lunedì 28 settembre 2020

TCA Awards 2020: i vincitori

In ritardo rispetto al solito e senza cerimonia a causa della pandemia da COVID-19, ma comunque una settimana prima della consegna degli Emmy, il 14 settembre, sono stati rivelati i vincitori dei TCA Awards, ovvero i premi dei critici televisivi americani e canadesi della Television Critics Association.

Eccoli sotto:

Programma dell’anno: Watchmen (HBO)

Miglior Nuovo Programma: Watchmen (HBO)

 

Miglior Drama: Succession (HBO)

Miglior Film o Miniserie: Watchmen (HBO)

Miglior Comedy: Schitt’s Creek (Pop TV)

 

Miglior News a e Informazione: The Last Dance (ESPN)

Miglior Reality: Cheer (Netflix)

Miglior programma per ragazzi: Molly of Denali (PBS Kids)

Miglior  Sketch/Varietà: A Black Lady Sketch Show (HBO)

 

Miglior interpretazione  in un  Drama: Regina King (Watchmen, HBO)

Miglior interpretazione  in una Comedy: Catherine O’Hara (Schitt’s Creek, Pop TV)

 

Premio alla carriera: Alex Trebek

Heritage Award: Star Trek (CBS)


Personalmente sono soddisfatta delle scelte. Come tutti mi inchino al genio narrativo di Damon Lindelof. Io stessa avevo indicato l’attualissimo pregnante Watchmen fra le serie migliori del 2019. Ne avevo parlato qui. Se Succession non avesse portato a casa il riconoscimento come miglior serie drammatica sarei davvero rimasta sorpresa e delusa. Dal poco che ho visto di Schitt’s Creek pure sono soddisfatta.

Il solo risultato che avrei voluto diverso è quello della categoria “Miglior nuovo programma”, dove avrei voluto vincesse The Great, questo anche perché Watchmen ha già vinto in molte altre categorie e presumibilmente non avrà una seconda stagione. Qui, trovate insieme ai vincitori anche l’elenco dei nominati.

lunedì 21 settembre 2020

EMMY AWARDS 2020: i vincitori

 

Sono stati consegnati ieri gli Emmy Awards, gli Oscar del piccolo schermo. Ecco sotto la lista dei vincitori principali. Qui l’elenco completo, anche dei nominati. Posso solo commentare che ha vinto chi avrei fatto vincere io, almeno per quanto riguarda le categorie principali.


Miglior drama: Succession (HBO)

Miglior attrice, Drama: Zendaya, “Euphoria”

Miglior attore, Drama: Jeremy Strong, “Succession”

Miglior attrice non protagonista, drama: Julia Garner, “Ozark”

Miglior attore non protagonista, drama: Billy Crudup, “The Morning Show”

Miglior sceneggiatura per un drama: Jesse Armstrong, Succession (“This Is Not for Tears”)

Miglior regia per un drama: Andrij Parekh, Succession (“Hunting”)

 

 

Miglior  Comedy: Schitt’s Creek (Pop)

Miglior attrice, comedy: Catherine O’Hara, “Schitt’s Creek”

Miglior attore, comedy: Eugene Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior attrice non protagonista, comedy: Annie Murphy, “Schitt’s Creek" 

Miglior attore non protagonista, comedy: Daniel Levy, “Schitt’s Creek”

Miglior sceneggiatura per una  comedy: Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

Miglior regia per una comedy: Andrew Cividino and Daniel Levy, Schitt’s Creek (“Happy Ending”)

 


Miglior Limited Series: Watchmen (HBO)

Miglior attrice,  Limited Series o TV Movie: Regina King, “Watchmen”

Miglior attore, Limited Series o TV Movie: Mark Ruffalo, “I Know This Much Is True”

Miglior attrice non protagonista, Limited Series o Movie: Uzo Aduba, “Mrs. America”

Miglior attore non protagonista, Limited Series o Movie: Yahya Abdul-Mateen II, “Watchmen”

Miglior sceneggiatura per una Limited Series: Damon Lindelof and Cord Jefferson, Watchmen (“This Extraordinary Being”)

Miglior regia per una Limited Series: Maria Schrader, Unorthodox


martedì 15 settembre 2020

THE MAN IN THE HIGH CASTLE: se avessero vinto i nazisti

 

The Man in the High Castle, L’Uomo nell’Alto Castello, la produzione Amazon Prime basata sull’omonimo romanzo di Philip K. Dick del 1962 (La Svastica sul Sole in italiano), è una ucronia in cui le forze dell’asse hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale: gli Stati del Pacifico sono sotto il controllo giapponese, mentre la gran parte del resto degli Stati Uniti, salvo una piccola zona neutrale, sono sotto il controllo dei tedeschi. Roosevelt è stato assassinato e i nazisti hanno sganciato una bomba atomica su Washington.

 

Nelle quattro stagioni di 10 puntate ciascuna di cui si compone, il punto di forza di questa creazione di Frank Spotnitz è una trama molto solida e ben recitata: in generale la narrazione è molto appagante perché ben strutturata e ricca di colpi di scena imprevedibili che la rendono sia facile da seguire e in un certo senso entusiasmante, oltre che molto pregnante rispetto al commento che offre metaforicamente sulla realtà contemporanea. Visivamente è più ordinaria.

 

Prima sotto il potere del Führer Hitler (Wolf Muser, Santa Barbara) poi, dopo la morte di questi, di Himmler (Kenneth Tigar), seguiamo le vicende dell’Obergruppenführer delle SS, John Smith (Rufus Sewell, Victoria), che fa poi carriera, che vive inizialmente in periferia poi a Manhattan insieme alla sua famiglia, che ama molto: la moglie Helen (Chelah Horsdal) e tre figli, Thomas (Quinn Lord), membro della gioventù hitleriana, Amy (Gracyn Shinyei) e Jennifer (Genea Charpentier). Sua principale “avversaria” nel corso del tempo è la partigiana Juliana Crain (Alexa Davalos) che all’inizio delle vicende è legata a Frank Frink (Rupert Evans), il cui nonno ebreo lo mette a rischio di discriminazione, ma che viene presto intrigata da Joe Blake (Luke Kleintank), perennemente in bilico su da che parte stare. Fra i migliori amici di Juliana e Frank c’è Ed McCarthy (DJ Qualls), che avvia una collaborazione con Robert Childan (Brennan Brown), un pavido, ma astuto  antiquario che vende cimeli americani ai giapponesi. Presto la resistenza, e nella quarta stagione la BCR (Black Communist Rebellion), si fa più organizzata ed è oggetto di repressione tanto da parte tedesca quanto da parte nipponica. Su quel versante, due leader sono il Ministro del Commercio Nabosuke Tagomi (Cary-Hiroyuki Tagawa), poi una figura positiva, e l’ispettore capo della Kenpeitai di stanza a San Francisco Takeshi Kido (Joel de la Fuente), che si riscatta solo alla fine: “questi imperi per cui combattiamo sono solo castelli di sabbia. Solo le onde sono eterne” (4.08).

 

I film in possesso dell’uomo nell’alto castello del titolo, su cui da un lato i nazisti, dall’altro la resistenza cercano di mettere le mani, ritraggono versioni alternative della storia, della realtà. Se nella diegesi questo si spiega per la presenza di un multiverso, per cui in ogni universo parallelo ci sono varie alternative di noi, il senso per noi è che immaginare delle alternative alla realtà presente permette di attivarsi per cambiarla, per avere una Storia (passato condiviso) e una storia (narrazione) differenti. Vedere film cambia le menti delle persone, e questo è la precondizione perché ci possano essere dei cambiamenti, delle scelte diverse. Mondi paralleli, fra virgolette, mondi diversi sono nei fatti resi possibili grazie alle nostre scelte. Questo è il senso ultimo di quello che la serie dice: quello che accade non è nelle mani di Dio, è nelle nostre mani. E suppongo che si potrebbe fare un’analisi nei termini dei “mondi possibili” di Eco. 

 

La serie è particolarmente riuscita nel mantenere il protagonista nazista principale in una situazione ambigua. Evita di cadere nella trappola del “nazista buono”, che sarebbe un ossimoro e moralmente discutibile, tuttavia riesce a non renderlo nemmeno un irredimibile cattivo, nel momento in cui lo mostra come un uomo che, sconfitto e costretto ad accettarli per sopravvivere, non ha sempre creduto buoni i principi del Reich, salvo poi sostenerli e rendersi conto alla prova dei fatti quanto siano deleteri. E quando la sua famiglia rischia di venire compromessa dai principi, lui non mostra dubbio alcuno su che cosa sceglie: le persone amate. Contemporaneamente, facendo carriera, e volendo mantenerla, e temendo anche per la propria incolumità, non arriva a disconoscerli e a rinunciare al suo ruolo. In questo senso, la recitazione di Rufus  Sewell è particolarmente sensibile, perché infonde costantemente il personaggio della crescente consapevolezza di essere in trappola in una realtà che ha aiutato a creare e che mantiene, ma di cui vede l’obbrobrio. Questo si estende anche ad Helen, la più coraggiosa alla fine nell’interrogarsi sul che cosa siano diventati e sul cercare di arrestare questo processo che riconosce come criminale.

 

Uno degli aspetti salienti è che si guarda non al nazismo dei grandi eventi (veri o immaginati che siano), ma a quello domestico, quello della vita quotidiana delle persone comuni, di coloro che poi non lo vivevano così male perché in una situazione di privilegio rispetto a quelli braccati come topi. Questo si riflette nella messa in scena. Sebbene si evochino i grandiosi scenari del potere, la gran parte delle scene avviene in uffici, case, camere d’albergo, seminterrati, baracche…  Per certi aspetti fa più effetto vedere la madre di famiglia leggere l’etichetta di un indumento e vedere che c’è una sigla che sta ad indicare che è realizzato da mani ariane, che l’ennesima esecuzione. Sa essere raggelante, ma in questa domesticità ci si rende anche conto del perché ha potuto attecchire. E perché ignoriamo realtà altrettanto terribili intorno a noi.   

 

In maniera molto forte poi, si esamina la conseguenza della riflessione critica dei figli sui genitori. I figli vivono le conseguenze delle scelte materne e paterne, e non sono belle. Sono il seme della distruzione di quel regime, che evidentemente non può essere sostenuto. Nella seconda stagione, lo si esplicita nella scelta del figlio di John, che è idealmente imbevuto degli ideali nazisti, in uno dei twist della stagione più inattesi e coinvolgenti, forse dovrei dire sconvolgenti perché coerenti. In seguito la figlia maggiore di John in particolare comincia ad accorgersi delle menzogne, e della propaganda. Venuta in contatto con un’alternativa, vede la realtà e per quella che è. E su questo si può riflettere come sia facile mantenere dei regimi totalitaristici e dispotici lì dove non c’è permeabilità con delle alternative. Helen si rende conto che ha perso anche la figlia più piccola alla fine, perché la sua mente appartiene invece allo Stato, che le ha fatto il lavaggio del cervello. Il figlio di Takeshi Kido è considerato un eroe di guerra, ma soffre di disturbo post-traumatico da stress, e reagisce con violenza verso queste emozioni distruttive che non riesce a controllare.

 

La parte distopico-fantascitifica pure è coerente col disegno di dominio del mondo del Reich e la forza del programma sta proprio nel riuscire ha mostrare la pericolosità di certe idee nella confezione di un’avventura molto godibile.

 

sabato 5 settembre 2020

THE BOOTH AT THE END: un patto per ottenere ciò che desideri


Che cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che desideri? È questa l’idea centrale intorno a cui ruota The Booth at the End, ideato da Christopher Kubasik.

Un uomo (Xander Berkeley), senza nome, propone alle persone che si rivolgono a lui un patto. Se loro eseguono esattamente quello che lui chiede, otterranno per certo quello che vogliono, qualunque cosa essa sia. In cambio vuole solo essere tenuto al corrente ed essere aggiornato sui dettagli. I compiti che affida sono semplici o difficili, atroci o piacevoli, non c’è una regola. Lui apre un quaderno da qui legge quello che devono fare, e in cui segna quello che i suoi clienti gli raccontano. 

Chi è? Non si sa. È forse Dio? È il diavolo alla Faust di Goethe? “Come so che non sei il diavolo?”, gli chiede una. “Non lo sai”, risponde. È uno sceneggiatore? Uno psicoterapeuta? La propria coscienza resa visibile, i propri meccanismi mentali a volte assurdi resi concreti? È l’intermediario di qualcuno? È la materializzazione del fato eschileo come suggeriscono su FestivaldelNerd? O magari è un esperimento di Milgram, per l’era digitale, come propone Lucy Mangan sul Guardian? Non abbiamo una risposta. Non solo, dice esplicitamente che non possiamo saperlo. E questa incognita gnoseologica è una delle cifre stilistiche su cui fonda la propria forza la narrazione.

C’è il padre che vuole che il figlio non muoia di leucemia, la ragazza che desidera essere la più bella, l’uomo che agogna che una  donna vista nel poster di una rivista si innamori di lui, la suora che ha perso la fede che vuole ritrovare Dio… E i compiti possono essere i più vari, da aiutare una vecchina ad attraversare la strada, a rapinare una banca, a piazzare una bomba o uccidere qualcuno…

Lui, l’uomo al tavolo al fondo di una archetipa diner americana, non costringe nessuno. Chiede ripetutamente ai propri clienti se vogliono continuare, non affida mai missioni impossibili, solo compiti che spesso le persone non vogliono svolgere, questo sì. Sta a loro decidere che cosa fare. Loro hanno la scelta. Vogliono davvero quello che hanno detto di volere? A che cosa sono disposti per averlo? Possono abbandonare i propri propositi in ogni momento, e sono liberi di scegliere come mettere in atto il piano, hanno libero arbitrio di cambiare idea e chiedere cose differenti. E non è detto che quello che vogliono poi non lo ottengano comunque, indipendentemente dall’accordo stipulato.   

Lui, di sè, non dice nulla. Nemmeno a Doris (Jenni Blong), cameriera della tavola calda, che cerca di capire chi è e di far sì che lui si apra con lei. Così come dichiara rigorosamente di non sapere molte delle cose che gli domandano, di come stiano andando, o su chi siano le persone con cui vengono in contatto.

La serie è costruita esclusivamente sui dialoghi fra l’uomo e i propri clienti, è quindi puramente conversazionale, quasi teatrale.  Non vediamo accadere niente, e tutto è ricostruito nella nostra fantasia attraverso le parole. Ci si interroga proprio sul desiderio, sulle scelte, sulla natura umana e su quello che saremmo disposti a fare per ottenere determinate cose. Io per me stessa credo di sapere bene a che cosa sarei disposta e a che cosa no. Però sarebbe diverso se avessi la certezza di avere quello che voglio?

E le storie, scopriamo pian piano, almeno alcune di esse, sono collegate. A un uomo viene chiesto di uccidere una bambina, a un altro di proteggerla. È la vita.

Purtroppo su Amazon Prime, dove è disponibile la prima, tutta con la regia di Jessica Landaw, di due stagioni di cinque puntate ciascuna, è possibile solo seguirla in italiano. Mi rammarico di questo non tanto per principio, perché è più bello avere l’opzione di vederla anche in originale (che solitamente scelgo), tanto più con un cast di prim’ordine come in questo caso, quanto perché la versione doppiata è mal sincronizzata, e questo un po’ rovina la qualità della fruizione.

È un racconto che è contemporaneamente intimo, perché poche cose ci rivelano a noi stessi come i desideri, ma anche molto distaccato, teso. Non sembra tradire emozioni il man at the booth, se non curiosità e sorpresa, e non giudica chi ha di fronte, né per quel che vengono a chiedergli, né per come decidono di attuare i propri compiti. Si pongono questioni filosofiche, esistenziali, etiche, sebbene ci sia un fondo in qualche modo sovrannaturale. C’è anche un’estetica molto “ordinaria”, quotidiana. A dispetto della premessa, non c’è niente di cervellotico.

Leggo su Wikipedia che il regista italiano Paolo Genovese ne ha tratto ispirazione per un suo film, The Place. La serie intanto, che è del 2010, è affascinante. Da non perdere. E se mi dispiace che sia stata cancellata dopo dope due stagioni, mi auguro di poter almeno vedere presto almeno la seconda, per ora inedita.