lunedì 15 maggio 2023

TRANSATLANTIC: il salvataggio di intellettuali ebrei durante il nazismo

Siamo nella Marsiglia del 1940 occupata dai nazisti, dopo la caduta di Parigi, nella miniserie di Netflix Transatlantic, ideata da Anna Winger (Unorthodox) e Daniel Hendler sulla base del romanzo The Flight Portfolio (2019) di Julie Orringer e di fatti realmente accaduti. Si tratta di una coproduzione internazionale e multilingue (inglese, francese, tedesco…).

Il giornalista Varian Fry (realmente esistito, e interpretato da Cory Michael Smith; Gotham) e l’ereditiera  Mary Jayne Gold (realmente esistita, a cui dà il volto Gillian Jacobs, Community), due americani che si trovano in Europa in quella buia epoca,  operano per l’Emergency Rescue Committee (il Comitato di Soccorso d'Emergenza) con l’obiettivo di far fuggire e mettere al sicuro quante più persone possibile prese di mira dal governo nazista (nella realtà ne riuscirono a salvare circa 2000), in particolare intellettuali come Hannah Arendt, Walter Benjamin, Marc Chagall e sua moglie, Marcel Duchamp, Max Ernst, Peggy Guggenheim, Walter Mehring, Victor Serge... Cercano di procurare visti, organizzare viaggi in nave, far arrivare i rifugiati in Spagna attraverso le montagne dei Pirenei, far uscire dal carcere prigionieri politici. Ad aiutarli ci sono in particolare Albert Hirschman (pure realmente esistito, e qui interpretato da Lucas Englander), un rifugiato ebreo tedesco in fuga dalle persecuzioni naziste dal 1933, di cui Mary Jayne si innamora, e Lisa Fittko (pure lei esistita, qui con il volto di Deleila Piasko), una ribelle antifascista, e dopo che la base delle loro operazioni, l'Hotel Splendide, viene saccheggiato dalla polizia, anche Thomas Lovegrove (un personaggio inventato, Amit Rahav)  vecchio amore di Varian (sulla base di effettiva documentazione che Fry aveva avuto numerosi amanti uomini), che offre la sua casa di campagna, Villa Air-Bel. Insieme a loro anche alcuni africani, come Paul Kandjo (Ralph Amoussou).  Il console americano Graham Patterson (Corey Stoll, House of Cards) si trova in una situazione ambigua, vista la neutralità degli Stati Uniti, che a questo punto ancora dovevano entrare in guerra.

Sembra un’elettrizzante avventura quella che i protagonisti qui ritratti si trovano a vivere: questa è stata la sensazione di fondo che ho percepito e che mi è parsa completamente inappropriata. Si sente molto poco il senso del pericolo e il senso politico e valoriale delle forze in campo. So di non essere stata l’unica a notarlo, anche se non arrivo a considerarlo l’insulto alla memoria di chi ha vissuto quegli eventi perché, anche grazie allo speciale dietro le quinte che accompagna la produzione, mi sono resa conto che è stato programmatico. L’obiettivo della produzione era quello di creare uno “screwball melodrama”, quindi un melodramma con una certa leggerezza e qualche momento tinto di umorismo, facendo riferimento anche alle opere cinematografiche dell’epoca. Si nota molto poco, in realtà, e non si viene mai stupiti dalla eleganza o dall’originalità della cinematografia, che invece di puntare a qualcosa di raffinato come fa la meritevole sigla di chiusura di ogni puntata, ci propone quasi un’estetica da soap opera europea. Anche le ambientazioni naturalistiche, stupende, in contrasto con gli orrori di cui sono teatro, non riescono mai a diventare personaggio, ad imporsi in dicotomia.

“Le persone pensano di non poter far nulla per cui non fanno nulla”, si fa dire a Mary Jayne ad un certo punto. Se è vero che riescono a mostrare che essere eroi non significa essere invulnerabili figure esemplari ma persone reali con difetti e problematiche che cercano di fare del proprio meglio e incappano in errori anche gravi, non si dà un senso etico ed intellettuale di maggior spessore che facilmente si sarebbe potuto avere dalla presenza di nomi così altisonanti. Già non è così moralmente scontato che vada bene battersi per salvare un pittore più di quanto non lo sia per salvare un padre di famiglia, cosa a cui c’è solo un fugare accenno, ma non sarebbe stato molto più efficace capire in che cosa credevano alcuni di questi pensatori che la Gestapo aveva nella propria lista nera? Sappiamo di Hannah Arendt, ad esempio, quello che sapevamo prima di aver visto la serie. Non ci si poteva sforzare di far capire perché ha avuto valore per l’umanità attivarsi a favore di questi specifici ebrei invece di altri, qual è stato il loro contributo? Tanto più nella prospettiva che dicono di abbracciare, ovvero quella di vedere il passato come metafora della contemporaneità. Apprezzabile, se non altro, che si sia visto che fra i perseguitati dai nazisti c’erano anche gli omosessuali, quando normalmente si riduce troppo facilmente tutto solo all’ebraicità.

Si tratta perciò di 7 puntate che scorrono con piacevolezza, ma che deludono e si lasciano sfuggire troppe occasioni per un impatto empaticamente, eticamente, esteticamente e culturalmente più incisivo.  

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