lunedì 24 febbraio 2020

THE CROWN: la terza stagione


La terza stagione di The Crown si concentra sugli anni della Corona britannica fra il 1964 e il 1977.  Forse complice il fatto che dall’uscita della precedente sono passati molti mesi, ma il completo rinnovo del cast dei protagonisti, per invecchiarlo, è avvenuto in modo naturalissimo e privo di sforzo. Non solo il casting è stato quanto mai azzeccato e ci siano state molte dimostrazioni di bravura da parte di tutti, con interprestazioni molto sottili, è perfino incredibile quanto sembrino di fatto le stesse persone che abbiamo seguito in passato.

Nella prima puntata (3.01) si riflette da subito sull’invecchiamento: la regina guarda il nuovo francobollo con la sua effige, a confronto con quella passata. È una sovrana più matura questa, non più disorientata ma ormai sicura del suo ruolo, consapevole dell’inevitabilità di certi cambiamenti. Olivia Colman che la interpreta ora (premio Oscar per La Favorita) è estremamente espressiva e anche meglio della sua predecessora riesce a trasmettere i mutevoli sentimenti che ribollono sotto la superficie del suo volto. Churchill muore, c’è un nuovo primo ministro, Harold Wilson (Jason Watkins, A Very English Scandal), con cui all’inizio c’è un atteggiamento di sospetto, poi sviluppatosi in stima reciproca. Il filtro dell’arte, di cui i reali non si intendono, ma di cui si preparano a presentare una mostra di capolavori appartenenti alla Casa Reale, dà una preziosa opportunità di lavorare in termini metaforici, anche in modo esplicito nella diegesi quando lo storico dell’arte curatore dell’esposizione dei capolavori si rivela essere da anni una spira segreta del KGB. Sotto una tela a volte si manifesta un precedente dipinto, un “pentimento”: qui si manifesta anche nei rapporti umani. La tensione fra ciò che si fa ed è pubblico e ciò che si vorrebbe fare ed è privato rimane uno dei capisaldi della narrazione.   

Magistrale in “Margaretologia” (3.02) il modo in cui è stato costruito un confronto, anche fra passato e presente, fra la Regina e la sorella, in parallelismi e dicotomie. Si sono esplorate personalità, responsabilità, sorti. Tanto è noiosa e affidabile Elisabeth, quanto è brillante e scapestrata Margaret (ora Helena Boham Carter). La prima avrebbe fatto a meno di regnare, la seconda avrebbe agognato farlo, ma il destino ha voluto diversamente. Nella puntata Margaret, partecipa, al posto della sorella, a una cena con il presidente americano Johnson, ed è un enorme successo, nonostante non si attenga al protocollo, ma anzi proprio per quello. L’evento sociale mascherava un importante e delicato obiettivo diplomatico, andato in questo modo a buon fine: il Regno Unito riesce così ad ottenere indispensabile sostegno economico dagli USA. Margaret vorrebbe un ruolo ufficiale maggiore, che le regole non le consentono. L’ingiustizia e il risentimento e l’invidia che nasce dalla situazione, il senso del potere e il peso dell’indole personale nella vita vengono esplorati con sceneggiatura e regia in sintonia e in sincrono perfetto, l’eco l’uno dell’altra. 

Non c’è membro della famiglia reale che non debba fare i conti con quello che la Storia ha imposto che fossero e lo scarto con le proprie aspirazioni. Elisabetta II si concede un viaggio in Francia e Stati Uniti per esaminare dei cavalli da corsa e per una breve parentesi assapora quella che poteva essere la vita che avrebbe voluto (“Colpo di Stato”, 3.05). In un altro momento si interroga sulla propria capacità di provare emozioni che razionalmente ritiene di dover provare: quando il crollo di una miniera ad “Aberfan” (3.03), nel Galles, uccide quasi 150 persone, la maggior parte dei quali bambini, la regina si rifiuta di presenziare alle esequie, mandando il marito. Accortasi dell’errore vi si reca per una visita, ma niente elicita la reazione che lei stessa si aspetta da sé: “Hai pianto?” chiede al marito, cercando forse una risposta comportamentale giusta a lei che si sente inadeguata.

Ha senso il suo ruolo? Alla fine lei è quella che, a detta della sorella (3.10), deve nascondere le crepe, per evitare che tutto crolli. Ma hanno senso in generale i loro ruoli come reali? Il principe Filippo (un impeccabile Tobias Menzies, Outlander), in una puntata in cui si riavvicina alla madre che lui voleva tenere lontana dai riflettori per paura di sfigurare (“Birbantello”, 3.04),  con un documentario cerca di dimostrare l’impegno e la rilevanza della casa reale, ottenendo l’effetto opposto. Matura una profonda crisi personale in occasione dell’allunaggio. Disprezza il religioso che gli offre un momento di riflessione spirituale insieme ad altri uomini di fede e che riconosce che nel guardare le imprese degli astronauti la gente ha avuto dalla televisione un “senso di unione, di comunità, di stupore, di meraviglia” che un tempo aveva dalla chiesa. Philip osteggia la loro riflessività; l’azione è per lui il senso della vita, il compiere imprese come quella di questi pionieri, le gesta eroiche: quando incontra però gli astronauti in un’udienza privata ne è deluso, è disilluso dalla prosaicità delle loro attività e dell’assenza di una risposta, di una tensione verso qualcosa di altro, di alto. E riconsidera la propria posizione. 

La solitudine del principe Carlo (Josh O’Connor), spedito in Galles tre mesi per imparare la lingua (“Tywysog Cymru”, 3.06), e osteggiato, mette in evidenza come il suo dovere è reprimere chi è. Si riconosce nel popolo gallese. “Nessuno vuole sentire la tua voce”, lo apostrofa senza sentimentalismi la madre. È qualcuno che è indispensabile e inutile allo stesso tempo, libero e prigioniero. (1.08) La stessa scelta di una ragazza, Camilla (Emerald Fennell), come gli onori della cronaca già ci hanno reso noto nel tempo, non è una scelta che possa essere lasciata solo alla propria volontà.

Scrive bene Alan Sepinwall su Rolling Stone quando riflette sul fatto che questa serie, anche più di altri racconti sull’aristocrazia britannica, corre il rischio perpetuo di sembrare un’apologia auto-indulgente di gente che di fatto è nata in circostanze splendide e non avrebbe nulla di cui lamentarsi. Peter Morgan però, l’ideatore, riesce nella difficile impresa di articolare in modo chiaro i fardelli della Corona, sia per chi la indossa che per le persone che le sono vicine, e di mostrare che forse il gioco non vale la candela, forse i soldi e i castelli di lusso non sono uno scambio equo di fronte quello a cui si rinuncia.

L’attualità ci propone la scelta di allontanamento del Principe Harry e della consorte Meghan Markle dalla vita pubblica della famiglia reale e, con quell’eco nella mente, queste storie di finzione risultano quanto mai attuali, e permettono di far capire come parlare di questi argomenti e di certe scelte non sia poi solo frivolo gossip, ma abbia un valore per la risonanza su quello che significano dal punto di vista politico e personale, sulla filosofia e la concezione della vita che incarnano.

Proprio a voler trovare un difetto nella serie si è forse perfino troppo espliciti nelle tematiche affrontate, ma non stona. Che ruolo abbiamo nella vita, che segno lasciamo, come siamo pubblicamente e come privatamente, sono pensieri, a diversi livelli, che toccano tutti. E la sontuosa terza stagione, cinematograficamente anche ricca di inquadrature eleganti, è stata decisamente appagante.  

venerdì 14 febbraio 2020

MODERN LOVE: una serie asciutta e delicata

Ha il sapore di una raccolta di racconti Modern Love, la serie antologica che ha debuttato su Amazon lo scorso ottobre basata su una rubrica settimanale del New York Times (qui) diventata anche un podcast. A dispetto della bella sigla di apertura che zigzaga su romantici momenti di varie coppie, qui il senso dell’Amore Moderno suggerito dal titolo non è esclusivamente, anche se lo è prevalentemente, di tipo sentimental-relazionale.

Maggie (Cristin Milioti, A to Z), una critica newyorkese, frequenta molti uomini, ma a giudicare se sono adatti a no a lei c’è il portiere del complesso dove vive, Guzmin (Laurentiu Possa) – 1.01; una giornalista (Catherine Keener, Forever), raccontando la propria storia al suo intervistato, Joshua (Dev Patel, The Newsroom), gli fa rendere conto di non farsi sfuggire la donna che ama sul serio – 1.02; Lexi (Anne Hathaway, Il Diavolo veste Prada, Interstellar) sabota involontariamente ogni relazione e ogni posto di lavoro che ha, a causa del disturbo bipolare di cui soffre – 1.03; Sarah (Tina Fey, 30 Rock) e Dennis (John Slattery, Mad Men) sono una coppia con il matrimonio in crisi che cerca di ritrovare la connessione persa – 1.04 – in una puntata scritta e diretta da Sharon Horgan (Catastrophe); al loro primo appuntamento, Yasmine (Sofia Boutella) e Rob (John Gallagher Jr, The Newsroom) finiscono all’ospedale – 1.05; Maddy (Julia Garner, Maniac) vede nel suo capo al lavoro, Peter (Shea Whigham, Homecoming),  una figura paterna – 1.06 (qui la regia è di Emmy Rossum di Shameless); una coppia gay, Tobin (Andrew Scott) e Andy (Brandon Kyle Goodman),  intende adottare il bebè di una senzatetto incinta – 1.07 (questa storia era tratta da uno scritto di Dan Savage); Margot (Jane Alexander, Tell Me You Love Me) e Kenji (James Saito) sono coppia di anziani che si innamorano facendo jogging – 1.08.

L’ultima puntata ha una coda in cui tutti i personaggi delle puntate vengono ripresi, cosa che in sé mi ha fatto molto piacere, ma è apparsa un po’ posticcia, appiccicata. Più senso avrebbe avuto se nelle varie puntate ci fossero state comparse degli altri protagonisti, magari fugaci e tangenziali nel mostrare comunque un mondo variegato e interconnesso, ma così non è stato per cui mostrarlo così solo alla fine non è stata una scelta retorica troppo felice. Ma è la sola vera critica negativa che mi sento di rivolgere.

C’è molta delicatezza in queste storie per la gran parte scritte e dirette da John Carney, e molto realismo nel mostrare l’amore nella sua ineffabilità, e nelle sue difficoltà anche. Non sono commedie romantiche di facili sentimenti, e nemmeno si mostra un amore fatto di magici trasporti e perfezioni estatiche che, se ci sono, sono piuttosto attimi fuggevoli, ma è un’esplorazione onesta di un sentimento che porta anche delusione e amarezza, insicurezza e rimpianti. È spesso commovente, ma non sciropposo, né costruito a tavolino fuori dal nulla. Dal momento che si tratta di vignette autoconclusive, si gioca bene con il tempo, che passa veloce. La narrazione è asciutta. Elegante. 

martedì 11 febbraio 2020

KATY KEENE: una favoletta stucchevole


Nello spin-off di Riverdale intitolato Katy Keene, il cui pilot ha debuttato lo scorso 6 febbraio sull’americana CW, Katy (Lucy Hale, Pretty Little Liars, Life Sentence), basata sull’omonimo personaggio dei fumetti Archie Comics, è una aspirante stilista che di notte confeziona i propri abiti, con una inclinazione verso il rosso, con la vecchia macchina da cucire ereditata dalla madre, e di giorno lavora come assistente in un grande magazzino di lusso di New York, Lacy’s, dove ambisce a diventare personal shopper dei ricchi e famosi. Ha un fidanzato, KO Kelly (Zane Holtz), che lavora come buttafuori in un locale e mira a diventare pugile, e vive con due suoi amici: Jorge (Jonny Beauchamp), che sogna una carriera a Broadway e lavora come drag queen con il nome di Ginger Lopez; e Josie (Ashleigh Murray, Riverdale), fresca della città, che intende sfondare come cantante dopo l’esperienza liceale con le Pussycats ed altre successive. Fra le sue amiche più care conta anche l’esperta di social media Pepper Smith (Julia Chan).   

Sviluppata da Roberto Agiurre-Sacasa e Michael Grassi, la serie è senza ritegno e senza vergogna una favola per ragazzine (la prima puntata è pure intitolata “C’era una volta a New York”), con le protagoniste che lavorano sodo per i propri sogni, ma ottengono tutto con una facilità sorprendente: Josie appena arrivata, improvvisa qualcosa a Washington Square insieme a una donna conosciuta lì sul momento e le viene potenzialmente offerto da un discografico super-carino e super-potente il contratto di una vita, anche se poi le cose non vanno come spera. Katy deve far colpo su un principe che spende molto denaro da Lacy’s, per non deludere la sua esigentissima principale, e salva la situazione con la ragazza di lui diventando la preferita del reale, nonostante l’invidia di una collega. Solo il povero Jorge viene ritenuto “troppo gay” in un’audizione per “Mannequin” a cui si è presentato. E dal canto suo KO è, dal pilot, poco più di un accessorio da sbaciucchiare per Katy che altro. La prima scena in cui appare, in mutande, è la definizione del fan service.  

Si sono osservate molte potenziali influenze: Riverdale, Sex and the City, Il Diavolo Veste Prada, Saranno Famosi, Felicity, The Bold Type, Rent, Valley of the dolls…C’è un’estetica retrò, visibile già dalle primissime immagini, oltre che da certi outfit, ma si è chiaramente ancorati al presente anche con riferimenti culturali pop vari. Ci sono colori saturi.  La romanticizzazione è smaccata e gloriosamente stucchevole, ma volutamente tale. Ci sono scene da cartolina, attenzione alla moda, intramezzi musical – è definito un musical dramedy -  e gli intenti e le emozioni dei personaggi sono tutti molto marcarti. Dal pilot ci vedo un potenziale successo, specie fra i giovanissimi, ma io passo.

mercoledì 5 febbraio 2020

DICKINSON: un'anacronistica poetica follia


Il più delle volte la Emily di Dickinson, la rivisitazione in chiave moderno-adolescenziale della vita della ben nota poetessa, sembra la rappresentazione di una ragazzetta viziata americana moderna e nulla di più. Voglio dire, ci vuole qualcosa di più di esclamare un “let’s get this party commenced” (1.03) invece di un “let’s get this party started” – ovvero usare un verbo più obsoleto per esprimere “che la festa abbia inizio” - per trasportarci in un’epoca passata.

Mi rendo conto ovviamente che è parte dell’obiettivo: mostrare l’attualità dell’esperienza dell’autrice alle generazioni contemporanee, andando al cuore della sua essenza. Mi chiedo però perché Alena Smith (The Affair), l’ideatrice, non abbia pensato a un qualche escamotage per rendere credibile la commistione passato-presente invece di stravolgere la realtà dell’epoca: che so, prendere una giovinetta odierna che sta studiando letteratura e farle fare dei voli di fantasia immaginandosi come l’eroina della penna. Almeno si evitava la sensazione di ragazzine d'oggi che si mettono in costume per gioco. Magari sono io che ho idee più restrittive rispetto a quello che la realtà era a quel tempo, ma la mia impressione è che si mostri il comportamento di quelle pulzelle come all’epoca sarebbe stato quello di donne di bordello, non di giovani di buona famiglia, come si suppone siano quelle rappresentate. Proprio come la mentalità su queste cose sia cambiata nel tempo, e quali fattori hanno contribuito al cambiamento, e come studiarlo ci possa aiutare nell’oggi, ha un ruolo filosofico-politico significativo. Con questo genere di approccio, simili riflessioni vengono cancellate, ed è un delitto, la più grave mancanza di questa serie, che per il resto è accuratamente ricercata e cosciente della realtà.

Siamo in Massachusetts, nel 19° secolo. Emily (Heilee Stenfeld) è una teen-ager – questo stesso termine sarebbe inappropriato all’epoca, ma vista la poetica dell’ideatrice un anacronismo da parte mia ci sta -, ed è una ribelle che aspira a fare la poetessa. Ha molto talento, ma è osteggiata dal padre Edward (Toby Huss) che ritiene che le donne non debbano scrivere, ma dedicarsi solo ad attività domestiche, alle quali la madre Emily (Jane Krakowski) la sottomette. La loro è una famiglia distinta, conosciuta in città da generazioni, e l’essere pubblicata porterebbe disonore, nella prospettiva del genitore, tanto più che ha ambizioni politiche. Ha una sorella più giovane, Lavinia (Anna Barishnikov), che ha testa solo per i ragazzi, ed un fratello più grande, Austin (Adrian Enscoe) che è fidanzato con Sue (Ella Hunt), un’orfana piena di debiti, che è la migliore amica di Emily. Di più, fra Emily e Sue c’è un rapporto saffico. A corteggiare Emily c’è un compagno di scuola che la apprezza moltissimo, George (Samuel Farnsworth), ma lei lo disdegna mostrando invece apprezzamento per un segretario del padre, Ben (Matt Lauria, Parenthood).

Con puntate ispirate ogni volta a dei versi di una lirica, che fungono anche da titolo, e che appaiono periodicamente sullo schermo come fuggevoli scritte dorate, i temi che si affrontano sono rilevanti allora come ora: la propria vocazione, come sviluppare e far sentire la propria voce e il proprio autentico io, la poesia, il ruolo nella società e il giudizio della società, l’essere donna e la femminilità, l’essere soli vs. sposarsi, la sessualità, l’ambientalismo, la morte… Quest’ultima è rappresentata come un personaggio a tutti gli effetti, in carne e ossa (Wiz Khalifa), in momenti fortemente visionari, come quello affascinante della season finale (1.10) in cui la protagonista immagina il proprio funerale e in cui compare un altro di questi ricorrenti personaggi di fantasia, l’Ape (Jason Mantzoukas), delle dimensioni di un umano adulto.

Si nota un certo taglio umoristico, su cui volutamente si preme l’acceleratore. La madre restrittiva che imporne rigide regole alle figlie viene fatta esprimere con un tono iperbolico quasi da sit-com nel raccomandarsi alle figlie di “pulire costantemente” casa mentre lei non c’è. Non è un caso, credo che ad interpretare Henry David Thoreau, che Emily va a trovare sperando di ingaggiarlo come sostenitore a favore della sua causa a che non venga abbattuto l’albero preferito della sua tenuta per farvi passare una ferrovia (1.02), sia stato assunto un comico, John Mulaney. La storia, quella vera, ci racconta di un uomo solitario e frugale sulla carta, ma che poi nella realtà si faceva ampiamente mantenere dalle donne di famiglia. Qui hanno toni esplicitamente comici la madre che passa col cesto a ritirargli la biancheria da lavare e la sorella che passa a portargli i suoi dolcetti. Lo stesso hanno fatto con Louisa May Alcott (interpretata da Zosia Mamet di Girls), invitata a un pranzo di Natale (1.08), fresca della sua prima pubblicazione, ritratta come una romanziera unicamente interessata ai soldi, e pronta a tavola a discutere possibili idee letterarie fra cui quella di Piccole Donne che la renderà famosa, e quella che sarà il Moby Dick di Melville, che lei prontamente respinge come noiosa. L’irrisione giocosa qui è indubbia, ma nel complesso il tono della serie sembra indeciso, sbagliato. Forse semplicemente non convince me. Almeno non del tutto, perché contemporaneamente, con la sua verve, è molto gustosa.

Non sono sicura di condividere moralmente, per così dire, l’esperimento di narrazione biografica, ma sono disposta a raccoglierlo come una poetica follia. In questa prospettiva, non poso negare che sia riuscita.  Non sorprende che sia fra le serie più richieste della neonata AppleTV+, quando era una delle debuttanti da cui ci sia aspettava di meno.