martedì 23 marzo 2021

IT'S A SIN: Russell T. Davies guarda all'AIDS negli anni '80

“Questo è quello che le persone dimenticheranno, quanto è stato bello”: dice così, nella mia traduzione, un personaggio (non dico chi né in che momento per evitare spoiler significativi) di It’s a Sin (È peccato), la più recente miniserie firmata dal magnifico Russell T. Davies (Queer As Folk, Cucumber, Years & Years, A Very English Scandal, Doctor Who, Torchwood) che è recentemente stato premiato  al Festival CanneSeries con l’Award for Eccellence. Qui si parla di AIDS, negli anni ’80, ai suoi esordi quando era associato agli omosessuali che ne sono stati una comunità fortemente colpita, e ci sono molte inevitabili lacrime, ma la narrazione è vitale, esuberante, gioiosa, assertiva, come già l’autore ci ha abituato in titoli precedenti. In Queer As Folk in particolare (1999), la seminale serie “più gay che sia mai stata realizzata”, come veniva definita, il tema di questa malattia era stato volutamente evitato – ma invece trattato nel successivo remake americano – e questo perché allora era gran parte di quello a cui i gay erano associati e si volva andare in una direzione diversa. Si voleva una necessaria distanza.

Quella che inizialmente doveva chiamarsi The Boys, ma ha poi cambiato titolo per evitare di essere scambiata con l’omonima serie Amazon di supereroi, racconta le vite di un gruppo di giovani ragazzi di provincia che si trasferiscono a Londra: Ritchie (Olly Alexander, noto per far parte di una popolare band) ha passato la vita sull'Isola di Wight insieme alla sorella e ai genitori, sognando di fare l’attore; Colin (Callum Scott Howells) è un timidissimo vergine che prende una camera in affitto da solo, prima di incontrare gli altri, e comincia a lavorare in una sartoria dove viene preso sotto l’ala protettrice di Henry (Neil Patrick Harris); Roscoe (Omari Douglas), molto effemminato e sicuro della propria identità, con minigonna e tacchi alti,  scappa dalla famiglia che vuole rimandarlo in Africa e si fa mantenere da un politico che lo tiene come proprio “giocattolo”; Ash (Nathaniel Curtis) si interessa a Ritchie. Completa il quadro di amici Jill (Lydia West) - in giro si legge descritta come eterosessuale, ma in realtà non è specificato, potrebbe anche ben essere asessuale o demisessuale -, che diventa presto un’attivista sull’AIDS, conducendo campagne di raccolta fondi per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e offrendo aiuto concreto ai molti soli, perché abbandonati dalla famiglia o troppo pieni di vergogna per potersi rivolgere a qualcuno. Jill è ispirata a un'amica di Davies (come scrive THR), Jill Nader, che qui interpreta la madre di Jill.

L’ignoranza, la negazione, il tabù, la confusione, la mancanza di informazioni, lo stigma, la vergogna e il disprezzo di sé, la paura, il senso di colpa riguardo a tutto quanto riguardasse HIV e AIDS è stato al centro di tanti passaggi memorabili e toccanti, illuminanti. Quando Ritchie si traferisce, sul traghetto il padre Clive (Shaun Dooley) gli passa una scatola di preservativi perché ritiene che nel nuovo ambiente gli serviranno: non sa che è gay, glieli dà a fini anticoncezionali. La trasmissibilità sessuale di malattie è talmente fuori da quello a cui il ragazzo pensa che li getta in mare, pensando di non averne bisogno. Jill prega l’amico Colin di procurarsi tutti i giornali e i libri possibili sull’argomento una volta che va per lavoro a New York, perché lei non riesce a trovare nulla, perfino il medico la liquida irritato dicendo che lui non ne sa molto e che tanto a lei non può interessare. Tutti si controllano e disinfettano tutto in maniera ossessiva (e a me non possono che venire in mente i racconti in questo senso di amici che questo lo hanno vissuto sulla propria pelle). Uno degli aspetti che ho amato di più è stato vedere all’inizio come le notizie di questa nuova “peste” fossero nell’aria, in modo obliquo: è la conversazione di due persone che ti sono sedute vicine e che tu nemmeno ascolti perché stai pensando ad altro, ma che cominciano così a insinuarsi nella coscienza collettiva – questo è straordinario della scrittura di Davies, che ha dato voce a dei personaggi basandosi sui propri ricordi, all’epoca studente a Manchester (dove sono state fatte molte delle riprese).

Un aspetto che non avrei notato da sola in questi termini, ma che mi è stato fatto notare dalle parole dell’autore stesso in un’intervista a TV’s Top5 (Ep. 109 – 26 febbraio 2021), è come si sia voluto mostrare (in particolare con l’episodio 4) come la maggior parte della gente non sia attivista. Gli storici guardano a quello che gli attivisti hanno ottenuto perché quello che fanno nella loro battaglia è documentano, mentre naturalmente non viene registrato quello che non viene fatto. La maggior parte della gente però non è attivista, vive la propria vita e basta, e questa esistenza delle persone ordinarie è quella che lui ha voluto mettere in scena e celebrare. È molto vero e significativo.  Contemporaneamente, io come malata di MECFS e come attivista di una patologia trascurata in cui regnano altrettanta ignoranza, confusione, mancanza di informazione, stigma, incomprensione e vite perdute (anche se solo di rado in termini di effettiva morte) non posso che guardarlo anche in questa prospettiva – anche perché è scoppiata negli stessi anni – e vedere la differenza delle azioni per far riconoscere la verità di una realtà, rammaricarmi del tempo perduto e auspicare che ci sia altrettanto margine per riconoscere la sofferenza di questa situazione e agire per cambiare le cose. Bene nella storia si mescolano la consapevolezza del fatto che costituisce una condanna e disperazione per la ricerca della cura – Ritchie che beve la propria urina è il frammento di un istante, ma ben incapsula l’angoscioso tentativo di cercare una via d’uscita che ancora non c’è.

Adoro Russell T. Davies. Ho scritto saggi sui suoi lavori (guadate sotto “leggimi”) e ho apprezzato anche testi minori (penso a Bob & Rose). È importante nella mia formazione umana e trovo che abbia sempre qualcosa di nuovo da dirmi. Anche qui ha sparso qualche pepita inaspettata. Credo che sia una delle pochissime volte in cui ho visto lo spettro dell’incombente molestia sessuale di un uomo gay su un altro uomo gay, come accade a Colin quando lavora da Savile Row. È stato molto Stuart Allan Jones (lo storico personaggio di Queer As Folk) la reazione di Roscoe all’uomo con cui andava a letto, che lo ha pesantemente insultato. Sono sempre stupita di come riesca ad essere empowering di fronte alle più odiose e umilianti delle situazioni. 

Ho amato moltissimo tutto il discorso trasversale sul non vedere, non sapere, o meglio nel non voler vedere e non voler sapere - è il nerbo dell’intento etico di Davies: che esca dalla bocca di Ash (ep. 4) che racconta la filippica a chi gli ha chiesto di epurare i testi omosessuali dalla biblioteca, che ha pensato ma di fatto non ha mai pronunciato; o che esca dalle rimostranze rivolte a Valerie (Keeley Hawes), la madre di Ritchie, che viene accusata da Jill e dalla madre di un altro paziente per non aver visto perché non voleva. Quella è stata la vera condanna di molti malati di AIDS.             

"C'è un'autentica energia queer che emerge da questo show. È negli spazi liminali […]. È molto tangibile. E ne sono immensamente orgoglioso". Dice Davies (THR). Ha ragione di esserlo. La scoppiettante colonna sonora pure è piena di verve, impeccabile fino al brano di chiusura dei REM.

Chiudo con una citazione che solo chi ha visto il programma (Channel4) capirà, ma che credo riempirà loro il cuore di una gran gioia, insieme ai ricordi di una visione ricca di commozione: “La!”

lunedì 15 marzo 2021

EQUINOX: uno Scandinoir sovrannaturale

 

Non mi ha troppo convinta Equinox, che esordisce con una premessa alla The Society, ovvero un gruppo di compagni di scuola parte con un pulmino e svanisce nel nulla, per risolversi in una specie di Stranger Things danese, per il fatto che, se non c’è propriamente un Sottosopra, c’è comunque un mondo altro, mitico, nebbioso, folto di indistinta vegetazione e che provoca paura. È stata prevalentemente accostata a Dark, ma non avendo seguito quest’ultima non ho opinioni in proposito. È la seconda serie danese prodotta da Netflix e afferisce al cosiddetto altgenre noto come “Scandinoir” (e in proposito può essere interessante leggere questo post su Critical Studies in Television).

Astrid (una Danica Curcic molto coinvolgente, che fa trasparire le mutevoli emozioni sul suo volto) è una giornalista radiofonica che un giorno riceve una telefonata da un misterioso ascoltatore che la riporta a quello che era successo quando lei aveva solo 9 anni (e ad interpretarla è Viola Martinsen), dicendole di sapere che cosa era accaduto. Come accennavo sopra, un gruppo di neodiplomati, nel 1999, era partito per una gita e 21 persone erano svanite nel nulla. Solo tre erano tornati. Fra gli scomparsi c’era Ida (Karoline Hamm), la sorella maggiore di Astrid, e lei ora cerca di ricostruire cosa le fosse successo, anche confrontandosi con i propri genitori. Riemergono così prepotenti gli incubi del passato che l’avevano portata per un breve periodo anche in cura presso un ospedale psichiatrico.

Il mistero ruota intorno al culto della dea Ostara, in un cui rituale era stata coinvolta Ida, ed era collegato, senza fare troppo spoiler, in un patto stretto anni prima dalla madre. Questa creazione di Tea Lindeburg, basata su un popolare podcast, spiega a grosse linee il mito della divinità in questione, facendolo sembrare però molto più esotico di quanto non sia. Chiunque abbia visto American Gods, che peraltro le ha dedicato un magnifico episodio (1.10), o chiunque abbia un minimo di familiarità con l’etimologia della parola Easter, Pasqua in inglese, ha familiarità con Ostara. Si fa riferimento all’equinozio di primavera (da cui il titolo) e si usano le uova e l’uomo lepre anche, tutti riferimenti mitologici con cui abbiamo comunque familiarità.

Forse sono io che non ho grande affinità con questo genere di narrazioni, ma non mi ha troppo impressionata. Nel culmine della cerimonia sessuale vera e propria (1.02) quello che ho pensato è stato che in True Blood rituali simili erano usciti più disturbanti e conturbanti. Qui i partecipanti sembravano più zombie che baccanti in preda a un sacro furore. A convincermi è stata solo la palette cromatica.  

Un aspetto interessante che si è affrontato, ma per zigzagare in non si sa bene quale direzione, è il tema della sanità mentale. Quando Astrid da piccola continua ad avere incubi di un mondo alternativo dove sarebbe intrappolata la sorella e dove lei nella dimensione onirica poteva entrare per liberarla, si dubita del suo equilibrio mentale: sua madre le crede (e nella spiegazione finale si capisce il perché), all’insegna del “tu non sei malata, sei speciale” e la spinge anche a suo danno a inoltrarsi in quei territori; il padre al contrario vorrebbe per lei un supporto psicologico e per un periodo viene ricoverata e prende dei farmaci che le impediscono di avere incubi. In ospedale la bimba conosce anche un coetaneo, che si auto-convince di non essere malato finendo male. Quindi ci si pone appropriatamente l’importante quesito di che cosa sia essere sani di mente e che cosa no, ma allo stesso tempo non si abbozza nemmeno una risposta. Anche perché poi la conclusione è decisamente sul terreno del fantastico.

Altro tema che emerge è quello del libero arbitrio e del fato, ma anche qui il discorso è appena abbozzato, e lo stesso dicasi della possibilità di indagare diversi modi di reagire a un lutto, nonostante il buon intersecarsi fra presente e passato. Qualche altro personaggio potenzialmente interessante, oltre alle due sorelle e ai genitori, è stato scartato non appena ha eseguito la sua funzione narrativa, ma le vicende sapevano teleologicamente dove andare a parare e in questo senso non ci si può dire delusi.

Le sei puntate della prima stagione di questo thriller sovrannaturale sono state rilasciate da Netflix lo scorso 30 dicembre.     

sabato 6 marzo 2021

THE WILDS: un esperimento di ginotopia


The Wilds (Amazon Prime) è una sorta di Signore delle Mosche al femminile che incontra Lost.

Il volo di nove ragazze adolescenti diretto alle Hawaii a un ritiro di empowerment per giovani donne dal nome “Dawn of Eve” (l’Alba di Eva) precipita e si ritrovano su un’isola deserta. Qui devono sopravvivere e imparare a fidarsi l’una dell’altra. Quello che non sanno è che si tratta di un esperimento e vengono osservate da Gretchen Klein (Rachel Griffiths, Six Feet Under), a capo del programma, che conduce indagini poco ortodosse. Le vicende partono da un momento successivo, quando le ragazze, ora in salvo ma separate, vengono interrogate da - apparentemente - un agente dell’FBI (Troy Winbush) e da uno psicologo (David Sullivan).

Proprio come in Lost, le vite delle nove ci vengono raccontate con dei flashback che ci spiegano chi sono e perché in qualche caso reagiscono come fanno, compresa Jeanette, in realtà Linh Bach, un’agente sotto copertura (1.07). Leah (Sarah Pidgeon) si sta riprendendo da una delusione d’amore, dopo una relazione con un romanziere che lui ha interrotto quando ha scoperto che lei era minorenne (1.01, 1.06); Rachel (Reign Edwards) ha un passato di bulimia sviluppato nel disperato tentativo di rimanere competitiva nei tuffi (1.02) ed è precipitata insieme alla sorella gemella Nora (Helena Howard, una Zendaya look-alike), quieta e studiosa; Dot (Shannon Barry) si occupava del padre morente (1.03); Toni (Erana James), con la madre a disintossicarsi e data a una famiglia affidataria, è una lesbica apertamente tale che ha facili scatti d’ira (1.04), ed è molto amica di Martha (Jenna Clause), della riserva Obijwe in Minnesota, che ha un passato di abuso con cui ha difficoltà a venire a patti (1.09);  Fatin (Sophia Ali) è una violoncellista spinta ad eccellere dalla madre (1.05); Shelby (Mia Healey) è una reginetta di bellezza del Texas, molto religiosa con omofobia interiorizzata (1.08).

Ci sono tutte le tematiche classiche del genere sopravvivenza, dall’allocazione delle risorse scarse, alla costruzione di ripari, dalla necessità di procurarsi cibo e acqua all’esigenza di comunicare con l’esterno, ai pericoli e come difendersi, alla divisione dei compiti… Questa volta è declinato al femminile, ed è bello per una volta vedere delle giovani donne parlare di partner e anche di sesso in modo naturale, molto vero. Indubbiamente contemporaneo pure nel fare riferimento esplicito da parte dei personaggi a programmi televisivi che hanno trattato questo genere, come Survivor.

La trama orizzontale del fatto che sono parte di un progetto di ricerca aggiunge quel pizzico di mistero utile ad aumentare la tensione. Una delle ragazze del gruppo è segretamente informata e una di loro comincia a nutrire dei sospetti. È appassionante e ricco di colpi di scena, fino all’ultimo momento, con un cliffhanger che rende già ghiotta la prospettiva di una seconda stagione.   

L’abilità dell’autrice Sarah Streicher sa nel rendere fresca una premessa già vista, creando credibili relazioni fra donne che provengono da ambienti molto diversi fra loro.   Quello che davvero è il nucleo della narrazione sono i rapporti umani, e come un’esperienza del genere cambi le persone. A mano a mano che si procede poi nella storia si capisce l’intento dell’esperimento (1.07): creare una “ginotopia” le donne sarebbero più naturalmente portate a creare una società armoniosa, senza i conflitti distruttivi che hanno minato l’umanità fino ad oggi a causa del patriarcato, per cui sono loro che dovrebbero avere il potere.

Il target sono gli adolescenti, ma è trascinante anche per gli adulti.

lunedì 1 marzo 2021

GOLDEN GLOBE 2021: i vincitori

Ieri sera sono stati consegnati i Golden Globe, i premi dell’associazione della stampa straniera presente ad Hollywood. La cerimonia, presentata da Tina Fey and Amy Poehler, è andata on onda sull’americana NBC tenendo conto delle restrizioni dovute al COVID-19.

Sotto, trovate l’elenco dei vincitori di quest’anno nelle categorie televisive. Qui trovate l’elenco completo anche per il cinema.

Quest’anno la Hollywood Foreign Press Association è stata oggetto di particolari critiche, sia a livello di nomination – e avevo fatto un video in cui parlavo anche di questo – sia per accuse di comportamenti poco etici e di istituzionalizzare una cultura di corruzione. Si legga un interessante pezzo del Los Angeles Times in proposito, su cui si è parlato parecchio.

Penso che sia utile in ogni caso ricordare, che i membri dell’Associasione che consegna questi premi sono 87 (!). I membri dell’Academy cinematografica che consegna gli Oscar sono 10.300 (di cui 9.400 con diritto di voto). I membri dell’Academy televisiva che consegna gli Emmy sono più di 25.000.

Premetto che per praticità scrivo “miglior attore” e “miglior attrice”, quando in realtà la dicitura vuole “miglior performance” da parte di un attore/attrice, cosa che è sicuramente più appropriata di quella da me scelta.

 

Ma ecco i vincitori:

Miglior drama: The Crown

Miglior attrice, drama: Emma Corrin, The Crown

Miglior attore, drama: Josh O'Connor, The Crown

 

Miglior comedy: Schitt's Creek

Miglior attrice, comedy: Catherine O'Hara, Schitt's Creek

Miglior attore, comedy: Jason Sudeikis, Ted Lasso

 

Miglior miniseries: The Queen's Gambit

Miglior attore in una miniserie: Mark Ruffalo, I Know This Much Is True

MIglior attrice in una miniserie: Anya Taylor-Joy, The Queen's Gambit

 

Miglior attrice non protagonista in TV: Gillian Anderson, The Crown

Miglior attore non protagonista in TV: John Boyega, Small Axe