martedì 26 settembre 2023

NOLLY: ritratto di una leggenda delle soap

Funziona più o meno così: se Russell T. Davies (A Very English Scandal, It’s a Sin, Years and Years, Queer As Folk, Cucumber) scrive qualcosa, io lo guardo. Come ha scherzato, la “T” nel suo nome sta per “Television”. Non ho visto proprio tutta-tutta la sua produzione, certo è che se la penna è sua ci presto attenzione. Nolly, miniserie biografica in tre puntate dedicata alla memoria di Noale Gordon, star della soap opera britannica Crossroads, non è la migliore delle sue opere a mio gusto, ma è nostalgica e celebrativa, ed è un tributo affezionato, da vero appassionato del genere quale è sempre stato (e a cui ha pure contribuito come sceneggiatore). Nolly, come veniva appunto chiamata, è stata la prima donna della televisione mondiale ad apparire a colori (nel 1938), come ci ricordano, una personalità grintosa a affascinante, una vera star, mancata nel 1985 per cancro allo stomaco.

Con Helena Bonham Carter (The Crown) che le dà brillantemente il volto, si percorre rapidamente l’arco di una carriera che l’ha vista celebratissima e amatissima nel ruolo di Meg Mortimer, proprietaria di un motel, per soffersi poi su un momento cruciale. Era la spina dorsale del programma in cui recitava da quasi vent’anni, era pluripremiata, con grande esperienza e sicura di sé, tanto da sapersi far valere. Quando una nuova arrivata, Poppy (Beathny Antonia), sta per sedersi sulla sua sedia tutto il cast la avverte di non farlo: è solo e soltanto di Nolly, un trono praticamente. Non le mandava a dire e imponeva con autorevolezza il proprio punto di vista su quello degli altri (produttori, registi, colleghi) per cui poteva essere una spina del fianco, e lo era in particolare per il produttore Jack Barton (Con O’Neill, Our Flag Means Death, Cucumber), perché cambiava le battute, suggeriva nuove inquadrature, voleva sempre migliorare qualcosa; non era però scorretta o scortese, conosceva il nome di tutti, aiutava dentro e fuori dal set. Jane (Antonia Bernath), sua figlia nella finzione della soap, la chiama "mamma"; con Tony Adams (Augustus Prew), suo più giovane collega, scambia gossip e va a guardare le vetrine; una dello staff ricorda come il giorno delle nozze le abbia prestato la Rolls Royce e l’abbia accompagnata al suo matrimonio…

Poi, il gran colpo di scena, a lungo inspiegato: licenziata. Diventa uno scandalo nazionale, con titoloni sui giornali e fibrillazione per capire sia che cosa fosse successo dietro le quinte, sia che fine avrebbe fatto il personaggio. Morirà? Uscirà di scena in altro modo? Davies, nella seconda delle tre tranches crea una suspence incredibile, con tutti all’oscuro a fiondarsi sul copione per capire che cosa accadrà dopo: uno degli stilemi del genere che dimostra di conoscere bene e di infondere nella sua scrittura, quel tanto che è necessario. Nolly, una donna apparentemente sola, nonostante le manifestazioni di affetto di tutti quelli che incontra, vede crollare il mondo per come lo ha conosciuto. Si sente umiliata, cacciata senza nemmeno capirne il motivo. È vulnerabile, e deve reinventarsi, quando si rende conto di essere ormai probabilmente sorpassata, vecchia, fragile. Con un vecchio amico che le propone il teatro, Larry Grayson (Mark Gatiss), pure in una fase di declino della carriera, scambia parole di confronto e conforto. Realizzano di non essere più rilevanti e cercano un nuovo posto del mondo, c’è paura e rassegnazione, tristezza.

Nolly sa però difendersi quando denigrano le soap. In una scena in un autobus (1.02) rivendica ferocemente il diritto a un intrattenimento che non è da meno solo perché è considerato per donne: soap, casa e tè sono per le donne l’equivalente di football, pub e birra per gli uomini, eppure nessuno guarda questi ultimi con la supponenza che è riservata al contraltare femminile, solo perché tale. C’è una riflessione femminista nel momento in cui dice: “Quando sei una donna senza marito, senza partner, senza figli la società non sa chi sei. Non c’è posto per noi. L’armata silenziosa di donne senza nome”. Anche se lei una storia sentimentale importante l’ha avuta. E si sofferma anche (1.03) sul fatto di come succede spesso in queste situazioni, che quando una donna non ha un uomo, dicono che ha fallito, che le manca qualcosa, che è strana e ipotizzano che sia lesbica, equivalenza che ritiene offensiva per chi lo è. Reclama il proprio valore, e il proprio diritto ad essere se stessa e lo fa per tutte quelle donne che vengono considerate “difficili" solo perché assertive; ci si schiera anche contro l’ageismo di metterle da parte quando hanno “una certa età”.

Alla fine Nolly ha il suo riscatto, ma quello che rende pregevole questo ritratto è che ci sono molto calore ed empatia, e apprezzamento di una donna quando è diva ed è glamour, ma anche quando è in decadenza ed è ai margini dello showbusiness. Ci sono cuore e umanità, pure un pizzico di umorismo. Diretta da Peter Hoar, credo che sia una lettera di un fan molto speciale che la vera Nolly avrebbe apprezzato. 

sabato 16 settembre 2023

LUCKY HANK: un professore in crisi di mezza età

Nel mezzo del cammin di nostra vita, Hank si ritrovò in una selva oscura. Questo potrebbe ben essere l’incipit sulla crisi di mezza età del protagonista di Lucky Hank, serie della AMC, il cui apprezzamento è stato per me altalenante. La serie, drammatica ma venata di comicità, è sviluppata da Paul Lieberstein e Aaron Zelman da un romanzo del 1997 di Richard Russo, Straight Man, che non mi risulta tradotto in italiano. Ho letto Russo in passato (Bridge of Sighs, che mi è piaciuto molto), ma non questo libro. 

William Henry (Hank) Deveraux Jr (un sempre carismatico Bob Odenkirk, Better Call Saul) è preside del dipartimento di inglese e insegnante di scrittura creativa al Railton College, un’università in Pennsylvania a corto di finanziamenti che lui definisce senza mezzi termini la “capitale della mediocrità”. Ritiene che essere adulti significhi per l’80% essere infelici; si sente un fallito perché dopo un iniziale successo come scrittore si è bloccato, tanto più nel confronto col padre (Ton Bower), un venerato accademico che ora sta andando in pensione. Non si parlano da anni, e Hank nutre grande risentimento nei suoi confronti per aver abbandonato la madre e lui quando era bambino (e a seguito di un evento che non rivelo, ma che la serie segnala con un trigger warning). Con sua moglie Lily (Mirelle Enos, The Killing), a dispetto delle apparenze, pure la relazione non è più solida come una volta e lei, vicepreside di un liceo locale, sogna di trasferirsi a lavorare in una scuola di New York, cosa che sarebbe il desiderio di una vita che si realizza. La loro giovane figlia, Julie (Olivia Scott Welch), è sposata con Russell (Daniel Doheny), ma la coppia non ha una grande opinione di loro. Piuttosto scorbutico, Hank non ha grande sintonia nemmeno con i colleghi, che non si sentono protetti a sufficienza da lui, soprattutto quando il rettore Jacob Rose (Oscar Nuñez) annuncia il rischio di ulteriori tagli. Particolarmente vocale nell’esprimere questi sentimenti è Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), che si pavoneggia come poetessa di fronte allo scetticismo dei colleghi. Anche nei confronti del migliore amico Tony Conigula (Diedrich Bader), Hank è spesso assente.

Come per Tony Soprano nel famoso esordio de I Soprano, anche di Hank facciamo la conoscenza mentre guarda le anatre di un laghetto, ma lui non si fa prendere da un attacco di panico, piuttosto, oltre che con il voice-over di autonarrazione che ci rende espliciti i suoi pensieri, sfoga le sue insoddisfazioni con il corpo studenti che demolisce, non senza un certo umorismo. Inizialmente, anche con scrittori come guest star – George Saunders, interpretato da Brian Huskey, in una puntata che porta il suo nome (1.02) ad esempio – si parla anche di principi di buona scrittura: rifiutare l’abituale perché è lì che sta la mediocrità, credere nel proprio istinto, lavorare su varie stesure…poi questo aspetto si perde per strada. Si riflette sulla propria rilevanza o più realisticamente irrilevanza, ma si fa anche equivalere bravura a successo, qualcosa che è decisamente riduttivo, e come minimo andrebbe problematizzato. Il focus della narrazione si sposta poi molto sul tormentato rapporto del protagonista con il padre. ATTENZIONE SPOILER. Quando finalmente Hank riesce ad avere lo sperato confronto con lui da persone adulte, si rende conto che il padre ha probabilmente l’Alzheimer o qualcosa di simile. Non può giustamente rivendicare il dolore del torto subito e non riesce ad avere soddisfazione nemmeno lì.

In qualunque aspetto della vita, come marito, padre, figlio, amico, professore, Hank è demotivato, annoiato, disinteressato, sconfitto. Si trascina a fare quello che deve fare, ma ha perso verve, e questo finisce per contagiare anche lo spettatore, che alla lunga ne esce un po’ depresso. Se dal punto di vita drammatico siamo in territorio di The Chair, o meglio ancora ricorda The Education of Max Bickford, e l’ironia autoconsapevole del personaggio in prima battuta mi ha attivamente conquistata, con il passare delle puntate il mio entusiasmo si è sgonfiato, seguendo la sua spirale discendente. Avendo letto Russo, so che nei suoi romanzi lo spessore si costruisce per accumulo in sottili lamine narrative, e credo che possano essere efficaci anche nella trasposizione televisiva: di certo la recitazione supporta bene la scrittura. Più deludente è la parte umoristica, che non sia il sarcasmo del vecchio professore che si sete ormai spento. Ci si prova soprattutto con le storie secondarie, ma non convincono del tutto e la combriccola del luogo di lavoro ha un po’ il gusto delle sit-com. La conclusione (1.08), che evita i licenziamenti con un macchinoso espediente deus ex machina, pare un po’ troppo favolistica.

In definitiva una serie intelligente che soffre un po’ dei mali d’animo dei personaggi che ritrae.

mercoledì 6 settembre 2023

INVERSO - THE PERIPHERAL: all'insegna del cyberpunk

Ho sviluppato poca tolleranza, se mai ne ho avuta, per quelle serie in cui il numero dei proiettili sparati supera quello delle parole pronunciate. Per quello di primo acchito non mi ha fatto impazzire Inverso - The Peripheral (Amazon Prime), la serie liberamente tratta dall’omonimo romanzo di William Gibson, nonostante il worldbuilding fosse notevole e la narrazione si stesse facendo interessante, per quanto probabilmente eccessivamente complicata e non chiarissima. Sebbene inizialmente non rimpiangessi che non ci sarebbe stata una seconda stagione, alla fine della prima però ammetto che avrei continuato a seguirla. La serie era stata rinnovata, ma si è deciso di non procedere oltre a seguito dello sciopero SAG-AFTRA degli ultimi mesi.

A portarla sul piccolo schermo è stata la coppia Jonathan Nolan e Lisa Joy, già autori di Westworld, le cui tracce di DNA si vedono ampiamente, in primis purtroppo per l’elevato grado di violenza, ma per tanti altri aspetti, dai robot la cui “personalità” viene calibrata secondo dei caratteri di cui si possono aumentare o diminuire l’intensità, all’uso pervasivo della realtà aumentata, all’etica (spesso aberrante o comunque sprezzante e senza scrupoli o limiti) che guida molti dei personaggi, perfino dalla casa di uno di loro che sembra quella di Dolores in Westworld.

Siamo nel 2032, negli USA, sulle montagne Blue Ridge. Flynn Fisher (Chloë Grace Moretz) lavora in un negozio di stampe 3D e si prende cura della madre Ella (Melinda Page Hamilton), gravemente ammalata, insieme al fratello Burton (Jack Reynor), un ex-militare veterano di guerra su cui sono stati fatti esperimenti tecnologici per collegarlo alla sua squadra di commilitoni; è estremamente brava a giocare con i “sim”, programmi di realtà virtuale di simulazione. Una compagnia colombiana, Milagros Coldiron, li contatta per testare un nuovo programma che, all’inizio a loro insaputa, non è una semplice simulazione, ma trasporta la protagonista nel futuro, e specificatamente nella Londra del 2099, dove “abita” una copia robotica del proprio corpo, la “periferica” (peripheral) del titolo. Flynn accetta perché questo le permette di pagare le cure per la madre. Viene guidata inizialmente da Aelita West (Charlotte Riley), e protetta dal fratello di lei Wilf Netherton (Gary Carr, Trigonometry), le cose però si complicano.

 Il mondo in cui si trova ad operare è trasformato, e non in meglio, è infatti stato decimato da una serie di crisi e catastrofi chiamate ironicamente “jackpot”. A seguito di questo evento alcuni gruppi hanno preso il potere. Sono i Klepts, e fra loro uno dei più potenti è Alec Zubov (JJ Feilds), la polizia dei MET, guidata dall’ispettrice Lowbeer (una magnifica Alexandra Billings, con uno dei personaggi che più mi hanno intrigato) e l’Istituto di Ricerca (RI), guidato alla temibile Cherise Nuland (T’Nia Miller, Years & Years). Contro di solo ci sono i neoprim (neoprimitivi), un gruppo rivoluzionario (o terrorista, a seconda della prospettiva che si adotta) che cerca di opporsi alla deriva tecnologica del mondo. Flynn si trova nel mezzo delle schermaglie tra queste fazioni. Anche sul fronte di casa la situazione non è facile. A dominare è un boss locale, Corbell Pickett (Louis Herthum), e la polizia è corrotta, ad eccezione forse di un giovane idealista interessato a lei, Tommy Constantine (Alex Hernandez).

Quando un personaggio si muove nel futuro si crea uno “stub”, un troncone alternativo che diventa in tutto e per tutto una dimensione parallela: c’è chi vuole sfruttare questi tronconi per degli esperimenti, come laboratorio per la propria realtà. Qui la mente va un po’ a Counterpart.  

La narrazione, non sempre intuitiva, ricalca un’estetica cyberpunk e in misura minore da videogioco di cui i protagonisti sono intrisi e fantascienza. In accordo con il genere, la tematica di fondo è quella della compenetrazione fra realtà e virtualità, e la tecnocrazia e le scelte etiche legate a ciò che la tecnologia rende possibili sono pure centrali. Non sempre si tratta di opzioni negative. Un compagno di Burton, Conner (Eli Goree), che ha perso le due gambe e un braccio in un incidente, vede con speranza la possibilità di tornare a muoversi con una periferica, ad esempio. Assistiamo però all’evolversi di un mondo distopico, anche se non si è avuta la pregnanza o forse semplicemente il tempo di approfondire le complesse dinamiche messe in campo.

Scrive bene Daniel Fienberg poi su The Hollywood Reporter) quando dice che “è una storia di identità fungibili, in cui i confini fra periodi temporali, fra persone e macchine e fra persone e altre persone sono sfocate”. Si possono condividere sensazioni e percezioni, ricreare persone scomparse in koids, robot umanoidi, abitare corpi alternativi… e si indaga la natura della realtà, lì dove quella fattuale e quella dell’immaginazione hanno confini labili e diverse opzioni possono essere ugualmente vere. Intrigante, di intrattenimento.