Che cosa
saresti disposto a fare per ottenere quello che desideri? È questa l’idea
centrale intorno a cui ruota The Booth at
the End, ideato da Christopher Kubasik.
Un uomo
(Xander Berkeley), senza nome, propone alle persone che si rivolgono a lui un
patto. Se loro eseguono esattamente quello che lui chiede, otterranno per certo
quello che vogliono, qualunque cosa essa sia. In cambio vuole solo essere
tenuto al corrente ed essere aggiornato sui dettagli. I compiti che affida sono
semplici o difficili, atroci o piacevoli, non c’è una regola. Lui apre un
quaderno da qui legge quello che devono fare, e in cui segna quello che i suoi
clienti gli raccontano.
Chi è?
Non si sa. È forse Dio? È il diavolo alla Faust
di Goethe? “Come so che non sei il diavolo?”, gli chiede una. “Non lo sai”,
risponde. È uno sceneggiatore? Uno psicoterapeuta? La propria coscienza resa
visibile, i propri meccanismi mentali a volte assurdi resi concreti? È
l’intermediario di qualcuno? È la materializzazione del fato eschileo come
suggeriscono su
FestivaldelNerd? O magari è un esperimento di
Milgram, per l’era digitale, come propone
Lucy Mangan sul Guardian? Non
abbiamo una risposta. Non solo, dice esplicitamente che non possiamo saperlo. E
questa incognita gnoseologica è una delle cifre stilistiche su cui fonda la
propria forza la narrazione.
C’è il
padre che vuole che il figlio non muoia di leucemia, la ragazza che desidera
essere la più bella, l’uomo che agogna che una donna vista nel poster di una rivista si
innamori di lui, la suora che ha perso la fede che vuole ritrovare Dio… E i
compiti possono essere i più vari, da aiutare una vecchina ad attraversare la
strada, a rapinare una banca, a piazzare una bomba o uccidere qualcuno…
Lui,
l’uomo al tavolo al fondo di una archetipa diner
americana, non costringe nessuno. Chiede ripetutamente ai propri clienti se
vogliono continuare, non affida mai missioni impossibili, solo compiti che
spesso le persone non vogliono svolgere, questo sì. Sta a loro decidere che
cosa fare. Loro hanno la scelta. Vogliono davvero quello che hanno detto di
volere? A che cosa sono disposti per averlo? Possono abbandonare i propri
propositi in ogni momento, e sono liberi di scegliere come mettere in atto il
piano, hanno libero arbitrio di cambiare idea e chiedere cose differenti. E non
è detto che quello che vogliono poi non lo ottengano comunque,
indipendentemente dall’accordo stipulato.
Lui, di
sè, non dice nulla. Nemmeno a Doris (Jenni Blong), cameriera della tavola calda,
che cerca di capire chi è e di far sì che lui si apra con lei. Così come
dichiara rigorosamente di non sapere molte delle cose che gli domandano, di
come stiano andando, o su chi siano le persone con cui vengono in contatto.
La serie
è costruita esclusivamente sui dialoghi fra l’uomo e i propri clienti, è quindi
puramente conversazionale, quasi teatrale. Non vediamo accadere niente, e tutto è
ricostruito nella nostra fantasia attraverso le parole. Ci si interroga proprio
sul desiderio, sulle scelte, sulla natura umana e su quello che saremmo
disposti a fare per ottenere determinate cose. Io per me stessa credo di sapere
bene a che cosa sarei disposta e a che cosa no. Però sarebbe diverso se avessi
la certezza di avere quello che voglio?
E le
storie, scopriamo pian piano, almeno alcune di esse, sono collegate. A un uomo
viene chiesto di uccidere una bambina, a un altro di proteggerla. È la vita.
Purtroppo
su Amazon Prime, dove è disponibile la prima, tutta con la regia di Jessica
Landaw, di due stagioni di cinque puntate ciascuna, è possibile solo seguirla
in italiano. Mi rammarico di questo non tanto per principio, perché è più bello
avere l’opzione di vederla anche in originale (che solitamente scelgo), tanto
più con un cast di prim’ordine come in questo caso, quanto perché la versione
doppiata è mal sincronizzata, e questo un po’ rovina la qualità della
fruizione.
È un
racconto che è contemporaneamente intimo, perché poche cose ci rivelano a noi
stessi come i desideri, ma anche molto distaccato, teso. Non sembra tradire
emozioni il man at the booth, se non
curiosità e sorpresa, e non giudica chi ha di fronte, né per quel che vengono a
chiedergli, né per come decidono di attuare i propri compiti. Si pongono
questioni filosofiche, esistenziali, etiche, sebbene ci sia un fondo in qualche
modo sovrannaturale. C’è anche un’estetica molto “ordinaria”, quotidiana. A
dispetto della premessa, non c’è niente di cervellotico.
Leggo su
Wikipedia che il regista italiano Paolo Genovese ne ha tratto ispirazione per
un suo film, The Place. La
serie intanto, che è del 2010, è affascinante. Da non perdere. E se mi dispiace
che sia stata cancellata dopo dope due stagioni, mi auguro di poter almeno
vedere presto almeno la seconda, per ora inedita.
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