domenica 20 febbraio 2022

INVENTING ANNA: non mi gabba

C’era trepidante attesa per Inventing Anna (disponibile su Netflix dallo scorso 11 febbraio), la nuova miniserie di nove episodi uscita dalla penna di Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, Scandal), e mi ci sono fiondata con gran curiosità. Ho visto la prima puntata e… posso non continuare? Se colpevole deve essere, almeno che sia piacere. Questo per me non si qualifica come tale. Ora, l’autrice sa il fatto suo e sa come rendere accattivante e pimpante una storia trash, ma questa per me finisce nello scatolone etichettato “la vita è troppo breve”. 

La serie, liberamente basata su un articolo del New York magazine "How Anna Delvey Tricked New York's Party People" ("Come Anna Delvey ha ingannato i festioli di New York"), include un disclaimer: "Tutta questa storia è completamente vera. Tranne tutte le parti che sono totalmente inventate". Protagonista è Anna Sorokin (Julia Garner, Ozark, The Americans), conosciuta anche con il suo pseudonimo, Anna Delvey, artista della truffa trasformista che si è fatta strada nelle alte sfere della società di New York, facendosi pagare hotel e viaggi e truffando finanzieri, collezionisti d’arte e ricchi frequentatori del bel mondo spacciandosi per un’ereditiera tedesca. È stata condannata per furto di servizi e furto aggravato. Sua comprimaria, che comprende il suo desiderio di diventare famosa, è la giornalista Vivian Kent (Anna Chlumsky, Veep) che lavora per una fittizia rivista di Manhattan, basata sulla vita e il lavoro di Jessica Pressler, la reporter della rivista su cui è stato pubblicato quell’articolo nella vita vera, che da quanto si legge in giro non avrebbe concesso i diritti sulla sua storia, mentre Netflix avrebbe pagato alla vera Sorokin 320.000 dollari per i suoi. La fittizia Kent è stata relegata in “Scriberia”, come la chiama lei, la Siberia degli scrittori, dove ci finiscono autori bravi, ma alla fine della propria carriera, e lei che ha un fiasco sul lavoro da cui vuole riabilitarsi e che ancora non conosciamo. Vogliono affidarle un pezzo sul #metoo, ma lei si oppone per la tempistica: è salire sul carro del vincitore solo come clickbait, senza cambiare le cose. Decide perciò di fare di testa sua e alla fine i suoi redattori acconsentono anche perché lei è molto incinta e dubitano possa fare granché prima della nascita del bebè. Quando la storia inizia, Anna è già in prigione a Rikers Island, dove è in attesa del processo, e Kent inizia a farle visita.

Anna, da cui Vivian è così intrigata, è da subito spocchiosa e pretenziosa. Uno dei concetti che vengono reiterati è che tutti la ritraggono come una stupida, una semplice mondana arrivista, mentre quello che ha fatto richiede cervello. Io non metto minimamente in dubbio che riuscire a far funzionare un simile piano riesca solo a una mente brillante, solo che penso sia intelligenza mal indirizzata e che la storia glorifichi qualcosa che va condannato. Non ho dubbi che la serie sia un grado di puntare il dito contro realtà e pregiudizi della vita contemporanea: mostra due donne che cercano di cavarsela a dispetto del patriarcato; fa notare come una donna bianca e bella sia vista come incapace di commettere crimini; ricorda la potenziale falsità dei social media dove puoi venderti per quello che non sei; riflette sulla la fallacia del sogno americano; critica la generazione dei millennials, che si pensa essere troppo speciale per lavorare; osserva cinicamente come le relazioni sono una transazione; smaschera l’élite autocentrata che si crede il centro dell’universo; riguarda in realtà, come ha osservato qualcuno, le disuguaglianze nel sistema di immigrazione degli Stati Uniti…  Art News scrive (qui) che “La storia della Delvey è, tra le altre cose, una bruciante caricatura del mondo dell'arte dove devi pagare per partecipare. È vero che se sei un bianco vestito in un certo modo, e se ti presenti a un numero sufficiente di inaugurazioni e serate di gala a New York, la gente probabilmente darà per scontato che sei ricco. In tutto il programma, l'arte è in realtà un pensiero di second’ordine. La cultura è di fatto solo una ragione per organizzare feste di lusso e ospitare eventi esclusivi”.

Glamour, gossip e scandali, sono solo mascherati come una narrazione con potenziale femminista, che ragiona su rapporti fra classi, mobilità sociale e identità in un contesto capitalista, per usare alcune delle parole usate dalla serie stessa. L’odiosa antieroina vorranno anche vendercela come una sorta di Robin Hood dei nostri giorni, ma non mi faccio gabbare, a differenza delle sue vittime. 

giovedì 10 febbraio 2022

MAID: una serie luminosa su povertà e abuso

Maid, che ha debuttato su Netflix lo scorso primo ottobre, è una miniserie intensa e coinvolgente in 10 puntate basata sull’omonimo libro autobiografico di Stephanie Land. È una storia di sopravvivenza, da una famiglia inesistente, genitori problematici o assenti, abuso domestico, povertà, lavoro, e di resilienza grazie anche all'amicizia e al potere terapeutico della scrittura. C’è una narrazione luminosa tanto quanto sono oscure e difficili le vicende che racconta.

Alex Russell (Margaret Qualley, The Leftovers), una giovane madre che vive a Port Hampstead, nello stato di Washington, scappa nel cuore della notte dalla furia del ragazzo con cui vive, Sean (Nick Robinson), che ha problemi di alcolismo ed è emotivamente abusante, e porta via con sé la figlia Maddy (Rylea Nevaeh Whittet), di due anni. Trova alloggio in un centro contro la violenza domestica, e per raggranellare i soldi che le permettono di vivere lavora come donna delle pulizie, prima per un’impresa gestita da Yolanda (Tracy Vilar), a capo della Value Maids, poi in autonomia. Nonostante sgobbi dalla mattina alla sera, le circostanze sembrano tutte contro di lei e deve fare i salti mortali per ottenere sussidi e sostegno da parte dei servizi governativi. La madre Paula (Andy MacDowell), un’artista con seri problemi di bipolarismo, è immancabilmente inaffidabile. Il padre Hank (Billy Burke) è stato assente dalla sua vita per la gran parte del tempo e Alex, rendendosi conto a posteriori di accadimenti di cui non era consapevole, capisce presto che è meglio così. Un aiuto lo trova da una ricca cliente che diventa un’amica, Regina (Anica Noni Rose), da Nate (Raymond Ablack), un giovane uomo che la desidera, e da Denise (BJ Harrison) la donna che gestisce la casa di accoglienza per vittime di abuso, ma deve lottare duramente per ogni cosa che ottiene. Sogna di tornare al college e diventare una scrittrice e prende appunti di continuo su un suo taccuino.

La forza della storia sta nel mettere in scena personaggi tridimensionali dove nessuno è completamente buono o cattivo, e in questo i personaggi di Paula e Sean spiccano.

Gli aspetti che mi hanno convinta di più sono due. Il ritratto della povertà è il primo. Come sia dura farsi aiutare e aiutarsi quando economicamente si è ai minimi termini, anche se si lavora molto duramente. Puoi essere la persona migliore del mondo, e cercare di comportarti al meglio, ed avere ugualmente tutto contro, con un sistema che cerca magari anche di aiutarti, ma ti tritura, soprattutto se non hai nessuna vera rete e devi tu prenderti cura degli altri. Non c’è forse scena più commovente di quella in cui Alex non ha dello sciroppo per la colazione della figlia, che lei vorrebbe, e con la fantasia le dice che hanno qualcosa di ancora meglio, lo sciroppo immaginario (1.04). Nella prima puntata in particolare, in sovraimpressione sullo schermo appaiono di continuo le cifre di quello che la ragazza ha e spende, ed è ansiogeno e stressante, perché si ha proprio la sensazione di essere perennemente con l’acqua alla gola. Si vede come tutto diventa un calcolo al centesimo. E in ogni momento per Alex c'è sempre un altro contrattempo o un'emergenza: non potersi fidare delle persone vicine che con i propri demoni finiscono per sabotarti, trovare assistenza alla bimba, trovare una macchina che la porti al lavoro quando la tua ti lascia in panne, alloggiare in case piene di muffa, compilare modulo su modulo per ottenere l'assistenza federale fra mille cavilli, lottare per la custodia della figlia, fare un corso per imparare ad essere una “brava mamma” perché così richiede lo stato, accettare il sostegno di qualcuno senza illuderlo sui propri sentimenti…Certi aiuti non hanno solo un prezzo economico e può essere problematico capire se accettarli o meno, e molto demoralizzante. 

L’altro aspetto è come abuso non sia solo venire picchiati a sangue, ma come abbia forme più sottili, come ricevere minacce costanti e sentirsi in pericolo o che ti venga impedito di avere contatti con altri. Questi tipi di violenza sono messi in scena e Alex realizza solo in modo progressivo che ha il diritto di chiamare sé stessa una donna che ha subito degli abusi, e di cercare aiuto in quella direzione.

Avevo letto che il libro era stato criticato perché la protagonista era eccessivamente giudicante delle persone nelle cui case andava a lavorare. Non c’è traccia di questo nella miniserie di Molly Smith Metzler. Si guarda a una realtà scomoda: lo si fa con onestà e senza sentimentalismi, ma anche con l’energia di qualcuno che ce la fa grazie alla sua grinta e determinazione, a dispetto di tutto.  

martedì 1 febbraio 2022

DICKINSON (s3) e THE GREAT (s2): qualche pensiero

Come ho fatto nel post precedente, butto giù qualche pensiero, questa volta per due commedie, su serie che meriterebbero ben altro approfondimento, ma che mi rendo conto in questo momento di non poter fare. 

Dickinson - stagione tre: questa stagione è l’ultima della mirabolante, poetica, bizzarra serie dedicata alla poetessa americana. Io sono meno entusiasta dei molti estimatori, ma ho apprezzato la sua verve sovversiva infusa di femminismo – le puntate all’ospedale psichiatrico e sul testamento del padre sono buoni esempi -, e di amore per la parola e la scrittura, che ha declinato questo arco conclusivo ancorata al tema della speranza, con il sottofondo della Guerra Civile e la storia secondaria di primi soldati neri dell’esercito, guardando alle dinamiche di potere razziste con serietà, ma con leggerezza e con umorismo. Forse bisogna cogliere l’invito fatto nella 3.04, dove c’è il cameo, se così possiamo dire, di Walt Whitman, e smettere di cercare di capire e sentire, provare, farsi emozionare, come nel “viaggio nel futuro” (3.07) in cui Emily e la sorella Lavinia (bizzarra a modo suo), incontrano Sylvia Plath. L’ho percepita più visionaria delle stagioni precedenti. Io non l’ho abbracciata appassionatamente come forse merita, perché non è propriamente “la mia tazza di tè”, come si direbbe in inglese, ma ho saputo apprezzarla per contenuto e stile: dice molto e lo fa con originalità. Qui avevo parlato della prima stagione, qui della seconda.


The Great – stagione due: questa serie si commenta da sola con il proprio titolo, è grande. Divertente, intelligente, arguta, piena di spirito e di brio, e di amore. È una delle mie preferite in assoluto. E i suoi motteggi filosofici e illuministi sono uno spasso come altrove non si vede. Allo stesso tempo ha saputo diventare anche, inaspettatamente, molto romantica. Peter innamorato di Katherine e convinto che lei lo ricambi e lei che lo rifiuta e proprio non ne vuole sapere ha avuto dei momenti davvero esilaranti. Come non sciogliersi quando Peter vede Katherine accasciata a piangere e gli evapora in un istante ogni proposito rabbioso contro di lei? Loro che si vogliono ammazzare a vicenda, ma che allo stesso tempo sono genuinamente innamorati l’uno dell’altra è stato ossimoricamente perfetto, un’incarnazione dell’odi et amo e dei complicati assurdi meccanismi dell’amore. Huzzah per Elle Fanning e Nichoas Hoult nel ruolo degli interpreti principali. E per Tony McNamara che li scrive con tale vis umoristica e verve. Ho gradito anche Gillian Anderson come guest star nel ruolo della madre di Katherine. La prima stagione mi ha conquistata senza riserve, ma anche nella seconda gettata è riuscita a mantenere la stessa tensione e passione - per le riforme sociali, per una Russia (e un mondo) migliori, un ruolo attivo delle donne… È anche rimasta sboccata al punto giusto senza risultare vogare e violenta senza essere disturbante. Se solo una critica negativa volessi sollevare, riguarda Orlo. Sembrava volessero rappresentarlo come asessuale. Sarebbe stato importante, anche solo per quanto scarsa è la loro visibilità sugli schermi, poi però si è andati in una direzione diversa senza una vera spiegazione. Un vero peccato, anche perché poteva crearsi una bella dinamica, magari, con il sempre-esilarante capo della chiesa Archie, le cui pulsioni sessuali sono state in questa stagione fuori controllo. Qui avevo parlato della prima stagione.