lunedì 29 maggio 2023

SUCCESSION: la memorabile quarta e ultima stagione

Si è appena chiusa Succession, una delle serie più emblematiche e seminali degli ultimi tempi: commedia, tragedia, satira. Pur con sole quattro stagioni ha lasciato un’impronta indelebile nel panorama televisivo: un successo artistico di prim’ordine.  SPOILER PER LA QUARTA STAGIONE.

L’ultima stagione, che ripercorro a seguire, è iniziata in modo molto intenso da subito, con il compleanno (4.01) del magnate Logan (Brian Cox) rivelatore il suo riferirsi alle persone come "unità economiche", come soggetti che operano in un mercato, anche perché racchiude il capitalismo e ciò che lui rappresenta in un modo molto concreto. I fratelli apprendono che il padre sta tentando di acquistare nuovamente la Pierce Global Media e decidono di lanciare un'offerta rivale. Sono riusciti a creare la tensione tra le parti in gara con molta semplicità. Industry crea questo aspetto di negoziazioni affaristiche altrettanto bene, ma è così complicato che si ha l'impressione di aver bisogno di una laurea in finanza per capire cosa sta realmente accadendo. Qui no. C'è lo stesso tipo di suspense e lo stesso senso della posta in gioco, ma con numeri che un bambino delle elementari può capire. Essere così efficaci con così poco materiale è un punto di forza sottovalutato.

Si è rafforzata la posizione del patriarca come un despota che riesce a radunare la gente intorno a sé come un vero leader: è temuto, ma dalla folla riesce a suscitare una risposta onestamente esaltata, perché è credibile, in contrasto con i suoi figli, il cui ruolo è sempre perennemente amatoriale. “You’re not serious people – non siete persone serie” (4.02) spunta nei loro confronti, dopo che li ha tenuti in bilico facendo loro creder di aver bisogno di loro; non si crede alla sincerità di Logan, ma nonostante ogni possibile realtà loro, come noi, vorrebbero che fosse vero. Connor (Alan Ruck), il figlio di primo letto perenne outsider, è sempre apparso un po' patetico rispetto ai suoi fratelli. Qui, nonostante la sua situazione insicura e infelice, sembra il più forte nella sua consapevolezza di non essere amato e di non averne bisogno. Per Logan è una prolessi perfetta al suo inchino finale.

Già il titolo della serie e l'immagine di chiusura dei titoli di testa, quando i ragazzi si voltano per vedere il padre che se ne va, lasciavano naturalmente intendere che prima o poi si doveva aver a che fare con la scomparsa di Logan, lasciando i ragazzi a fare i conti con la successione. Quello che l’ideatore Jesse Armstrong e i suoi hanno fatto magistralmente è stato il tempismo con cui hanno scelto di farlo uscire di scena. Nessuno se lo aspettava così presto, magari un paio di puntate prima della fine, ma non certo alla terza puntata. È stato molto reale anche: la morte arriva quando arriva, non sceglie il momento opportuno. L'episodio “Le nozze di Connor” (4.03) è stato semplicemente superbo e ho passato metà del tempo a piangere. Non mi sorprende che sia stato salutato come uno dei migliori episodi di sempre dello show, se non della televisione proprio. Ho amato il modo in cui ha saputo cancellare tutto il resto, nel senso che questi eventi sono così potenti che sono come campi gravitazionali per le persone emotivamente coinvolte: vengono risucchiate in un buco nero di dolore e tutto il resto scompare temporaneamente. Ho amato il modo in cui hanno mantenuto il tour de force di una singola scena per molto tempo, e la sensazione di frantumazione che si prova, in tutte le multiple reazioni di sgretolamento progressivo. Ho amato il fatto che non ci abbiano mostrato il crollo e la morte di Logan, distante per noi come per i suoi figli, e già un'assenza, come in fondo la morte è. Tutta la recitazione era di alto livello, cruda e reale, ed è stato incredibile come siano riusciti a non renderla melodrammatica. Mi sono piaciuti i frenetici tentativi di determinare cosa stesse accadendo, il rifiuto di ammettere l'inevitabile da parte di Roman (Kieran Culkin), la necessità di un equilibrio tra la vita privata e quella pubblica, e il fatto che abbiamo potuto vedere come un lutto colpisca le persone in modo diverso. In genere, vengono mostrati solo coloro che sono molto vicini per legame familiare o emotivo, qui hanno mostrato anche persone più distanti e legate a lui a livello professionale, che possono essere anche (e non solo) rattristate, ma in modo diverso. Inoltre, credo sia stato intelligente evocare anche i ragionamenti egoistici, Tom (Matthew Macfadyen) in particolare, e far scegliere a Connor di procedere con le proprie nozze.

È difficile seguire un episodio epocale e Succession ci è riuscita comunque benissimo. Segno di buona scrittura, il loro dolore era molto specifico: per quanto parlasse delle conseguenze di una morte in generale, era davvero molto legato alla realtà della loro situazione. Notevole il modo in cui hanno usato la musica "d'ambiente" da funerale in chiesa come sottofondo per scene che non avevano nulla a che fare con la morte in sé. La genialità dell'episodio (4.04) è stata però l'enigma della linea sottolineata o barrata (personalmente opto per quella sottolineata) sul nome di Kendall (Jeremy Strong) come successore del magnate, in un documento testamentario privo di valore legale.  C'è tutto: il passato (Logan che è sempre stato ambiguo nei sentimenti verso i suoi figli - in parte amore, in parte disprezzo), il presente (chi prenderà il controllo), il futuro (la messa in discussione della legittimità del ruolo di Kendall). Racchiude le dispute sulla successione, che ha interessato gli episodi successivi. Si è vista l'incompetenza, il disagio e la debolezza dei fratelli Roy, anche se erano letteralmente e figurativamente al vertice e il loro essere in bilico fa l’interrogarsi su che cosa avrebbe fatto il padre e fare scelte autonome, e sono emerse le loro rivalità Shiv (Sarah Snook) che complotta con Matsson (Alexander Skarsgård), Kendall che dichiara “una testa, una corona” (4.07), Rome, sboccato giullare di corte che alla fine è il più sensibile ed emozionale di tutti – ho singhiozzato al suo straziante crollo al funerale del padre, in una puntate (1.09) fra quelle che più mi è piaciuta in una stagione davvero potente. Gli elogi funebri sono stati l'occasione per smascherare chi è veramente ognuno di loro a questo punto. Apprezzabile il ritratto che Ewan ha fatto di suo fratello. James Cromwell, che lo interpreta, sa essere piuttosto inquietante, persino terrificante per me (penso soprattutto ad American Horror Story e Six Feet Under). Probabilmente la mia scena preferita dell'intero episodio è stato lo scambio di battute tra Shiv e sua madre sulla sua gravidanza. Il modo in cui si sono capite con mezze parole e frasi che avevano a malapena un senso. Inarrivabile. Frank Vernon (Peter Friedman), Gerri Kellman (J. Smith-Cameron), Karl Muller (David Rasche) e Hugo Baker (Fisher Stevens) sul fronte professionale e le mogli di Logan pure sono sempre stimolanti da guardare. Mi ha convinto meno invece la puntata sulle elezioni presidenziali (4.08) — il Guardian ha stilato una propria classifica di tutti gli episodi, se qualcuno fosse interessato.

Si può contare sempre sull’umorismo di Greg (Nicholas Braun) e Tom e sempre acutissime sono le interazioni tra Logan e Tom, perché quest'ultimo deve navigare su una linea delicata tra servilismo e familiarità che è allo stesso tempo scomoda e divertente da guardare. Sembra uno che si avvicina a una bestia feroce senza sapere come reagirà e dove atterrerà. Si sente l'odore della paura. Si è visto Tom testare le acque su come sarebbe stata la situazione tra loro nel caso in cui lui e Shiv avessero deciso di lasciarsi, poi il lutto ha cambiato le cose e lui e Shiv hanno avuto riavvicinamenti e allontanamenti che sono esplosi a fuoco d’artificio nella feroce litigata sul balcone (1.07), spettacolare da ogni punto di vista: recitazione, emozioni, scrittura... Sembrava molto crudo e reale, anche per il fatto che hanno riesumato cose del passato (come la paura di Tom di andare in prigione) e come ognuno di loro le ha lette. Onestà brutale.

Succession è stata sezionata in ogni suo aspetto come non mai, che fosse per discutere della trama, per commentare il comportamento dei Roy come fossero persone reali, fare gossip sul loro guardaroba della cosiddetta “stealth wealth” (la ricchezza che non si fa notare dei superricchi) o chissà che altro ancora. La serie non solo si è distinta narrativamente e “drammaturgicamente” – termine che uso di proposito, per chi avesse seguito quello che è successo dopo che Jeremy Strong ha usato questo termine, che evidentemente per i parlanti medi della lingua inglese deve essere una parola inusitata (qui)—, ma anche per il linguaggio: un mix di vocabolario di alto livello e di frasi buttate giù con disinvoltura e ricche di riferimenti: entusiasmante. Grandi battute anche. La serie ha costruito parte del suo successo sulla cattiveria umoristica e senza cuore, come ha ben notato Tim Goodman che ha scelto questa quarta stagione per il suo club della TV a cui ho partecipato commentando puntata per puntata e scrivendo alcune della cose scritte qui ed è vero che questa ferocia di personaggi che ci comportano gli uni con gli altri nel modo più spietato che non è una cosa sostenibile a lungo.

L’attesissima series finale mi ha lasciata appagata: è stata intensa, imprevedibile, avvincente e sensata. L’ho guardata immediatamente perché altrimenti chi sarebbe riuscito ad andare online senza avere spoiler?

Pensavo che solo Kendall avesse la possibilità di vincere, ma trattandosi di una sorta di tragedia shakespeariana, non avrebbe potuto vincere. "Sono il figlio più grande!" grida alla sorella che non vuole votare per lui, in una riunione del consiglio che vede due posizioni in contrasto rispetto all’affare GoJo, 6 a 6, con il settimo voto di Shiv a deciderne la direzione. Mette davvero il dito nella piaga: è un bambino che vuole il giocatolo per sé perché, come ricorda in qualche scena prima, suo padre glielo ha promesso quando aveva solo 7 anni.  Ho pensato che fosse piuttosto appropriato che finisse la puntata, sconfitto, davanti all'acqua, il suo elemento ricorrente nel corso delle stagioni. E in effetti, si ha anche la sensazione che stia contemplando la possibilità di buttarsi dalla ringhiera e togliersi la vita. Vederlo inquadrato da dietro mi ha fatto venire i brividi, perché mi è venuto in mente l’analoga inquadratura di Logan nella sigla, ma di fronte al consiglio di amministrazione, non da solo su una panchina fronte-fiume.

Roman è sempre stato troppo emotivo e volubile per avere una possibilità. È stato sconsolante vedere che si è reso conto che non erano niente. E Shiv tanto per cominciare era incinta, non una situazione ideale per una persona inesperta che vuole per la prima volta ricoprire quella posizione, e troppo ricca di opinioni per essere solo la facciata americana di qualcun altro. Come ha detto loro il padre, non erano "persone serie". Connor non è mai stato interessato.

Era logico che Tom fosse incoronato come nuovo CEO della Waystar Royco: Shiv lo conosce perfettamente e, alla fine, credo che sia stata la sua descrizione a venderlo a Matsson come credibile candidato a quel suolo che ironia. Inoltre, è sempre stato mostrato come uno che lavora veramente (ha ripetuto più volte nel corso della serie quanto fosse stanco, anche perché lavorava sempre), quindi in un certo senso è anche giusto. Il suo matrimonio con Shiv è stato esplicitamente anche un contratto d’interesse, e continua sulla stessa linea. Il fatto che lei aspetti un bambino è un ulteriore vantaggio. Perfetta la scena finale di loro in limousine con lui che, senza guardarla, le offre la mano e lei gliela poggia sopra, ma lui non la stringe.

Questa serie ha parlato di molte cose (il trauma di una dinamica familiare tossica, la rivalità, il potere, l'approvazione dei genitori, la successione ovviamente...). Ha riflettuto anche su come il capitalismo sfrenato ti spezza lo spirito, ti succhia l'anima e ti rende infelice. Da questo punto di vista, le scene a casa della madre dei ragazzi, Caroline (Harriet Walter), sono state un buon contraltare. Hanno mostrato un'alternativa. I fratelli hanno potuto essere una vera famiglia. Per quanto sullo sfondo lussureggiante ci siano stati feroci litigi, erano felici, almeno per quello che è loro possibile, hanno saputo trovare un’intesa e alla fine erano uniti. Non è stato così una volta tornati all'ambiente aziendale. 

La memorabile Succession in definitiva si è chiusa con un ennesimo colpo di scena, e con coerenza, in più c'è ampio spazio per uno spin-off. E se qualcuno non fosse soddisfatto, gli si può dire, non come insulto, ma come citazione telefilmicamente colta: “fuck off!”.

mercoledì 24 maggio 2023

THE DIPLOMAT: un gustoso, dinamico thriller politico

The Diplomat viene salutata da più parti come The West Wing dei giorni nostri, un’affermazione esagerata, perché non ci sono grandi idealismi o retorica qui, né altrettanta pregnanza rispetto all’attualità; allo stesso tempo sembra qualcosa di più del paragone proposto da Daniel Fienberg di The Hollywood Reporter che lo considera alla stregua di un cheeseburger gourmet (qui). L’accostamento alla più famosa creazione di Aaron Sorkin non è infatti un’osservazione del tutto fuori luogo, e non solo per la occasionale presenza qui del classico walk-and-talk reso lì popolare, o di una trama orizzontale che potrebbe ben essere una puntata della seminale serie della NBC dilatata per una stagione. Non sorprende scoprire che ad ideare questo thriller politico sia stata Debora Cahn, che in quella serie ha lavorato dalla quarta alla settima stagione, così come in Homeland, Grey’s Anatomy e Fosse/Vernon. E a ben guardare c’è un po’ del DNA di tutte queste nella nuova produzione di Netflix, con una prima stagione di 8 puntate già rinnovata per una seconda, dopo un  esplosivo colpo di scena nella season finale: si mettono sotto i riflettori i temi della diplomazia mondiale e matrimoniale, ed è avvincente, avventurosa, attuale, brillante, dinamica e divertente, in un cocktail che riesce ad essere leggero e arguto. Con un cast da fare invidia.

Kate Wyler, interpretata da una Keri Russell la cui parte in The Americans l’ha preparata ampiamente per questa parte, è la nuova ambasciatrice degli Stati Uniti nel Regno Unito. In realtà lei non è troppo contenta della carica, vorrebbe un ruolo più operativo e meno cerimoniale, per cui si sente più adatta, ma la stanno grooming, se mi si consente la dicitura inglese, la stanno preparando per diventare vice-presidente di William Rayburn (Michael McKean), degli USA, ruolo che pure non vorrebbe. Si aspettava di cominciare una missione a Kabul, e rimpiange di essere costretta a rinunciarvi, tanto più dopo molto lavoro preparatorio. Accetta sotto l’ingombrante spinta di un marito da cui vorrebbe separarsi, pure lui ex ambasciatore con cui ha un rapporto professionale buono ma complicato, Hal, un Rufus Sewell che abbiamo visto già in ruoli “politici” sia in Victoria che in The Man in the High Castle. Lui, esperto di politica estera con molti contatti e grande capacità di tenere discorsi, deve imparare a fare da spalla e a giocare solo il ruolo di consorte.

Kate viene subito affidata al suo dipendente Stuart Hayford (Ato Essandoh), vice capo missione dell'ambasciata statunitense a Londra, che la introduce nel nuovo ambiente, e a Eidra Park (Ali Ahn), capo di una divisione della CIA. Si vede subito costretta a disinnescare una crisi internazionale molto delicata. Una portaerei britannica è stata appena attaccata nel Golfo Persico, uccidendo 41 marinai e si sospetta dell’Iran. Il primo ministro britannico Nicol Trowbridge (un sempre magnifico Rory Kinnear, Penny Dreadful) vuole mostrare il pugno di ferro, ma Kate, sapendo che l’Iran non è stato, cerca la complicità di Austin Dennison (David Gyasi), Ministro degli Esteri del Regno Unito, per fa sì che i toni si smorzino e Kate convince il Segretario di Stato americano Miguel Ganon (Miguel Sandoval) a non rilasciare immediatamente dichiarazioni. Presto emerge chi è il vero responsabile, o così pare. Fra colpi di scena (potenziali rapimenti e avvelenamenti, possibili depistaggi e altro ancora), alleanze strategiche, rapporti di intelligence e riunioni politico-diplomatiche, Kate deve trovare anche il tempo, e soprattutto lo spirito, per posare per una rivista di moda o partecipare a un ricevimento, tutto in nome del lavoro.

Se escludo l’infantile riluttanza di Kate per abiti eleganti e situazioni sociali che una nella sua posizione dovrebbe capire che sono significative per il suo lavoro  la considero la trita scappatoia per rendere una donna seria e tosta (come se così fosse) , ho trovato spassoso questo drama che, sullo sfondo di vicende genuinamente complesse, con evidenti echi alla situazione presente (Russia e Ucraina sono sulle labbra dei personaggi più di una volta, tanto per fare un esempio) e di delicati equilibri relazionali, riesce a imbastire un gustoso intrattenimento, con humor, senso dell’avventura e la consapevolezza che il palcoscenico mondiale che si calca è più complesso di quanto le news possano lasciar trasparire. Forse è un’occasione sprecata nel senso che ha effettivamente poco a che fare con la diplomazia vera e propria, e in questo senso il titolo è magari fuorviante, ma non è una serie che intende cambiare il mondo o farci grandi discorsi parenetici. Non è cronaca vera e naturalmente si prende parecchie licenze poetiche, ma è anche accurata (e per saperne di più in proposito si legga questo articolo de Il Post). È poi notevole come i due interpreti di Kate e Hal abbiano creato un’intesa istantanea fra loro come è difficile trovarne, fatta di ambizioni, di reciproche negoziazioni, e di genuino apprezzamento e sentimento l’uno per l’altra, e anche fra la protagonista e Dennison c’è ampio spazio di manovra per una storia romantica.

lunedì 15 maggio 2023

TRANSATLANTIC: il salvataggio di intellettuali ebrei durante il nazismo

Siamo nella Marsiglia del 1940 occupata dai nazisti, dopo la caduta di Parigi, nella miniserie di Netflix Transatlantic, ideata da Anna Winger (Unorthodox) e Daniel Hendler sulla base del romanzo The Flight Portfolio (2019) di Julie Orringer e di fatti realmente accaduti. Si tratta di una coproduzione internazionale e multilingue (inglese, francese, tedesco…).

Il giornalista Varian Fry (realmente esistito, e interpretato da Cory Michael Smith; Gotham) e l’ereditiera  Mary Jayne Gold (realmente esistita, a cui dà il volto Gillian Jacobs, Community), due americani che si trovano in Europa in quella buia epoca,  operano per l’Emergency Rescue Committee (il Comitato di Soccorso d'Emergenza) con l’obiettivo di far fuggire e mettere al sicuro quante più persone possibile prese di mira dal governo nazista (nella realtà ne riuscirono a salvare circa 2000), in particolare intellettuali come Hannah Arendt, Walter Benjamin, Marc Chagall e sua moglie, Marcel Duchamp, Max Ernst, Peggy Guggenheim, Walter Mehring, Victor Serge... Cercano di procurare visti, organizzare viaggi in nave, far arrivare i rifugiati in Spagna attraverso le montagne dei Pirenei, far uscire dal carcere prigionieri politici. Ad aiutarli ci sono in particolare Albert Hirschman (pure realmente esistito, e qui interpretato da Lucas Englander), un rifugiato ebreo tedesco in fuga dalle persecuzioni naziste dal 1933, di cui Mary Jayne si innamora, e Lisa Fittko (pure lei esistita, qui con il volto di Deleila Piasko), una ribelle antifascista, e dopo che la base delle loro operazioni, l'Hotel Splendide, viene saccheggiato dalla polizia, anche Thomas Lovegrove (un personaggio inventato, Amit Rahav)  vecchio amore di Varian (sulla base di effettiva documentazione che Fry aveva avuto numerosi amanti uomini), che offre la sua casa di campagna, Villa Air-Bel. Insieme a loro anche alcuni africani, come Paul Kandjo (Ralph Amoussou).  Il console americano Graham Patterson (Corey Stoll, House of Cards) si trova in una situazione ambigua, vista la neutralità degli Stati Uniti, che a questo punto ancora dovevano entrare in guerra.

Sembra un’elettrizzante avventura quella che i protagonisti qui ritratti si trovano a vivere: questa è stata la sensazione di fondo che ho percepito e che mi è parsa completamente inappropriata. Si sente molto poco il senso del pericolo e il senso politico e valoriale delle forze in campo. So di non essere stata l’unica a notarlo, anche se non arrivo a considerarlo l’insulto alla memoria di chi ha vissuto quegli eventi perché, anche grazie allo speciale dietro le quinte che accompagna la produzione, mi sono resa conto che è stato programmatico. L’obiettivo della produzione era quello di creare uno “screwball melodrama”, quindi un melodramma con una certa leggerezza e qualche momento tinto di umorismo, facendo riferimento anche alle opere cinematografiche dell’epoca. Si nota molto poco, in realtà, e non si viene mai stupiti dalla eleganza o dall’originalità della cinematografia, che invece di puntare a qualcosa di raffinato come fa la meritevole sigla di chiusura di ogni puntata, ci propone quasi un’estetica da soap opera europea. Anche le ambientazioni naturalistiche, stupende, in contrasto con gli orrori di cui sono teatro, non riescono mai a diventare personaggio, ad imporsi in dicotomia.

“Le persone pensano di non poter far nulla per cui non fanno nulla”, si fa dire a Mary Jayne ad un certo punto. Se è vero che riescono a mostrare che essere eroi non significa essere invulnerabili figure esemplari ma persone reali con difetti e problematiche che cercano di fare del proprio meglio e incappano in errori anche gravi, non si dà un senso etico ed intellettuale di maggior spessore che facilmente si sarebbe potuto avere dalla presenza di nomi così altisonanti. Già non è così moralmente scontato che vada bene battersi per salvare un pittore più di quanto non lo sia per salvare un padre di famiglia, cosa a cui c’è solo un fugare accenno, ma non sarebbe stato molto più efficace capire in che cosa credevano alcuni di questi pensatori che la Gestapo aveva nella propria lista nera? Sappiamo di Hannah Arendt, ad esempio, quello che sapevamo prima di aver visto la serie. Non ci si poteva sforzare di far capire perché ha avuto valore per l’umanità attivarsi a favore di questi specifici ebrei invece di altri, qual è stato il loro contributo? Tanto più nella prospettiva che dicono di abbracciare, ovvero quella di vedere il passato come metafora della contemporaneità. Apprezzabile, se non altro, che si sia visto che fra i perseguitati dai nazisti c’erano anche gli omosessuali, quando normalmente si riduce troppo facilmente tutto solo all’ebraicità.

Si tratta perciò di 7 puntate che scorrono con piacevolezza, ma che deludono e si lasciano sfuggire troppe occasioni per un impatto empaticamente, eticamente, esteticamente e culturalmente più incisivo.  

venerdì 12 maggio 2023

Su MILANOW si è parlato di ME/CFS

Oggi, 12 maggio, si celebra la giornata internazionale di sensibilizzazione sulla Encefalite Mialgica / Sindrome da Fatica Cronica, di cui soffro. Colgo perciò quest’occasione per segnalare un’intervista televisiva a cui ho partecipato, insieme al professor Umberto Tirelli, su Milanow, lo scorso 20 febbraio: qui (e sotto). La registrazione è stata fatta da una paziente, come meglio è riuscita.

La giornalista Graziella Matarrese ha fatto a nostro parere davvero un bel lavoro. Non ci eravamo accordati con lei, ma con una collega che non ha potuto poi esserci perché malata, e lei ha dovuto “improvvisare” ed è stata acuta e pregnante come in poche occasioni ci è capitato. Per una volta abbiamo davvero potuto sviscerare l’argomento a dovere. Questo è un vantaggio spesso trascurato di trasmissioni di reti minori che posso permettersi il lusso di dedicare tempo ad approfondire i temi di cui trattano.

Per un inghippo noi non potevamo vedere lei, solo sentirla, e vedevamo solo noi stessi, e l’illuminazione da parte nostra non era certo ideale, ma come paziente e come persona che da anni è impegnata nella sensibilizzazione su questo tema, sono rimasta veramente soddisfatta del servizio reso dalla televisione.  

Per ulteriori informazioni sulla patologia, si visiti www.stanchezzacronica.it.

martedì 2 maggio 2023

ABBOTT ELEMENTARY: per me bocciata

Con rammarico devo dire che, dopo aver seguito l’intera prima stagione, non condivido il grande entusiasmo che tutta la critica sembra aver riservato per Abbott Elementary (in Italia su Star di Disney+), sit-com pluripremiata. Forse mi sfugge quanto pregnante sia per la realtà che ritrae. È chiaro che è una lettera d’amore ai tanti insegnanti che con molta dedizione e spirito di sacrificio lavorano nella scuola primaria pubblica, evidenziando le difficoltà che incontrano, ma al di là del sentimento apprezzabile, i personaggi sono troppo bidimensionali e l’umorismo appena percepibile.

Siamo in una scuola pubblica di Philadelphia a maggioranza nera, la Willard R. Abbott Elementary School, dove una troupe (che non vediamo) sta registrando un documentario: come di prammatica, gli insegnanti spesso parlano come rivolti a una telecamera per spiegare alcune cose o vi rivolgono sguardi di commento. Le condizioni sono dure: sono pieni di lavoro, sottofinanziati, con una preside incompetente e vanesia che ha ottenuto il posto solo perché ha ricattato il responsabile che doveva scegliere chi assumere, a scapito di uno di loro che ora è lì supplente.

Janine (Quinta Brunson, che è anche ideatrice) è una maestra di seconda elementare di gran cuore e con molto ottimismo, che ci mette sempre tutta sé stessa per aiutare i propri studenti anche a rischio di strafare. Come modello, quasi una mamma sul posto di lavoro, ha Barbara Howard (una magnifica Sheryl Lee Ralph), un'insegnante d'asilo di grande esperienza, e la più rispettata. Pure entusiasta è Jacob (Chris Perfetti), mentre smaliziata e con contatti con la mala locale che usa a fin di bene è Melissa Schemmenti (Lisa Ann Walter). Come supplente arriva Gregory (Tyler James Williams) che ha una cotta per Janine e rimane sempre in imbarazzo per le sgradite avance e ammiccamenti di Ava (Janelle James), l'inetta, egocentrica e narcisa preside. Chiude il gruppo il bidello Mr. Johnson (William Stanford Davis).

Ha un che di sapore antico questa workplace comedy, come venivano confezionate una vota, e portandoci in una scuola elementare ci conduce in un ambiante che, in linea di massima, abbiamo frequentato un po’ tutti, anche se evidentemente non dalla parte degli insegnanti. Vuoi tifare per loro e per loro determinazione di fronte a costanti frustrazioni. Le storie sono quotidiane, ruotano intorno ad avere nuove attrezzature per i propri studenti, a coinvolgere il genitore assente, a motivare i bambini…e imparano loro stessi giorno per giorno che cosa funziona e che cosa no: racconta di vita vera, con gli sguardi in camera tipici dei mockumentary che coinvolgono lo spettatore nei propri sentimenti di imbarazzo o incredulità, vago disprezzo per quello che devono sopportare o in cerca d’intesa - Tyler James Williams è particolarmente esilarante in questo, per quanto tutti siano molto efficaci sotto questo aspetto. Gli attori hanno un ritmo ineccepibile e concordo in pieno con chi vi ha ritrovato il senso di comunità di Parks and Recreation. Sono reali e sono veri. Solo, non fanno ridere.

Ho letto varie recensioni per cercare di capire la magia di questa serie per cui tutti si sperticano in lodi e che evidentemente fa sganasciare tutti tranne me, che al massimo abbozzo qualche sorriso qui e lì. E pure tirato. Qualche occasionale battuta c’è anche, ma se la gran parte delle scene sono per me passabili, quelle con Ava sono addirittura inguardabili: ora che si può usare questo termine anche in italiano, posso dire cringy all’ennesima potenza.

Forse, come il personaggio di “Gifted Program” (1.06) loro sono solo troppo avanti e io non riesco a rendermi conto della loro genialità, ma per me bocciati. Per chi lo apprezza però c'è una seconda stagione e, visti i premi ricevuti, non dubito ce ne saranno anche a venire.