venerdì 27 agosto 2021

THE WHITE LOTUS: satira dolorosa e umoristica

Ideato, sceneggiato e diretto in modo brillante e avvincente da Mike White (Enlightened), The White Lotus (HBO Max, e dal 30 agosto 2021 su Sky Atlantic per l’Italia) è un dramma comico-satirico ambientato in un resort di lusso alle Hawaii. Gli ospiti della struttura vanno lì in vacanza, ma non riescono a prendersi una pausa dai propri problemi, anzi questi vengono intensificati dalla reciproca prossimità, con una progressiva escalation esplodono, e si creano pesanti frizioni con il personale che gestisce l’albergo, mettendo in luce come le diverse posizioni di privilegio (economico, sociale, razziale, di gender) impattano la vita di ciascuno. Già dal pilot, dai primi minuti, sappiamo che ci scapperà il morto, perché la salma di un cadavere viene imbarcata sull’aereo di ritorno, ma solo alla fine (1.06) scopriamo chi è la vittima, in quella che è una serie antologica già rinnovata per una seconda stagione.

Armond (Murray Bartlett, Looking), direttore del resort il Loto Bianco (the White Lotus), è un uomo gay sempre con il sorriso sulle labbra con passati problemi di dipendenza da droghe e alcol, sobrio da 5 anni, che insegna a una neoarrivata che mostrare sé stessi è scoraggiato per i dipendenti. Loro praticano quello che lui chiama “kabuchi tropicale”, ovvero indossano perennemente delle maschere, con il solo obiettivo di trattare gli ospiti come bambini, coccolati e fatti sempre sentire speciali. Presto la sua facciata crollerà, sotto forti e ripetuti attacchi.

Ci sono tre gruppi di persone che arrivano in questo piccolo angolo di paradiso. Nicole (Connie Britton, Nashville, Friday Night Lights, American Horror Story) e Mark (Steve Zahn, Treme) Mossbacher sono una coppia un po’ in crisi. Lei è la manager finanziaria, molto performante e controllante, di un motore di ricerca, lui è il marito che è in ansia perché teme di avere il cancro ai testicoli. Con loro ci sono il figlio Quinn (Fred Hechinger), interessato più al telefonino e ai videogiochi che a qualunque tipo di attività e socializzazione, ostracizzato dalla sorella Olivia (Sidney Sweeney, The Handmaid’s Tale) che si è portata in vacanza una cara amica del college, Paula (Brittany O’Grady, Little Voice). Quest’ultima viene presto attratta da Kai (Kekoa Scott Kekumano), che fa parte dello staff del resort.

Shane (Jake Lacey, Ms America, Fosse/Verdon) e Rachel (Alexandra Daddario, True Detective) Patton sono due novelli sposi in luna di miele. Lui è un odioso bullo, cocco di mamma Kitty (Molly Shannon), che scontento perché gli è stata assegnata una suite diversa da quella prenotata, diventa una spina del fianco della direzione. Rachel lo ha sposato senza conoscerlo bene come credeva e si accorge presto di aver fatto un errore e di esser per lui solo una moglie trofeo. Lui in realtà non la ascolta. È una giornalista free-lance, ma con poco talento e prospettive, ed è indecisa su quale sia la decisione migliore da prendere per il proprio futuro.

Tanya (Jennifer Coolidge, Two Broke Girls) è una donna matura, piena di dolori fisici ed emozionali, sull’orlo del tracollo, che è venuta a disperdere in mare le ceneri della madre scomparsa. Trova il sostegno della responsabile della spa dell’albergo, l’empatica, disponibile Belinda (Natasha Rothwell, Insecure), a cui propone anche di avviare un’attività in proprio, e in seguito lega con un uomo con problemi di salute, Greg (Jon Cries).  

Se la premessa può suonare un po’ Fantasilandia, già le immagini della sigla d’apertura, una carta da partati in cui i disegni di paradiso terrestre sanguinano, si decompongono, o diventano comunque “disturbanti”, fanno capire che non assisteremo a uno spensierato idillio. Gli opening credits si chiudono con il logo del Loto bianco (e il fatto che White sia anche il cognome dell’autore è un bel tocco): è un fiore che è simbolo di rinascita, ma non solo, si mostra bello ma affonda le proprie radici nel fango (Salon). Tra l’altro, nella diegesi, per bocca di Armond si cita anche la lirica “I mangiatori di loto”, “che parla di andare alla deriva nella vita e di non integrarsi realmente alle cose e di volersi nascondere dalla realtà della vita" (Salon). L’apparenza di lusso e perfezione perciò è una copertina che nasconde ben altro.  

La costruzione dei singoli personaggi e di che cosa li motiva, e dei rapporti fra loro, è forte e ben delineata. Armond e Tanya in particolare, nella loro spirale, lui tragica, lei in positivo, sempre sull’orlo del crollo definitivo, sono ineccepibili. Le dinamiche si creano in un crescendo via via più intenso e riescono a mostrare le vulnerabilità di ciascuno. Belinda raccoglie le paure e i dolori di Tanya, che le si aggrappa in modo disperato, nel tentativo di colmare il proprio vuoto; si crea apparentemente un rapporto intenso, ma alla fine Tanya è troppo autocentrata e incapace di comprendere il male che provoca a Belinda, che ne esce distrutta. Shane è il bambino ricco e viziato che fa i capricci se non ottiene tutto quello che vuole e Armond è il sottoposto costretto a fare i salti mortali per accontentarlo fino ad arrivare all’esasperazione.

Paula e Rachel osservano una realtà che non approvano, ma alla fine non riescono a disvincolarsi da essa: per paura, per comodità, per mancanza di alternative. Quinn è forse l’unico che, costretto ad una vita altra, riesce ad apprezzarla e a sceglierla. In Pop Culture Happy Hour (qui) si è fatta l’osservazione di come guardando i personaggi all’interno del proprio gruppo si vede che hanno problemi come tutti e sono magari brave persone, ma nel rapporto verso l’esterno si vedono i loro punti deboli e come perpetuino certe dinamiche negative, anche solo per “associazione”. Rachel non è una cattiva persona e non si comporterebbe mai nel modo disgustoso in cui fa suo marito nei confronti del personale, ma per associazione anche lei si rende complice di quel comportamento nel momento in cui, pur non mettendolo in atto in prima persona, ne ottiene i vantaggi collegati. Il tema del colonialismo riemerge più volte, in particolare attraverso Olivia, disturbata dallo spettacolo di nativi hawaiiani ridotti a dare spettacolo per un gruppo di bianchi, responsabili di averli derubati delle proprie terre.

Lo humor è sempre presente, sottile, cringe. La visione è sempre godibilissima. La fine anteposta, in cui sappiamo che c’è un cadavere, ormai uno stratagemma narrativo abusato, fa sì che ci aspettiamo che qualcuno muoia, e si ipotizza chi in corso di via, ma non è mai quello il vero motore. Alla fine in fondo quell’aspetto è anche anticlimatico. L’ipnotizzante musica, a partire da quella della sigla, ci trasmette un costante senso di vaga minaccia. L’autore ha dichiarato (Los Angeles Times) che voleva un genere di musica che facesse sentire allo spettatore l’ansia di un possibile imminente sacrificio umano, come se si fosse in una sorta di Hitchcock hawaiiano. La colonna sonora creata da Tapie de Veer “presenta flauti discordanti e percussioni in costante accelerazione stratificate con grida animalesche e intensi gemiti”; ha “anche usato uno strumento sudamericano chiamato charango (simile a un ukulele); una dozzina di tamburi di diverse culture (per lo più tamburi fatti a mano in legno e pelle animale); una varietà di shaker naturali; e un po' di piano malinconico”. È inquietante, e ben si alterna a momenti vocal in hawaniiano che danno un’identità musicale molto ben definita e memorabile.

La serie è anche ricca di numerose citazioni librearie: da Nietsche, a Freud, a “L’Amica Geniale” di Elena Ferrante, a “Blink” di Malcom Gladwell, nelle mani di Shane, e altri ancora.

Bellezza di superficie e una disillusa, feroce, dolorosa e umoristica realtà al di sotto. 

martedì 17 agosto 2021

THE NEVERS: uno steampunk whedoniano

Che cosa significa essere una donna? Essere zittita se vuoi usare la tua voce, magari per sempre se quello che canti dà speranza alle altre. Essere vilipesa e vista come un pericolo se mostri talento, estro, doti particolari. Essere allontanata ed emarginata se sei diversa. La sola via d’uscita è unirsi alle altre, è contare sulla sorellanza.

Sembra questo il messaggio di fondo di The Nevers (HBO, Sky Atlantic), ambientato nella Londra vittoriana. Joss Whedon è diventato Joss Whedon per una ragione: si sarà anche giustamente trasformato in un paria per i comportamenti abusanti di cui è stato accusato, ma non c’è dubbio che sappia fare il suo mestiere. In questa produzione si sente il suo stile e il suo gusto, e quello del suo team (Jane Espenson in primis), compresa la sua inclinazione a ibridare i generi e a costruire arguti repartee. Questa non è la più riuscita delle sue opere, ma questa creazione steampunk è solida a sufficienza, con pennellate che rimandano alla settimana stagione di Buffy (con le “potenziali”) e magari echi di Dollhouse e Firefly. Percepire lui dietro a tutti per molti sarà una nota dolente, ma non per me, che non ho difficoltà in questa istanza a separare opera e autore.  

A causa di un evento sovrannaturale di una nave spaziale aliena che rilascia delle spore, alcune persone, donne soprattutto ma non solo, ricevono doti particolari, chiamate “turn” in originale, “svolte”. Sono i “Toccati”, visti dal governo britannico e dalla popolazione ordinaria come un pericolo. Amalia True (Laura Donnelly, Outlander), una giovane vedova che ha delle premonizioni a flash su eventi futuri, prende sotto la sua ala protettrice le sue simili in un orfanatrofio, di proprietà di Lavinia Bidlow (Olivia Williams, Counterpart), una ricca ereditiera confinata sulla sedia a rotelle. Accanto ad Amalia, che ha periodica necessità delle cure del dottor Horatio Cousens (Zackary Momh) che ha il potere della guarigione, c’è la sua migliore amica Penance Adair (Ann Skelly), prodigiosa inventrice che precorre il suo tempo. Da lei è attratto Augustus “Augie” (Tom Riley), fratello minore di Lavinia, anche lui con un potere che tiene segreto, quello di possedere la mente degli uccelli. Altre dotate di “svolte” sono la matura Lucy (Elizabeth Berrington), che distrugge le cose al toccarle; Myrtle (Viola Prettejohn), che parla infinite lingue mescolandole; Primrose (Anna Devlin), alta più di tre metri; Harriet (Kiran Sonia Sawar), che con un soffio tramuta tutto in vetro; Désireé (Ella Smith), prostituta che riesce a far confessare a chiunque quello che chiede; l’angelica Mary (Eleanor Tomlinson, Poldark), che con la sua voce riesce a cantare una melodia che quelli come lei riescono a sentire… Di quest’ultima è innamorato Frank Mundi (Ben Chaplin), l’ispettore di Scotland Yard, che cerca in particolare di catturare Maladie/Sarah (Amy Mandon) che, squilibrata e piena di dolore, è a capo di un gruppo di ribelli, fra cui Annie (Rochelle Neil) che produce e lancia fuoco dalle mani. Nelle loro vicende rimane coivolto anche Nimble Jack (Vinnie Heaven), ladro transessuale che riesce a produrre degli scudi “volanti”.      

A capo del potere tradizionale che non vede di buon occhio i cambiamenti c’è Lord Gilbert Massen (Pip Torrens, The Crown, Poldark), che incarna il passato, l’Impero, il patriarcato; il dottor Edmund Hague (Denis O’Hare, True Blood, American Horror Story) è un chirurgo che fa esperimenti sui “toccati” per capirne le “svolte”; Hugo Swann (James Norton) è un aristocratico pansessuale che impiega le doti di questi esseri speciali nel suo privato club sessuale; il “Re Mendicante” (Nick Frost) è un leader dei criminali londinesi; i “puristi”, che si identificano con un fazzoletto rosa annodato intorno al braccio, pure, sono un movimento di persone ostili.

La prima stagione è stata suddivisa in due parti, e a chiusura della prima vendono date alcune essenziali spiegazioni su come tutto questo ha avuto origine. In “True” (1.06) infatti la narrazione si sposta in un futuro remoto in cui un’unità di soldati della Coalizione di Difesa Planetaria (PDC) cercano di difendere un Galanthi da un’altra fazione chiamata FreeLife Army. I Galanthi sono una razza aliena in grado di attraversare portali spazio-temporali che cercano di aiutare gli umani a salvare una terra sull’orlo dell’annientamento ecologico. A emergere è il personaggio di Stripe (Claudia Back). Qui il fulcro della mitologia di base, che dall’elenco di personaggi sopramenzionati è evidente essere molto ricca e dettagliata, è definito con chiarezza, e chiude la parentesi whedoniana.

Che sia un’allegoria antropologico-politica è perfino scontato da dire. Quella che è riuscita è la commistione passato-presente-futuro in modo che commenta la realtà su più livelli temporali. E l’asse di scontro principale è fra tradizione e progresso. Lord Masse e Amalia hanno un diverbio in cui lui sostiene che il caos non è cambiamento, che nel mondo c’è un’armonia che vale la pena preservare, e che gridare per avere riconoscimento non rende la gente degna di ottenerlo. Lei ribatte acutamente che l’armonia, per come la capisce lei, è formata da voci differenti che cantano note differenti, al che lui rincalza ammettendo che è vero, ma che una è sempre sopra all’altra (1.01). In seguito (1.05), l’aristocratico osserva che una cosa che minaccia l’ordine naturale, per quando carina possa essere, è per definizione mostruosa, mentre il Re Mendicante sostiene che in realtà non c’è niente di naturale nell’ordine. Quello che è il motore di fondo ideologico qui sembra perciò essere proprio la lotta e l’equilibrio fra rivoluzione e restaurazione, fra passato e futuro, in ogni possibile declinazione, come si incontrano e scontrano. 

Si è in bilico fa momenti di lotta fisica e momenti più meditati e delicati, ma nel personaggio centrale della tosta True c’è matura disillusione, ma anche consapevolezza dell’importanza di combattere per quello in cui si crede. E senso di solidarietà, particolarmente solido nell’amicizia fra lei e Penance, che ancora le vicende.

Dal settimo episodio la serie va in mano alla showrunner britannica Philippa Goslett, di cui al mio scrivere ancora si devono vedere le creazioni (previste per il 2022), e si può solo aspettare per capire che cosa il programma diventerà.

sabato 7 agosto 2021

SERVANT: dall'atmosfera creepy

In Servant (su Apple TV+, già dal novembre 2019), i Turner, Dorothy (Lauren Ambrose, Six Feet Under), giornalista televisiva di successo, e Sean (Toby Kebbell), cuoco-fotografo culinario che si definisce un bon vivant professionale, una coppia di Philadelphia, hanno perso un bambino di tredici settimane, Jericho (Mason e Julius Belford). La madre ha rimosso l’evento e per aiutarla a ritornare gradualmente alla realtà dopo il crollo psicologico le hanno affidato, come oggetto terapeutico transitorio, una bambola che lei tratta come un bambino vero, tanto che finisce per assumere una tata a tempo pieno, Leanne (Nell Tiger Free, Game of Thrones), che si trasferisce a casa loro per prendersi cura di lui. La ragazza, che viene da un paesino rurale del Wisconsin, è molto timida, riservata e religiosa, non batte ciglio e si prende cura dell’oggetto come se fosse un bambino vero. Lo diventa, e questo spaventa e insospettisce Sean, che comincia a indagare su chi sia questa ragazza, e Julian (Rupert Grint, il Ron di Harry Potter), fratello minore di Dorothy.

Con già una seconda stagione a disposizione, ideata da Tony Basgallop che è sceneggiatore di tutte le puntate del primo arco, e con M. Night Shayamalan (Il Sesto Senso), che fa anche un breve cameo nel ruolo di un fattorino della pizza ed è regista di alcune puntate, fra i produttori esecutivi, la serie si muove sul terreno dell’inquietante. Il fulcro è il lutto e la depressione post-partum. Tagli obliqui, inquadrature di primissimo piano e a grandangolo, palette grigia, ritmo da perenne suspense, ansia sottesa, insistenza sui dettagli di cibo che viene eviscerato per le preparazioni del giorno e attenzione al senso del sapore. Anche se lo chiamano horror non mi sento di definirlo tale, perché non c’è nulla che faccia paura, ma è creepy al punto giusto, con un tocco di sovrannaturale.  

Lauren Ambrose mostra una Dorothy volutamente troppo gioiosamente carica e allegra e per questo sempre in qualche modo stonata rispetto all’ambiente e alla situazione. Sean per qualche ragione si trova sempre schegge di legno in qualche parte del corpo e ha perso il senso del gusto e dell’olfatto (e non c’entra il COVID). La glaciale Leanne è in bilico fra l’innocenza, l’ossessione religiosa (prega inginocchiata davanti al letto ogni sera, si fustiga la schiena e realizza crocifissi di stoppie). Percepisci che l’equilibrio mentale è andato perduto e c’è un senso perenne di minaccia, ma la lancetta si sposta costantemente fra la madre Dorothy e la tata Leanne, senza essere mai certi su chi è più instabile e per questo potenzialmente pericoloso. Julian è il mondo esterno che entra nella claustrofobia di quella casa e non sa bene come intervenire. Sean pure rimane di fatto fondamentalmente inerme, più focalizzato sulle proprie creazioni culinarie che autenticamente responsivo.

Le 10 puntate della prima stagione vanno da qualche parte nel senso che si arriva, almeno in parte, a spiegare perché Jericho è morto; intriga ma non trascina. Pur essendoci qualche colpo di scena, c’è un certo senso di staticità, di reiterazione di schemi fissi, che non ammette nemmeno troppa vera umanità nei personaggi, ingabbiati in un dolore che soffoca, si direbbe, anche la narrazione: si suonano le stesse note ancora e ancora, senza che appaia di fatto ripetitivo, ma piuttosto psicologicamente anestetizzante, paralizzato.  Uno show non imperdibile, ma da godersi più che altro per l’atmosfera che crea.