Nel
mezzo del cammin di nostra vita, Hank si ritrovò in una selva oscura. Questo
potrebbe ben essere l’incipit sulla crisi di mezza età del protagonista di Lucky Hank, serie della AMC, il cui
apprezzamento è stato per me altalenante. La serie, drammatica ma venata di
comicità, è sviluppata da Paul Lieberstein e Aaron Zelman da un romanzo del
1997 di Richard Russo, Straight Man, che
non mi risulta tradotto in italiano. Ho letto Russo in passato (Bridge of Sighs, che mi è piaciuto
molto), ma non questo libro.
William Henry (Hank)
Deveraux Jr (un sempre carismatico Bob Odenkirk, Better Call Saul) è preside del dipartimento di inglese e insegnante
di scrittura creativa al Railton College, un’università in Pennsylvania a corto
di finanziamenti che lui definisce senza mezzi termini la “capitale della
mediocrità”. Ritiene che essere adulti significhi per l’80% essere infelici; si
sente un fallito perché dopo un iniziale successo come scrittore si è bloccato,
tanto più nel confronto col padre (Ton Bower), un venerato accademico che ora
sta andando in pensione. Non si parlano da anni, e Hank nutre grande
risentimento nei suoi confronti per aver abbandonato la madre e lui quando era
bambino (e a seguito di un evento che non rivelo, ma che la serie segnala con
un trigger warning). Con sua moglie
Lily (Mirelle Enos, The Killing), a
dispetto delle apparenze, pure la relazione non è più solida come una volta e
lei, vicepreside di un liceo locale, sogna di trasferirsi a lavorare in una scuola
di New York, cosa che sarebbe il desiderio di una vita che si realizza. La loro
giovane figlia, Julie (Olivia Scott Welch), è sposata con Russell (Daniel Doheny),
ma la coppia non ha una grande opinione di loro. Piuttosto scorbutico, Hank non
ha grande sintonia nemmeno con i colleghi, che non si sentono protetti a
sufficienza da lui, soprattutto quando il rettore Jacob Rose (Oscar Nuñez) annuncia
il rischio di ulteriori tagli. Particolarmente vocale nell’esprimere questi
sentimenti è Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), che si pavoneggia come
poetessa di fronte allo scetticismo dei colleghi. Anche nei confronti del
migliore amico Tony Conigula (Diedrich Bader), Hank è spesso assente.
Come per Tony Soprano nel
famoso esordio de I Soprano, anche di
Hank facciamo la conoscenza mentre guarda le anatre di un laghetto, ma lui non
si fa prendere da un attacco di panico, piuttosto, oltre che con il voice-over
di autonarrazione che ci rende espliciti i suoi pensieri, sfoga le sue
insoddisfazioni con il corpo studenti che demolisce, non senza un certo
umorismo. Inizialmente, anche con scrittori come guest star – George Saunders,
interpretato da Brian Huskey, in una puntata che porta il suo nome (1.02) ad
esempio – si parla anche di principi di buona scrittura: rifiutare l’abituale
perché è lì che sta la mediocrità, credere nel proprio istinto, lavorare su
varie stesure…poi questo aspetto si perde per strada. Si riflette sulla propria
rilevanza o più realisticamente irrilevanza, ma si fa anche equivalere bravura
a successo, qualcosa che è decisamente riduttivo, e come minimo andrebbe
problematizzato. Il focus della narrazione si sposta poi molto sul tormentato
rapporto del protagonista con il padre. ATTENZIONE SPOILER. Quando finalmente
Hank riesce ad avere lo sperato confronto con lui da persone adulte, si rende
conto che il padre ha probabilmente l’Alzheimer o qualcosa di simile. Non può giustamente
rivendicare il dolore del torto subito e non riesce ad avere soddisfazione
nemmeno lì.
In qualunque aspetto della vita, come marito,
padre, figlio, amico, professore, Hank è demotivato, annoiato, disinteressato,
sconfitto. Si trascina a fare quello che deve fare, ma ha perso verve, e questo
finisce per contagiare anche lo spettatore, che alla lunga ne esce un po’
depresso. Se dal punto di vita drammatico siamo in territorio di The Chair, o meglio ancora ricorda The Education of Max Bickford, e
l’ironia autoconsapevole del personaggio in prima battuta mi ha attivamente conquistata,
con il passare delle puntate il mio entusiasmo si è sgonfiato, seguendo la sua
spirale discendente. Avendo letto Russo, so che nei suoi romanzi lo spessore si
costruisce per accumulo in sottili lamine narrative, e credo che possano essere
efficaci anche nella trasposizione televisiva: di certo la recitazione supporta
bene la scrittura. Più deludente è la parte umoristica, che non sia il sarcasmo
del vecchio professore che si sete ormai spento. Ci si prova soprattutto con le
storie secondarie, ma non convincono del tutto e la combriccola del luogo di
lavoro ha un po’ il gusto delle sit-com. La conclusione (1.08), che evita i
licenziamenti con un macchinoso espediente deus ex machina, pare un po’ troppo
favolistica.
In definitiva una serie intelligente che soffre un
po’ dei mali d’animo dei personaggi che ritrae.
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