sabato 16 settembre 2023

LUCKY HANK: un professore in crisi di mezza età

Nel mezzo del cammin di nostra vita, Hank si ritrovò in una selva oscura. Questo potrebbe ben essere l’incipit sulla crisi di mezza età del protagonista di Lucky Hank, serie della AMC, il cui apprezzamento è stato per me altalenante. La serie, drammatica ma venata di comicità, è sviluppata da Paul Lieberstein e Aaron Zelman da un romanzo del 1997 di Richard Russo, Straight Man, che non mi risulta tradotto in italiano. Ho letto Russo in passato (Bridge of Sighs, che mi è piaciuto molto), ma non questo libro. 

William Henry (Hank) Deveraux Jr (un sempre carismatico Bob Odenkirk, Better Call Saul) è preside del dipartimento di inglese e insegnante di scrittura creativa al Railton College, un’università in Pennsylvania a corto di finanziamenti che lui definisce senza mezzi termini la “capitale della mediocrità”. Ritiene che essere adulti significhi per l’80% essere infelici; si sente un fallito perché dopo un iniziale successo come scrittore si è bloccato, tanto più nel confronto col padre (Ton Bower), un venerato accademico che ora sta andando in pensione. Non si parlano da anni, e Hank nutre grande risentimento nei suoi confronti per aver abbandonato la madre e lui quando era bambino (e a seguito di un evento che non rivelo, ma che la serie segnala con un trigger warning). Con sua moglie Lily (Mirelle Enos, The Killing), a dispetto delle apparenze, pure la relazione non è più solida come una volta e lei, vicepreside di un liceo locale, sogna di trasferirsi a lavorare in una scuola di New York, cosa che sarebbe il desiderio di una vita che si realizza. La loro giovane figlia, Julie (Olivia Scott Welch), è sposata con Russell (Daniel Doheny), ma la coppia non ha una grande opinione di loro. Piuttosto scorbutico, Hank non ha grande sintonia nemmeno con i colleghi, che non si sentono protetti a sufficienza da lui, soprattutto quando il rettore Jacob Rose (Oscar Nuñez) annuncia il rischio di ulteriori tagli. Particolarmente vocale nell’esprimere questi sentimenti è Gracie (Suzanne Cryer, Silicon Valley), che si pavoneggia come poetessa di fronte allo scetticismo dei colleghi. Anche nei confronti del migliore amico Tony Conigula (Diedrich Bader), Hank è spesso assente.

Come per Tony Soprano nel famoso esordio de I Soprano, anche di Hank facciamo la conoscenza mentre guarda le anatre di un laghetto, ma lui non si fa prendere da un attacco di panico, piuttosto, oltre che con il voice-over di autonarrazione che ci rende espliciti i suoi pensieri, sfoga le sue insoddisfazioni con il corpo studenti che demolisce, non senza un certo umorismo. Inizialmente, anche con scrittori come guest star – George Saunders, interpretato da Brian Huskey, in una puntata che porta il suo nome (1.02) ad esempio – si parla anche di principi di buona scrittura: rifiutare l’abituale perché è lì che sta la mediocrità, credere nel proprio istinto, lavorare su varie stesure…poi questo aspetto si perde per strada. Si riflette sulla propria rilevanza o più realisticamente irrilevanza, ma si fa anche equivalere bravura a successo, qualcosa che è decisamente riduttivo, e come minimo andrebbe problematizzato. Il focus della narrazione si sposta poi molto sul tormentato rapporto del protagonista con il padre. ATTENZIONE SPOILER. Quando finalmente Hank riesce ad avere lo sperato confronto con lui da persone adulte, si rende conto che il padre ha probabilmente l’Alzheimer o qualcosa di simile. Non può giustamente rivendicare il dolore del torto subito e non riesce ad avere soddisfazione nemmeno lì.

In qualunque aspetto della vita, come marito, padre, figlio, amico, professore, Hank è demotivato, annoiato, disinteressato, sconfitto. Si trascina a fare quello che deve fare, ma ha perso verve, e questo finisce per contagiare anche lo spettatore, che alla lunga ne esce un po’ depresso. Se dal punto di vita drammatico siamo in territorio di The Chair, o meglio ancora ricorda The Education of Max Bickford, e l’ironia autoconsapevole del personaggio in prima battuta mi ha attivamente conquistata, con il passare delle puntate il mio entusiasmo si è sgonfiato, seguendo la sua spirale discendente. Avendo letto Russo, so che nei suoi romanzi lo spessore si costruisce per accumulo in sottili lamine narrative, e credo che possano essere efficaci anche nella trasposizione televisiva: di certo la recitazione supporta bene la scrittura. Più deludente è la parte umoristica, che non sia il sarcasmo del vecchio professore che si sete ormai spento. Ci si prova soprattutto con le storie secondarie, ma non convincono del tutto e la combriccola del luogo di lavoro ha un po’ il gusto delle sit-com. La conclusione (1.08), che evita i licenziamenti con un macchinoso espediente deus ex machina, pare un po’ troppo favolistica.

In definitiva una serie intelligente che soffre un po’ dei mali d’animo dei personaggi che ritrae.

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