richiamare alla mente la
mancata esecuzione di Dostoevskij. “Unwoman” (2.04) non può non far ripensare
ai troppi campi di lavoro degli intellettuali e degli ostili ai regimi che la
storia umana ha visto.
Fra i temi forti di
questa stagione a spiccare primo fra tutti è stato quello della maternità, con June
e Serena in primo piano, nel suo valore essenziale e primario. Viscerale. La season
finale, “The Word” (2.13), con una scelta controversa, è un inno a questo
ruolo umano. Eccellente la scelta di far partorire June (una Elisabeth Moss degna
dell’Emmy) sola e completamente nuda in “Holly” (2.11). Si parla spesso di
nudità più o meno gratuita. La scelta di mostrare un parto nel modo primordiale
in cui è stato fatto qui si è rivelata coraggiosa e originale,
sorprendentemente - davvero con sorpresa
mi sono resa conto guardandola di quanto al contrario normalmente sia coperto e
asettico il corpo femminile in un momento tanto esplosivo e lacerante e
coinvolgente. Concentrati sull’evento nascita il corpo femminile rimane in
qualche modo dietro le quinte nonostante tutto, solitamente. C’è il dolore, ma non c’è veramente il corpo,
il più delle volte. Qui sì, ed è stato potente e vero. Necessario. Tutta la puntata,
scritta da Bruce Miller e Kira Snyder, ha brillato, nonostante di fatto io,
rispetto alle altre della stagione, non sia stata del tutto convinta dal tono
una punta più melodrammatico e con una regia e un simbolismo alla Soprano che mi hanno traslata verso
altre atmosfere.
Qui si è citata la
Atwood in quel suo “Racconto, dunque sei”, che incarna la poetica degli autori
(tutti, possiamo dire, televisivi e librari), il credo in uno storytelling che crea l’altro attraverso
la forza del proprio racconto. Anche lì dove la storia è magari zoppicante o
mutilata, come qui la definisce Offred. Narrare significa esistere, significa
essere, per chi racconta e per chi ascolta, significa credere nella presenza in
un altro. E come corollario, leggere e scrivere significano vivere.
Una delle immagini più
potenti della seconda stagione di The
Handmaid’s Tale, è l’immagine finale di “After” (2.07). Con il comandante
ferito, Serena (Yvonne Strahovski) prende la situazione nelle proprie mani e
chiede a June, che era una redattrice, di aiutarla a fare dei tagli a un
documento per diminuire la sicurezza diramata nelle strade. “I need a pen”,
dice lei, quindi “ho bisogno di una penna”, “mi serve una penna”. Ad un cenno
affermativo di Serena, la telecamera indugia in quel prezioso delicato momento
in cui ne sceglie una fra addirittura tre. A lei scrivere, così come leggere,
in quanto ancella è proibito. È una penna a scatto, e qui c’è la geniale
sublime inquadratura (la regia è di Kari Skogland), in cui lei, sta per
schiacciare il tasto. L’enfasi su questo momento in cui ci si sofferma con
lentezza non è dovuto solo al fatto che per la protagonista è un momento di
gioia e di cambiamento, ma perché fare quel gesto di pressione sul pulsante rimanda
in modo diretto al finale della puntata precedente, “First Blood” (2.06) dove
un’ancella aveva un dito sul pulsante di una bomba che ha fatto saltare per
aria tutti. Usare una penna è come usare una bomba. Un momento “alla Malala”
potremmo dire, visivamente commovente e ineccepibile.
Sono stati importanti la
violenza, il femminismo, il futuro, il
senso di colpa del sopravvissuto, l’amore – si pensi all’accostamento dei due
matrimoni in “Seeds”, quello asettico e infelice di Nick (Max Minghella, cotta
televisiva del momento per l’umanità che riesce a veicolare), contro quello
felice e di amore nelle colonie, giudicato contro natura, e seguito da un
funerale; o alla fuga di Eden (Sidney Sweeney), moglie fedifraga, costretta a morire annegata per amore,
insieme al suo uomo.
Una delle esplorazioni
più interessanti e sottili e complesse in cui si è inoltrata questa stagione è
stata anche quella sulla collaborazione, la complicità e la solidarietà
femminile, di come sia necessaria e a volte difficile. Dal lavoro delle donne
in “Women’s work” (2.08) appunto, con la figura di un medico neonatale donna a
cui viene impedito per il suo genere sessuale di svolgere ciò in cui era la più
brava, alla rete di Marte che permette a June di mettere in salvo la propria
figlia. Serena più di tutti ha incarnato, e pagato sulla carne, la doppia
direzione da cui una donna è contesa – presa a cinghiate dal marito (2.08) e
mutilata (2.13) per aver cercato di essere agente per se stessa e per le altre
donne, e complice di un regime opprimente, lì dove partecipa all’attivo stupro
di June o ne respinge i vari momenti di mano tesa. È
invitata a fuggire, decide di rimanere; è artefice di quel mondo, ne implora
uno diverso per la figlia Nicole. Da certe situazioni non si scappa, ma si
cambia.
“Mi dispiace che ci sia
così tanto dolore in questa storia” dice ad un certo punto (2.11) la
protagonista in voice-over, aggiungendo che ha cercato di metterci anche cose
belle. È vero che #maiunagioia sarebbe un tag appropriato al tono
delle vicende. Sebbene evidentemente non ci sia posto per l’umorismo, bene si evidenzia
l’impossibilità intrinseca di l’ironia nei regimi totalitari. Se, come diceva Victor
Hugo, la libertà comincia dall’ironia, una forma in più di oppressione è
proprio data da questa asfissiante mancanza di quel “sorriso della ragione”.
Molto d’altro ci sarebbe
da dire (anche sul comandante Fred e sulla costruzione della mascolinità, su
Emily, Janine, il neoarrivato comandante Joseph Lawrence, zia Lydia), in un testo
ricchissimo di spunti. Capita che occasionalmente qualche serie mozzi letteralmente
il fiato. Rimango per un momento quasi sospesa. Quando mi capita mi rendo conto
di star guardando grande televisione. In questa stagione, con questa serie. è
felicemente capitato.
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