Ho sviluppato poca
tolleranza, se mai ne ho avuta, per quelle serie in cui il numero dei
proiettili sparati supera quello delle parole pronunciate. Per quello di primo
acchito non mi ha fatto impazzire Inverso
- The Peripheral (Amazon Prime), la serie liberamente tratta dall’omonimo
romanzo di William Gibson, nonostante il worldbuilding fosse notevole e la
narrazione si stesse facendo interessante, per quanto probabilmente
eccessivamente complicata e non chiarissima. Sebbene inizialmente non
rimpiangessi che non ci sarebbe stata una seconda stagione, alla fine della
prima però ammetto che avrei continuato a seguirla. La serie era stata rinnovata, ma si è deciso di non procedere oltre a seguito dello sciopero
SAG-AFTRA degli ultimi mesi.
A portarla sul piccolo schermo è stata la coppia
Jonathan Nolan e Lisa Joy, già autori di Westworld,
le cui tracce di DNA si vedono ampiamente, in primis purtroppo per l’elevato
grado di violenza, ma per tanti altri aspetti, dai robot la cui “personalità”
viene calibrata secondo dei caratteri di cui si possono aumentare o diminuire
l’intensità, all’uso pervasivo della realtà aumentata, all’etica (spesso
aberrante o comunque sprezzante e senza scrupoli o limiti) che guida molti dei
personaggi, perfino dalla casa di uno di loro che sembra quella di Dolores in Westworld.
Siamo nel 2032, negli USA,
sulle montagne Blue Ridge. Flynn Fisher (Chloë Grace Moretz) lavora in un
negozio di stampe 3D e si prende cura della madre Ella (Melinda Page Hamilton),
gravemente ammalata, insieme al fratello Burton (Jack Reynor), un ex-militare
veterano di guerra su cui sono stati fatti esperimenti tecnologici per
collegarlo alla sua squadra di commilitoni; è estremamente brava a giocare con
i “sim”, programmi di realtà virtuale di simulazione. Una compagnia colombiana,
Milagros Coldiron, li contatta per testare un nuovo programma che, all’inizio a
loro insaputa, non è una semplice simulazione, ma trasporta la protagonista nel
futuro, e specificatamente nella Londra del 2099, dove “abita” una copia
robotica del proprio corpo, la “periferica” (peripheral) del titolo. Flynn
accetta perché questo le permette di pagare le cure per la madre. Viene guidata
inizialmente da Aelita West (Charlotte Riley), e protetta dal fratello di lei
Wilf Netherton (Gary Carr, Trigonometry),
le cose però si complicano.
Il mondo in cui si trova ad operare è
trasformato, e non in meglio, è infatti stato decimato da una serie di crisi e
catastrofi chiamate ironicamente “jackpot”. A seguito di questo evento alcuni
gruppi hanno preso il potere. Sono i Klepts, e fra loro uno dei più potenti è
Alec Zubov (JJ Feilds), la polizia dei MET, guidata dall’ispettrice Lowbeer
(una magnifica Alexandra Billings, con uno dei personaggi che più mi hanno
intrigato) e l’Istituto di Ricerca (RI), guidato alla temibile Cherise Nuland
(T’Nia Miller, Years & Years). Contro
di solo ci sono i neoprim (neoprimitivi), un gruppo rivoluzionario (o
terrorista, a seconda della prospettiva che si adotta) che cerca di opporsi
alla deriva tecnologica del mondo. Flynn si trova nel mezzo delle schermaglie
tra queste fazioni. Anche sul fronte di casa la situazione non è facile. A
dominare è un boss locale, Corbell Pickett (Louis Herthum), e la polizia è
corrotta, ad eccezione forse di un giovane idealista interessato a lei, Tommy
Constantine (Alex Hernandez).
Quando un personaggio si muove nel futuro si crea uno “stub”, un troncone alternativo che diventa in tutto e per tutto una dimensione parallela: c’è chi vuole sfruttare questi tronconi per degli esperimenti, come laboratorio per la propria realtà. Qui la mente va un po’ a Counterpart.
La narrazione, non sempre
intuitiva, ricalca un’estetica cyberpunk e in misura minore da videogioco di
cui i protagonisti sono intrisi e fantascienza. In accordo con il genere, la
tematica di fondo è quella della compenetrazione fra realtà e virtualità, e la tecnocrazia
e le scelte etiche legate a ciò che la tecnologia rende possibili sono pure
centrali. Non sempre si tratta di opzioni negative. Un compagno di Burton,
Conner (Eli Goree), che ha perso le due gambe e un braccio in un incidente,
vede con speranza la possibilità di tornare a muoversi con una periferica, ad
esempio. Assistiamo però all’evolversi di un mondo distopico, anche se
non si è avuta la pregnanza o forse semplicemente il tempo di approfondire le complesse
dinamiche messe in campo.
Scrive bene Daniel Fienberg poi su The Hollywood Reporter) quando dice che “è una storia di identità fungibili, in cui i confini fra periodi temporali, fra persone e macchine e fra persone e altre persone sono sfocate”. Si possono condividere sensazioni e percezioni, ricreare persone scomparse in koids, robot umanoidi, abitare corpi alternativi… e si indaga la natura della realtà, lì dove quella fattuale e quella dell’immaginazione hanno confini labili e diverse opzioni possono essere ugualmente vere. Intrigante, di intrattenimento.
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