sabato 30 gennaio 2021

WANDAVISION: archeologia delle sit-com e mistero

Non ho familiarità alcuna con l’MCU (l’Universo Cinematografico della Marvel), per cui purtroppo non colgo i riferimenti al relativo corposo canone di finzione a cui fa riferimento la nuova miniserie WandaVision (Disney+), che sicuramente gli appassionati sapranno apprezzare molto più di me. Io non solo non vedo alcuni degli Easter egg, rischio magari di prendere lucciole per lanterne. Per fare un esempio banalissimo, in “Ora a Colori” (1.03) il personaggio di Geraldine dice a Wanda che sa che il fratello gemello di lei, Pietro, è stato ucciso da Ultron. Non solo per me Pietro e Ultron sono nomi che non collego a nulla, ma quando Wanda nota che Geraldine ha un ciondolo con una spada, non capisco, come poi mi spiegano ricerche in internet, che si tratta del simbolo della S.W.O.R.D. (spada appunto), una fittizia agenzia di antiterrorismo della Marvel. Quella che vuole essere una spada per me era una croce capovolta, e dato che San Pietro è noto per aver chiesto di essere crocifisso capovolto per non avere lo stesso “onore” di Cristo, mi sono chiesta se quel ciondolo non significasse che Geraldine era Pietro. Sono andata completamente fuoristrada.

Conscia dei miei limiti, sono stimolata ugualmente dalla visione di questa nuova miniserie tanto attesa, in cui il non capire che cosa sta accadendo è in parte sicuramente voluto. Siamo tutti un po’ disorientati. La narrazione si suppone essere posizionata in continuità, ma dopo, il film Avengers: Endgame del 2019. 

Wanda Maximoff (Elizabeth Olsen) e Visione (Vision in inglese, Paul Bettany) sono due persone con superpoteri: lei è una specie di strega capace di telepatia, telecinesi e alterazione della realtà; lui è un androide creato da un’intelligenza artificiale. Sono innamorati e cercano di farsi passare per umani normali nella cittadina di Westview, frequentando vicini e colleghi. L’essere “altri” che hanno timore di farsi scoprire è un tema forte (così come lo era in alcuni modelli a cui hanno fatto riferimento, di cui parlo infra).  

Entrambi sembrano essere bloccati in un mondo di sit-com, e le puntate che vediamo sono episodi comici con lo stile registico e umoristico di quel genere televisivo. A mano a mano che si procede nella visione, si procede cronologicamente in modo mimetico nello stile di quel genere, di decade in decade, a partire dagli anni ’50 quando andavano in onda in bianco e nero e poi via via. In partenza si possono notare gli homage a Vita da Strega, Lucy ed io, Strega per amore, The Dick Van Dyke Show, poi a the Brady Bunch, Mary Tyler Moore…e ci sono anche le finte interruzioni pubblicitarie. C’è un pizzico di Pleasentville quando si comincia a passare al colore.

Si costruisce perciò per il pubblico a casa una sit-com a tutti gli effetti, che nelle intenzioni degli autori vuole essere veramente umoristica: io non la trovo tale se non molto occasionalmente, su quel versante è quasi imbarazzante e si sorride a forza perché si capisce che si vorrebbe essere esilaranti ma non lo si è, però osservo con autentico stupore la capacità verbale e visuale di ricreare gli stilemi del genere con grande autenticità. Non è parodia o presa in giro, ma reale padronanza di un linguaggio, che riguarda la sceneggiatura e la regia, ma anche la recitazione, e in questo senso un applauso va agli interpreti. È quasi uno scavo archeologico che ci mostra strato dopo strato come eravamo e come siamo diventati, in tempi ravvicinati tali da far notare il percorso storico. Guardarlo fa riflettere sulla nostra identità in quello che viene rappresentato su uno schermo. Come ci mettiamo in scena e come è cambiato nel tempo? Come è informato dai nostri valori e al contempo li condiziona?

C’è sempre anche molto dibattito su drama vs. comedy, e sulla loro forza e relazionabilità umana. Ho sempre pensato che le storie drammatiche siano più storicamente elastiche e universali di quelle comiche, che è invece sono più condizionate dalla sensibilità contingente. È più difficile costruire una storia che fa ridere che resista al tempo che non una che fa piangere. Ridere rivela di più chi siamo e in che cosa crediamo, e la comicità è più sensibile a tempo e spazio, credo. Per ora le puntate andate in onda sono solo tre. Mi chiedo se formule umoristiche più vicine ai nostri giorni saranno da me più apprezzate, e se ciò che percepisco come poco divertente non sia incapacità degli sceneggiatori di rendere spassosi gli eventi, ma mio scollamento temporale rispetto a quello che è considerato tale in un’epoca piuttosto che in un’altra. Sono curiosa di valutarlo proseguendo a guardare.    

Nel mondo abitato da Wanda e Vision contemporaneamente qualcosa non torna, ci sono glitch del sistema. I personaggi si incantano, hanno vuoti e comportamenti bizzarri, gli eventi non sono coerenti nemmeno secondo le regole del mondo di finzione pattuito (in 1.03 Wanda ha una gravidanza di 9 mesi nel giro di 20 minuti), e partono anche dei titoli di coda interni alla diegesi e si vede che qualcuno li sta effettivamente guardando da uno schermo TV. Questa è la dimensione più intrigante – è molto metanarrativa, sembra una sorta di mise en abyme, è Ai confini della Realtà, richiama alcuni passaggi di Legion. È il mistero che elicita il cosiddetto “fandom forense”, fa arrovellare in teorie gli appassionati, opportunità più succulenta lì dove non c’è la possibilità del binge watching, a seguire la messa in onda settimanale così come è stata concepita, ma si ha un’intera settimana per riflettere e indagare su quello che si è visto prima di ricevere una nuova tessera del puzzle.    

Jac Shaeffer, l’ideatrice,  intervistata da TV’s Top Five (22 gennaio 2021) ha dichiarato che ciascun prodotto del franchise, sebbene collegato agli altri, è in grado di stare in piedi da solo ed essere apprezzato da solo, questo come “politica manageriale” fondante, e che ci sarà una conclusione finale soddisfacente, indipendentemente dalla possibilità o meno che ci sia una seconda stagione. Il programma è stato costruito per trasmette la sensazione di un fumetto e che ha fuso i generi cercando di creare una collisione di aspettative. Ci sta riuscendo.

martedì 26 gennaio 2021

AFI AWARDS: i programmi più significativi dell'anno

 


Ogni anno l’American Film Institute sceglie quelli che ritiene essere i 10 programmi dell’anno, selezionati da una giuria di amministratori AFI, artisti, critici e studiosi, consegnando gli AFI Awards. 

Come scrivono sul loro sito (qui) “(t)utte le opere premiate fanno progredire l'arte dell'immagine in movimento, ispirano il pubblico e gli artisti, migliorano il ricco patrimonio culturale della forma d'arte americana e lasciano un segno nella società americana. Se collocate in un contesto storico, queste storie forniscono una complessa e ricca documentazione visiva del nostro mondo moderno”.

Le scelte per il trascorso 2020 sono:

 

Better Call Saul

Bridgerton

The Crown

The Good Lord Bird

Lovecraft Country

The Mandalorian

Mrs. America

The Queen's Gambit

Ted Lasso

Unorthodox

 

Gli AFI Awards culminano in una celebrazione virtuale che debutta il prossimo 26 febbraio sul loro sito e sul loro canale YouTubeAl sito si può anche leggere la lista dei premiati in campo cinematografico. 

venerdì 22 gennaio 2021

DEAD STILL: un giallo umoristico


È un giallo a tinte gotiche con un ritmo molto rilassato e venato di sottile umorismo la produzione irlandese-canadese (Acorn TV, CityTV) Dead Still, che ha come protagonista un fotografo di Dublino del 1880 specializzato nella ritrattistica dei defunti – è risaputo che all’epoca era consuetudine fotografare i morti per avere un ultimo ricordo del caro estinto. Se in inglese “dead still” può significare “immobile come un morto”, qui ha proprio il senso di “fotogramma del defunto”.

Brock Biennerhasset (Michael Smiley, Luther), azzoppato accidentalmente dal fidato cocchiere Cecil (Jimmy Smnallhorne) che gli fa cadere l’attrezzatura su un piede, è il fotografo commemorativo di cui sopra, ex-becchino, molto preciso e un po’ burbero. Un giovane scavafosse con la passione per il disegno a matita, Conall Malloy (Kerr Logan), lo considera un vero pioniere della sua professione e riesce a farsi assumente come assistente. Ad affiancarlo c’è anche Nancy (Eileen O’Higgins), aspirante attrice, la giovane nipote figlia della sorella. In città, mascherati da apparenti suicidi, cominciano a verificarsi una serie di omicidi, che vengono poi immortalati su pellicola. L’investigatore della polizia locale, Regan  (Aidan O’Hare), vorrebbe coinvolgere Brock nell’investigazione, ma lui è riluttante, sebbene finisca  per essere molto più coinvolto negli eventi di quanto non sembrerebbe di primo acchito.

Le sei puntate della prima stagione  scivolano via con leggerezza, con una trama verticale di usuali storie di case apparentemente infestate da fantasmi, sedute spiritiche, rapimenti e qualche foto hard, e l’effettivo lavoro di far sembrare vitali corpi ormai in rigor mortis, e la trama orizzontale degli omicidi che coinvolgono i protagonisti in un crescendo. Ci si avvale del repertorio classico di questo genere di narrazioni: figure in parte in ombra, immagini evanescenti, personaggi ultraseri, figure che puntano il dito verso il nulla, arcani segreti… ma si è troppo ironici per essere veramente macabri, o per non dimostrare consapevolezza che si gioca con cliché abusati. Lo humor sfocia in momenti di più schietta comedy.

La scrittura di John Morton, co-ideatore insieme a Imogen Murphy che è regista di 4 delle 6 puntate, riflette sul senso della morte e sul valore dello scatto fotografico, e anche di questi tipo specifico di arte post-mortem, nel suo più esplicito valore mnemonico, ma pensata per dare conforto, per mostrare l’umanità di chi ormai è scomparso, con il senso quasi di una vocazione. “Non interrogo la tragedia” dichiara il protagonista (1.05), che cerca solo di preservare l’essenza della persone per sempre. Le fotografie sono i nostri veri fantasmi e catturano l’anima. Ci si sofferma anche sul parallelismo fra questo genere e la fotografia delle scene del crimine, e sull’etica della professione.

La puntata finale chiude l’arco senza sbavature, ma in forma di un biglietto, apre a un mistero per una  seconda stagione.  

mercoledì 13 gennaio 2021

THE CROWN: la quarta stagione

Ne avrei volute ancora di puntate della quarta stagione di The Crown. Non ho avuto questa sensazione con le stagioni precedenti,  ma con questa mi sembra che abbiano galoppato, forse perché è un periodo più vicino ai giorni nostri (siamo negli anni ’80),  di cui tutti conosciamo qualcosa almeno un po’, e quindi ipotizzo che sia questa la ragione per cui mi è sembrato scorrere troppo in fretta. È stata una stagione molto più femminile poi, dominata, oltre che dai soliti personaggi, da Margaret Thatcher (Gillian Anderson) e Lady Diana (Emma Corrin), entrambe in modo diverso delle outsider rispetto al mondo della Corona. L’arrivo della seconda era molto atteso già al debutto, e entrambe le attrici hanno dato delle interpretazioni molto convincenti. Hanno studiato i manierismi delle controparti della vita reale, ma non ne è mai uscita una parodia.

L’ethos di quel mondo, e quello che la serie cerca di dimostrare stagione dopo stagione, è ben incapsulato dalle parole del principe  Filippo (Tobias Menzies) a Lady Diana, in chiusura: tutto è sacrificabile sull’altare della regina. Sul piedistallo c’è lei e chiunque altro deve solo servire le sue esigenze. E questo si vede sia che si rifletta su Carlo (Josh O’Connor) che deve cercare una moglie adatta al ruolo, sia che si scopra con Margaret (Helena Bonham Carter) di alcune parenti tenute nascoste perché affette da ritardo mentale che, di causa genetica, poteva mette in cattiva luce gli eredi o la si veda che chiede una sola cosa alla sorella, avere un ruolo di maggior rilievo per potersi sentire utile, e riceverne in cambio che invece di aumentarle i doveri le vengono diminuiti ora che uno degli eredi diretti è maggiorenne.

La riflessione è politica e istituzionale, e non mancano alcuni momenti storici salienti dell’epoca, come l’attentato dell’IRA che è costato la vita a Lord Mountbatten (Charles Dance) o la guerra nelle isole Falkland, ma è sempre filtrata dagli aspetti personali. Quando Carlo e Diana rilasciano un’intervista insieme, un giornalista commenta che sembrano molto innamorati. Carlo commenta “qualunque cosa significhi essere innamorati” (cosa effettivamente detta da Carlo nell’intervista riprodotta). Una chiosa così triste a quello che gli abbiamo visto vivere, e nerbo di tutta la stagione, fa riflettere sul tema dell’amore evidentemente, su che cosa sia, e su che cosa faccia di un’unione un buon matrimonio, ma anche sulla narrazione degli eventi: la favola del grande amore contrastato dal destino era quello fra lui e Camilla (Emerald Fennell), quello che si è voluto vendere come fairytale con Diana era la tragedia, l’ostacolo, dove il principe del Galles, è contemporaneamente carnefice della futura sposa ignara e vittima del sistema e del suo senso di inadeguatezza.

Diana viene presentata alla famiglia e passa a pieni voti quello che la serie chiama il “Test di Balmoral” – tutti la amano -, ma viene apprezzata proprio perché non ha un vero passato, ritengono, possono modellarla a loro piacimento. Di lei ancora non si delinea la consapevolezza politica, ma, oltre ai problemi di bulimia  - e la serie avverte con una scritta prima dell’inizio delle puntate lì dove ci saranno scene che ritraggono un disturbo alimentare -, la sua profonda solitudine e infelicità. Oltre che la consapevolezza arrivata abbastanza presto dell’ingombrante terza incomoda di Camilla, vero amore del marito. La bolla della sua illusione scoppia abbastanza presto.

E la regina viene di fatto messa a confronto con due donne molto diverse fra loro. Nell’incontro con la Thatcher, Elisabetta ripensa anche al proprio rapporto di madre. In 4.04, “Favourites”, quando si perdono le tracce del figlio della Prima ministra durante il rally della Parigi-Dakar, la regina convoca a uno a uno i propri discendenti perché si rende conto che sa piuttosto poco di loro. Una regnante nella sua turris eburnea viene messa a contatto con il diverso background della Lady di Ferro, che ha origini umili. Lei e il marito, invitati a cena, si rendono conto presto di essere manchevoli nel rispetto di molte regole non-dette della nobiltà, e per questo in parte guardati con sufficienza. Già il maschilismo della politica conservatrice, che le fa dichiarare che trova le donne “troppo emozionali” per i ruoli di potere, non le aiuta a creare un legame, ma uno scontro sul tema dell’haparteid, in cui si vedono su fronti opposti, rischia di mandare in crisi la tradizione di imparzialità sempre adottato dalla coronata. Si evidenziano anche i punti di contatti però, come l’etica del lavoro, ad esempio. La presenza di Diana, molto più calorosa e umana, fa risaltare la freddezza della Windsor: l’amorevolezza e la possibilità di manifestare i propri sentimenti, così come ambizioni e desideri sono lussi non concessi. O non si ha sufficiente visione per vederli come un asset, una risorsa, invece che una mancanza. La distanza di Elisabetta II dalla gente comune è emersa anche da una puntata intensa come “Fargan” (4.05), dove un uomo separato dalla moglie che ha perso il lavoro e viene allontanato dai suoi bambini si introduce furtivamente nella sua camera a Buckingham Palace per parlarle, eludendo la  sicurezza.

La creazione di Peter Morgan rimane sempre molto elegante e misurata, pur nella sua regale opulenza, e non scade nel gossip. Si prendono come un dato di fatto i tradimenti coniugali dei principi del Galles, ma non ci si sofferma sui presunti contrasti fra suocera e nuora.

The Crown rimane umanamente pregnante e stilisticamente notevole.

Per chi fosse curioso di approfondire l’argomento della finzione poi, la serie documentaristica, sempre su Netflix, sulla casa reale degli Windsor, “The Royal House of Windsor”, fa da buon complemento alla serie, con interviste di storici ed esperiti, alcuni vicini ai diretti interessati (il  segretario personale di Lady D, ad esempio), e materiali inediti.

martedì 5 gennaio 2021

BRIDGERTON: "Gossip Girl" incontra Jane Austen

È un incrocio fra Gossip Girl e Jane Austen la goduriosamente romantica Bridgerton (rilasciata da Netfllix il giorno di Natale), tratta dal ciclo di romanzi rosa di grande successo di Julia Quinn, ed in particolare dal primo volume “Il Duca e io” (che diventa qui il titolo del quinto episodio). Siamo nell’Età della Reggenza, quindi nell’arco fra il 1811 e il 1820, e specificatamente nel periodo del 1813 in cui le debuttanti dell’alta società vengono presentate a corte. I Bridgerton sono una famiglia inglese, composta da otto figli, quattro maschi e quattro femmine, che hanno l’iniziale del nome in ordine alfabetico per età, e dalla loro madre vedova. La prima stagione è dedicata a Daphne (Phoebe Dyenevor), la più vecchia delle sorelle, e alla sua appassionata storia d’amore con il Duca di Hastings, Simon (Regé-Jean Page), il più desiderato fra gli scapoli. Anche i familiari hanno rilievo nella storia, così come la famiglia Featherington, con le tre figlie, e la temuta scrittrice misteriosa, Lady Whistledown, in originale con la voce di Julie Andrews e in italiano di Melina Martello,  che, proprio come in Gossip Girl, rivela gli scandali e i pettegolezzi in una periodica pubblicazione che attira la curiosità di tutti e la cui identità viene rivelata (ma solo al pubblico a casa, non ai personaggi intra-diegesi) nell’ultimo episodio.

Superati i primi dieci minuti di messa in onda, in cui la narrazione mi pareva troppo smaccata, ho apprezzato questa serie, di cui mi auguro future stagioni dedicate agli altri fratelli, che indossa i propri riferimenti e influenze con consapevolezza e gusto. A momenti ha avuto il sapore di una favola e di una soap opera, e in particolare penso alle vicende dei Featherington o alla figura del padre del Duca, e il gusto naturalmente di un romanzo rosa, visto il materiale d’origine, e la sua forza è stata proprio quella di conoscere bene i cliché dei vari generi attigui, sapendo quando usarli e quando distanziarsene. Li ha irrisi, evidenziandoli, e penso in particolare alle scene in cui i protagonisti commentano i comportamenti di alcune dame e gentiluomini (gli sguardi, i finti svenimenti…), così rivelando le convenzioni e i mores della società dell’epoca, ma al contempo li ha utilizzati senza ritegno (i giuramenti, il duello, i balli…), rinnovandoli anche. Scenografia e costumi sono stati mozzafiato. Il trucco, specie maschile, l’ho trovato un po’ troppo carico, ma è un peccato veniale. 

Questa creazione di Chris Dan Dusen è riuscita anche ad elevarsi dai propri modelli, mostrandosi moderna e intelligente, lì dove ha constatato con realismo come di fronte all’apparente romanticismo ci fosse una pressione inaudita per le giovani donne ad essere il “diamante della stagione”, a trovare marito come unico modo di sopravvivenza, e lì dove con altrettanta precisione ha mostrato come il mantenere la virtù fosse un costo non indifferente non solo per le giovani donne coinvolte, ma per le loro famiglie tutte, che potevano esserne onorate o disonorate, e per gli uomini che le avevano sotto la propria tutela. Ne andava letteralmente della vita, in qualche caso. La politica dei rapporti interpersonali e di coppia come transazione economica è emersa a ogni piè sospinto, da frasi come il pretendente che dichiara che se intende comprare un cavallo non lo chiede all’animale, ma al proprietario, quando ci si rivolge al fratello per avere la mano di Daphne, alla indicazione di “mercato matrimoniale” (1.08) per indicare il senso delle varie soirée, promenade e balli a cui sono tenuti a partecipare i personaggi.

Non si è totalmente cinici, si aspira all’amore che si riconosce come un bene raro, ma si riflette su che cosa faccia un buon matrimonio, talvolta un vero “campo di battaglia” (1.03), arrivando alla conclusione che è una solida amicizia di base che tiene unite le coppie. E solitamente in questo genere di narrazioni le nozze sono il premio ultimo, dopo di che “vissero per sempre felici e contenti”. Non qui: la cerimonia nuziale (1.05), sfarzosa ma ridotta a pochissimi momenti essenziali, non è l’apice, né il traguardo a cui si giunge superati numerosi ostacoli. È solo una tappa, fra le tante di un percorso accidentato, nella consapevolezza che le relazioni sono sempre in fieri, e nella riflessione su questo il rapporto madre-figlia ha avuto bei passaggi.

Il ruolo del vil denaro e dello status, così come dei gender issues, escono dalla bocca dei protagonisti di continuo e danno spessore ideologico piuttosto esplicito alle vicende, così come c’è una pregnante riflessione sul sesso. L’ignoranza in cui erano tenute le giovani donne è un liet motiv che si rivela la spina dorsale della storia, ed è stata declinata ora come occasione di seduzione e intimità - Simon che chiede a Daphe se si tocchi e lei che viene mostrata poi masturbarsi (1.03) sono stati da applauso, sia per la loro deliziosità nella costruzione della relazione fra i due, che per la pregnanza valoriale – ora come ostacolo alla felicità della coppia - il coito interrotto di Simon ai danni dell’ignara neosposa è stato emblematico (1.06). Se questa serie è in una certa misura “l’educazione di Daphne Bridgerton”, come si è espresso l’ideatore (EW), è anche appropriatamente l’educazione sessuale della giovane donna. Le scene di sesso sono davvero sexy, un piacere da guardare, e anche qui, come era successo per Normal People, si è usato sul set un coordinatore di intimità, una figura emersa negli ultimi tempi che si sta rivelando molto importante.

Intelligente è stato anche  il modo di mostrare come le donne dell’epoca, fortemente ristrette nelle proprie libertà, abbiano usato come arma quello che avevano a disposizione, e in questo caso proprio il gossip, che lunghi dall’essere solo qualcosa di frivolo per gente che non ha nulla da fare, è stato uno strumento di  potere e liberazione e difesa (1.02). E attraverso la parola si costruisce anche la bellissima gioiosa amicizia che si mette in scena fra due delle protagoniste femminili, Eloise (Claudia Jessie) e Penelope (Nicola Coughlan), due fra i personaggi più riusciti.  

Questa è stata la prima scripted series per Netflix targata Shondaland, ovvero la casa di produzione di Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Scandal) che con la piattaforma di streaming ha stretto un contratto da 150 milioni di dollari. Sebbene questo programma non sia scritto da lei (per quello dobbiamo aspettare Inventing Anna, il cui atteso debutto è previsto per quest’anno), si sente ugualmente la sua sensibilità, ed in primis con un casting inclusivo con molti attori BIPOC, come si dice ora  - che sta per Black, Indigenous and People of Color, ovvero Neri, Indigeni e Persone di Colore -, nel ruolo di nobili britannici, in un’epoca in cui presumibilmente non ce n’erano altrettanti. Ci è proprio domandati: è storicamente accurato? Alcuni storici suggeriscono che ci siano prove che nell’aristocrazia britannica ci fosse sangue nero (in proposito, volendo, si legga questo articolo del Post), ma in realtà è poco significativo. Non è un documentario, e la produttrice esecutiva Betsy Beers spiega come non sia un casting daltonico, ma hanno cercato di immaginare la storia e il mondo nel modo in cui volevano vederlo (Entertainment Weekly), nello stesso modo in cui sono state prese licenze poetiche nelle musiche scelte o nell’abbigliamento (e su questo si legga su Vogue l’intervista alla costumista).

Se mi calo per un momento dei panni di Lady Whistledown, e faccio un piccolo volo pindarico metatestuale, non posso che osservare che le debuttanti in società sono le attrici alle audizioni, e che la regina Charlotte (Golda Rosheuvel), nera, è la controfigura di Shonda Rhimes: una malignità senza un fondamento, da parte mia? Scherzi a parte, a meno di non considerare “storia rosa” alla stregua di una parolaccia, e anche però nei limiti di quell’etichetta, Bridgerton è per la gran parte un vero piacere.