sabato 25 agosto 2018

RISE: dimenticabile


Bene che sia finito come ha fatto, Rise: applausi del pubblico, inchini dei ragazzi che nella serie hanno messo in scena lo spettacolo, commozione dei presenti e dello spettatore a casa e l’annuncio da parte del’autorità che il programma di teatro della scuola verrà tagliato, così come la serie non tornerà per una seconda stagione. Non dispiace, va bene così. Ispirata al libro Drama High di Michael Sokolove, che raccontava una storia vera, ha detto ciò che doveva, e ha calato il sipario.

Letteralmente dal primo secondo si vede che l’autore è lo stesso di Friday Night Lights, Jason Katims, per il modo in cui sceglie di introdurre la cittadina dove sono ambientate le vicende, e in seguito lo si sente nel modo di costruire le relazioni personali, ma si è rimasti distanti da quei vertici, mancando di mordente, fuori da alcuni momenti. In questo caso l’ambientazione è quella di una piccola comunità operaia di Stanton, dove il denaro scarseggia. Un ambizioso professore di lettere, Lou Mazzuchelli (Josh Radnor, Mercy Street, How I met your mother), “Mr Mazzu”, prende la direzione del dipartimento teatrale del liceo dove lavora sostituendo Tracey Wolfe (Rosie Perez) che decide di rimanere con lui e di spalleggiarlo. Vuole mettere in scena lo spettacolo Spring Awakening (Risveglio di Primavera) e, anche se i ragazzi raccolgono la sfida con entusiasmo, molti genitori si oppongono strenuamente al progetto perché ritengono che le tematiche affrontate siano inappropriate: aborto, abuso, suicidio, sesso, omosessualità…Alla fine è un successo.

Molte di queste questioni riguardano i ragazzi da vicino. Non hanno vite facili. A Lilette Suarez (Auli’i Cravalho, in originale la voce della protagonista principale del film della Disney diventato Oceania in italiano), viene offerto il ruolo principale di Wendla. Lei dopo la scuola lavora come cameriera con la madre Vanessa (Shirley Rumierk) con cui vive, che ha una relazione con l’allenatore della squadra di football della scuola, Sam Strickland (Joe Tippet), cosa che non viene presa bene dalla figlia di quest’ultimo, Gwen (Amy Forsyth). Il ruolo di protagonista principale maschile viene dato a Robbie Thorne (Damon J. Gillespie), star della squadra di football, che ha una madre che sta morendo di SLA e un padre che lo spinge ad eccellere nello sport e non vede di buon occhio la sua nascente relazione con la protagonista dello spettacolo. Gordy (Casey Johnson), il figlio maggiore di Mr Mazzu, ha problemi di alcool, e si sente inizialmente messo da parte quando il padre e la madre Gail (Marley Shelton) decidono di accogliere in casa Maashous Evers (Rarmian Newton), un adolescente senzatetto che per il club di teatro è addetto alle luci. Sam Saunders (Ted Sutehrland), attratto dal compagno Jeremy (Sean Grandillo), attraverso lo spettacolo si vede costretto ad affrontare il suo mai ammesso orientamento sessuale, di fronte alle pressioni contrarie di una famiglia cattolica molto conservatrice. Sasha Foley (Erin Kommor) scopre di essere incinta, ma non può contare affatto sul sostegno del padre con cui vive, mentre lo trova in Tracey e Michael (Ellie Desautels), uno studente transgender.   

Un po’ come nello spettacolo teatrale con cui si intreccia – che a conoscerlo bene sicuramente dà una lettura più pregnante a tutto – le situazioni complicate della vita sono molte e si affastellano in questa ennesima versione di studenti del liceo alle prese con il mondo dello spettacolo (dal classicone Fame al neo-classico Glee), e le riflessioni sull’arte come specchio della realtà e come palco, è il caso di dirlo, che ci fa riflettere su quello che viviamo mettendo in risalto il nostro vissuto, non si riesce ad essere particolarmente originali, pregnanti o incisivi, di fatto. Dimenticabile.

giovedì 16 agosto 2018

ALTERED CARBON: deludente



Delude Altered Carbon (Netflix), ideata da Laeta Kalogridis e tratta dall’omonimo libro di Richard K. Morgan. La parte fantascientifica del futuro immaginato è inventiva e intrigante, e di fatto la vera ragione per eventualmente immergersi in questa fantasia, la parte investigativa è trita e per quanto costruita in modo non casuale, sufficientemente banale, con dialoghi da telefilm formulaico.

Siamo nel 2324, non è chiaro su quale pianeta. La morte come la conosciamo è stata sconfitta. I corpi sono ora mere custodie, mentre l’anima, la coscienza e l’identità di una persona sono conservate in una pila corticale posizionata sul retro del collo che, distrutto il corpo fisico, possono essere trasferite in un’altra custodia, a meno di non essere distrutte essere stesse. Solo in quel caso ci sarà la vera morte, che secondo un gruppo di religiosi è quello da cui non dobbiamo fuggire. Solo gli straricchi possono permettersi un back-up su cloud per cui, se perfino anche la pila viene distrutta, riescono comunque a salvarsi. Uno di questi potenti quasi-immortali, Laurens Bancroft (James Purefoy), è stato ucciso e quando la sua identità è stata recuperata da cloud, non riesce a capire chi possa averlo ucciso, dal momento che dal salvataggio della memoria mancavano gli ultimi due giorni. Re-incarna perciò in un nuovo corpo uno “Spedi”, Takeshi Kovacs (Joel Kinnaman), un soldato appositamente addestrato, nella custodia che in precedenza era stata di Elias Ryker, un poliziotto, per scoprire la verità di quanto è accaduto. Takeshi era stato messo in stasi carceraria negli ultimi 250 anni per aver combattuto contro il Protettorato e ora si ritrova a collaborare (o a scontrarsi) con la polizia di Bay City,e in particolare con la Kristin Hortega (Martha Higareda), che era stata l’amante di Ryker.

Il futuro distopico immaginato è davvero affascinante, anche perché pensato nel dettaglio. Non solo le persone si trasferiscono da un corpo all’altro, un clone o anche un corpo sintetico, ma possono essere infilate in un corpo di sesso o età diversa magari, per le ragioni più varie. Esistono esseri totalmente virtuali, come in questo caso Poe (Chris Conner), dell’albergo “Il Corvo”. Un po’ Blade Runner, un po’ Westworld, la società immaginata permette di riflettere su diversi temi (identità, corruzione, potere, costrutti mentali, famiglia, amore, lealtà…), ma primo fra tutti evidentemente su quello della morte e sul suo valore. Qui la vita eterna è solo per pochi ricchi e questo dà enorme potere su chi non può permettersela.

La sostanza però manca di spessore, si è troppo adolescenzial-sbruffoncelli e spacconi. I proiettili volano come coriandoli. C’è ampia violenza “caramella”, con molti combattimenti-coreografia e parecchia tortura, e la perenne promessa di sesso estremo che soddisfi ogni fantasia a cui di fatto si ammicca solamente. Non di affronta facilmente – molto ragionevolmente – il tema dello snuff sex, e qui è stato fatto, cosa in sé anche sensata, viste le premesse, e coraggiosa. Peccato che tutto rimanga molto epidermico.

Il presunto omicidio da risolvere (che giunge a una adeguata conclusione) poteva essere in fondo un pretesto per altro. Si è cercato, infatti di liberarsi da quella gabbia, ma senza successo e si è rimasti un crime ordinario con un rivestimento e una patina noir sci-fi e cyberpunk, nulla di  più.      

mercoledì 8 agosto 2018

AMERICAN CRIME STORY: L'assassinio di Gianni Versace


La seconda stagione di American Crime Story, dedicata a The assassination of Gianni Versace, l’assassinio di Gianni Versace (Édgar Ramírez), della rete FX, si poggia su quattro elementi fondamentali: l’esaminazione degli elementi che fanno di un giovane ragazzo un criminale, l’omofobia, il senso estetico e la mobilità temporale.

La storia è nota: un giovane ragazzo di origine filippina, Andrew Cunanan (Darren Criss, Glee), si presenta in Florida davanti alla casa del noto stilista italiano Gianni Versace, da cui era ossessionato, e gli spara uccidendolo. Non era il primo assassinato di questo killer che in chiusura, prima che lo prendano, decide di togliersi la vita. Fra le sue vittime si incontrano altre sfortunate persone che hanno incrociato la sua strada, o come amici o come amanti più o meno occasionali. La serie indaga la vita e le motivazioni di Andrew, e ci fa scendere nella sua follia, non scusandolo per questo, ma elicitando una cum-patio che lo rende comunque umano.

Il padre, Modesto “Pete” (Jon Jon Briones), un imbroglione tormentato dall’idea fissa del successo, lo trattava con smaccato favore rispetto ai fratelli (quando comprano casa nuova al figlioletto spetta la camera matrimoniale), alla stregua un principino a cui tutto è concesso, ma abusava sessualmente di lui. Gli viene inculcato fin da piccolo che lui è speciale, e si merita tutto ciò che desidera. Crescendo però il ragazzo riesce a crearsi delle opportunità solo mentendo e assumendo ogni volta un’identità inventata diversa. Sa come deve apparire per essere al centro dell’attenzione, ma non riesce mai a essere se stesso. E non riesce a farsi amare. Come non percepire la sua tragica tristezza quando si stende vicino al cadavere di un giovane architetto che diceva di amare, David Madson (Cody Fern), ma che lo respingeva, e lo abbraccia dopo avergli sparato alle spalle? Criss è eccellente nella parte, a momenti narciso potente ed esaltato dalle stesse illusioni che crea, a momenti ragazzino deluso e fragile di fronte all’aridità della propria realtà.  

Intrecciato a tutta la narrazione c’è il grande tema dell’omofobia, pervasiva nelle vite di tutti i personaggi, che sia il giovane Gianni Versace che i compagni di scuola prendono in giro e le insegnanti qualificano come “pervertito” perché disegna abiti femminili e che deve imparare il mestiere dalla madre di nascosto; che sia il giovane militare Jeff Trail (Finn Wittrock), che in caserma vive sotto l’opprimente regola del “don’t ask, don’t tell” (2.05); che sia l’uomo d’affari che di nascosto dalla moglie cerca piacere con altri uomini; che sia il compagno di una vita di Versace, Antonio D’Amico (Ricky Martin), il cui dolore al momento del funerale non viene nemmeno riconosciuto, come se non esistente, e a cui il prete ritrae la mano sdegnato, non permettendogli di baciargliela, come ha consentito a tutto il resto della famiglia – a lui non spetta nulla; che sia infine Andrew stesso.  Non sono passati così tanti anni, ma era un mondo diverso, fatto di omertà e vergogna, spesso interiorizzata.

Della cultura omosessuale e non solo, Versace era un’icona, con una visione e un’estetica dirompente e precisa, fatta di sensazioni e percezioni, ma anche di amore e passione, e legame per la famiglia e la sorella Donatella (Penélope Cruz) in particolare. È stato un uomo con un talento vivo che ha portato in vita un sogno, da vero artista, e una persona che pur provenendo da un ambiente povero, ha saputo creare un impero. La serie, stilisticamente e cromaticamente, soprattutto in alcuni passaggi, abbraccia questa estetica.

La narrazione non segue un percorso cronologico. Si parte da quel luglio 1997 per rimbalzare indietro nel tempo, dedicando una puntata all’omicidio di Lee Miglin (2.03), nel maggio precedente,  e all’ex-ufficiale di marina Jeff Trail (2.04)  ancora prima e poi aventi e poi ancora indietro in percorso da pallina di flipper che non è mai stato lineare. Non crea confusione, ma necessariamente richiede una visione attenta e d’insieme.

La serie, basata sul libro di Maureen Orth intitolato “Vulgar Favors: Andrew Cunanan, Gianni Versace, e the Largest Failed Manhunt in US History”, è stata criticata dalla famiglia Versace che ne ha preso le distanze dichiarandola non autorizzata e da considerarsi un’opera di fantasia. Di rimando Ryan Murphy, produttore esecutivo e regista del pilot, pur ammettendo che ovviamente non si tratta di una serie documentaristica, respinge l’idea di considerarla pura finzione narrativa perché basata appunto su fonti saggistiche.

La serie, scritta da Tom Rob Smith, riesce a mescolare e far conflagrare in una visione appagante grandeur e glamour con squallore e disperazione.

mercoledì 1 agosto 2018

THE MINIATURIST: appagante



Tratto dall’omonimo libro di Jessie Burton, The Miniaturist (BBC1) - “Il Miniaturista”, per Bompiani -, è un adattamento di John Brownlow in due puntate che regala circa due ore e mezza di televisione appassionante ed elegante, molto curata nei dettagli e nello stile – scorci, arredamenti, abiti...

Siamo ad Amsterdam, nella seconda metà del XVII° secolo, nel 1686 per essere precisi. Una giovane donna, Petronella “Nella” Oortman (una luminosa Anya Taylor-Joy), per salvare la propria famiglia dai debiti, accetta di sposare il ricco mercante Johannes Brandt (Alex Hassell). Arrivata nella casa di lui, viene accolta con freddezza e sospetto dalla sorella non sposata di lui, Marin Brandt (Romola Garai), molto devota e ascetica, e dai domestici Cornelia (Hayley Squires) e Otto (Paapa Essiedu), un ex-schiavo. La ragazza riceve come regalo di nozze dal neo-marito il modellino di una casa identica da quella in cui va a vivere, e dopo un primo ordine, spesso senza farne richiesta riceve, da una miniaturista (Emily Berrington, la Niska di Humans) che le cela la propria identità, molti oggetti che sono sorprendentemente fedeli a quelli veri e bamboline che rappresentano le persone della sua vita. Si sente come se venisse spiata e come se qualcuno sapesse anche in anticipo tutti i segreti che a poco a poco lei stessa viene a scoprire o gli eventi che stanno per accadere.

La narrazione è ricca di suspense e di colpi di scena, tanto inaspettati quanto sensati e coerenti, e riesce in un’impresa rara e quanto mai gradita - anche se forse avrebbe beneficiato ai una costruzione un po’ più lenta: tutti i personaggi principali a mano a mano che si conoscono si vogliono bene e cercano di proteggersi e rispettarsi a vicenda. Nel corso delle vicende ci sono “i cattivi della situazione”, che in parte lo sono perché intrappolati dai mores del’epoca, che per varie ragioni precipitano gli eventi verso situazioni tragiche,  ma la famiglia rimane unita e presente gli uni agli altri fino alla fine. Ciascuno dei personaggi è tridimensionale e realistico, anche in fondo il personaggio della miniaturista, per gran parte del tempo permeato di mistero, anche quando  con lei si scopre una vena vagamente sovrannaturale. Un altro punto di forza della storia è stato riuscire a trattare tematiche quanto mai attuali, pur in una cornice d’epoca.

Con la regia di Guillem Morales, è stata una miniserie decisamente appagante.