In Servant (su Apple
TV+, già dal novembre 2019), i Turner, Dorothy (Lauren Ambrose, Six Feet Under), giornalista televisiva
di successo, e Sean (Toby Kebbell), cuoco-fotografo culinario che si definisce
un bon vivant professionale, una coppia di Philadelphia, hanno perso un
bambino di tredici settimane, Jericho (Mason e Julius Belford). La madre ha
rimosso l’evento e per aiutarla a ritornare gradualmente alla realtà dopo il
crollo psicologico le hanno affidato, come oggetto terapeutico transitorio, una
bambola che lei tratta come un bambino vero, tanto che finisce per assumere una
tata a tempo pieno, Leanne (Nell Tiger Free, Game of Thrones), che si
trasferisce a casa loro per prendersi cura di lui. La ragazza, che viene da un paesino
rurale del Wisconsin, è molto timida, riservata e religiosa, non batte ciglio e
si prende cura dell’oggetto come se fosse un bambino vero. Lo diventa, e questo
spaventa e insospettisce Sean, che comincia a indagare su chi sia questa ragazza,
e Julian (Rupert Grint, il Ron di Harry Potter), fratello minore di
Dorothy.
Con già una seconda
stagione a disposizione, ideata da Tony Basgallop che è sceneggiatore di tutte
le puntate del primo arco, e con M. Night Shayamalan (Il Sesto Senso),
che fa anche un breve cameo nel ruolo di un fattorino della pizza ed è regista
di alcune puntate, fra i produttori esecutivi, la serie si muove sul terreno
dell’inquietante. Il fulcro è il lutto e la depressione post-partum. Tagli obliqui,
inquadrature di primissimo piano e a grandangolo, palette grigia, ritmo da perenne
suspense, ansia sottesa, insistenza sui dettagli di cibo che viene eviscerato
per le preparazioni del giorno e attenzione al senso del sapore. Anche se lo
chiamano horror non mi sento di definirlo tale, perché non c’è nulla che
faccia paura, ma è creepy al punto giusto, con un tocco di
sovrannaturale.
Lauren Ambrose mostra una
Dorothy volutamente troppo gioiosamente carica e allegra e per questo sempre in
qualche modo stonata rispetto all’ambiente e alla situazione. Sean per qualche ragione
si trova sempre schegge di legno in qualche parte del corpo e ha perso il senso
del gusto e dell’olfatto (e non c’entra il COVID). La glaciale Leanne è in
bilico fra l’innocenza, l’ossessione religiosa (prega inginocchiata davanti al
letto ogni sera, si fustiga la schiena e realizza crocifissi di stoppie). Percepisci
che l’equilibrio mentale è andato perduto e c’è un senso perenne di minaccia,
ma la lancetta si sposta costantemente fra la madre Dorothy e la tata Leanne,
senza essere mai certi su chi è più instabile e per questo potenzialmente pericoloso.
Julian è il mondo esterno che entra nella claustrofobia di quella casa e non sa
bene come intervenire. Sean pure rimane di fatto fondamentalmente inerme, più focalizzato
sulle proprie creazioni culinarie che autenticamente responsivo.
Le 10 puntate della prima stagione vanno da qualche parte nel senso che si arriva, almeno in parte, a spiegare perché Jericho è morto; intriga ma non trascina. Pur essendoci qualche colpo di scena, c’è un certo senso di staticità, di reiterazione di schemi fissi, che non ammette nemmeno troppa vera umanità nei personaggi, ingabbiati in un dolore che soffoca, si direbbe, anche la narrazione: si suonano le stesse note ancora e ancora, senza che appaia di fatto ripetitivo, ma piuttosto psicologicamente anestetizzante, paralizzato. Uno show non imperdibile, ma da godersi più che altro per l’atmosfera che crea.
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