sabato 30 dicembre 2017

Il MEGLIO del meglio delle serie del 2017


Qual è il meglio delle serie del 2017? Metacritic ha compilato una lista unendo le liste individuali di migliori programmi del’anno di oltre 90 critici televisivi, attribuendo 3 punti per ogni primo posto, 2 punti per ogni secondo posto, un punto per le posizione da 3 a 10, e mezzo punto per le posizioni fra 11 e 20.  

L’elenco completo lo trovate al link, qui sotto vedete le prima 10 posizioni (NB. La lista viene aggiornata fino a gennaio, per cui potrebbe subire delle variazioni rispetto a quanto riportato qui sotto in questo momento, per cui, per una versione aggiornata, consiglio di seguire eventualmente il link).


  1. The Leftovers
  2. Twin Peaks
  3. Big Little Lies e, a pari merito, The Good Place

  1. The Handmaid’s Tale
  2. Better Things
  3. The Deuce
  4. Better Call Saul
  5. Legion
  6.  Master of None e, a pari merito, GLOW

giovedì 28 dicembre 2017

Le MIGLIORI NUOVE SERIE del 2017, secondo me


Come ogni anno scelgo quelle che per me sono state le migliori nuove serie dell’anno,  anche se questo significa che lascerò fuori serie potenzialmente ottime che non ho ancora avuto modo di guardare. L’offerta televisiva è sempre più generosa e si affoga nella quantità di materiale. Meglio così, di fatto, ma è frustrante ugualmente non riuscire a stare dietro a tutto. Ugualmente, mi rammarico di non poter segnalare serie davvero ottime – The Leftovers, The Good Place (qui parlavo della prima stagione), The Young Pope, Insecure, American Crime, Master of None… - che hanno debuttato in altre annate, ma per queste le varie liste dei molti critici televisivi credo possano essere un buon faro.  

Fra le migliori serie dell’anno scelgo:

  • The Handmaid’s Tale: ne ho parlato qui, dove c’è anche il link al saggio che ho scritto in proposito per Osservatorio TV. Parecchi hanno ritenuto che la serie subisse un calo nella seconda parte e che avesse episodi poco convincenti (la puntata in cui si parla del marito, ad esempio), ma io non ho avuto la stessa percezione.

  • Big Little Lies: ne ho parlato qui. E sono lieta della recente notizia che conferma una seconda stagione.

  • The Deuce: ne parlerò a breve (e semmai successivamente metterò un link anche qui), ma l’approccio sociologico di David Simon regala una gemma anche in questa nuova opera che parla di prostituzione e pornografia negli anni ’70.

  • Legion: ne ho parlato qui. Più di qualcuno alla fine è rimasto deluso. Io non ci ho solo visto una storia di “David è pazzo / non è pazzo”, come sono state spesso percepite le vicende. Direi che parla di come ciò che definiamo pazzia a volte è genio, e la serie si interroga se sappiamo riconoscerlo; della labilità del confine fra normalità e pazzia; del ruolo della famiglia nella definizione di chi siamo cognitivamente e psicologicamente; dei vari abbandono/adozione (e anche della componente genetica / ambientale); dell'infanzia come terreno in cui seminare e far germogliare paure e strategie per affrontarle; del fatto che i mostri peggiori sono quelli interiori; della "coabitazione" con i propri mostri; di alienazione; dei luoghi di fantasia come porto sicuro, ma come possibili trappole seduttive; del mettersi nei panni degli altri (anche con la coppia che divide il corpo); della mutabilità dei ricordi; della gestione di rabbia/paura; in fondo anche della capacità di ospitare diversi personaggi nella propria mente... Concordo con chi rimprovera il fatto che contenutisticamente si è stati forse un po’ superficiali e che si poteva approfondire di più, ma mi pare che carne al fuoco ne sia stata messa parecchia. E la forma è anche contenuto e formalmente la serie ha osato molto e con successo. Dan Stevens poi, con il suo tono vagamente ironico-umoristico, ha fatto un lavoro davvero egregio.

  • The Marvelous Ms Maisel: è arrivata in coda d’anno, non ho terminato di vederla e mi riprometto di scriverci in futuro, ma per quello che ho potuto vedere, la nuova serie Amazon firmata da Amy Sherman Palladino (Gilmore Girls, Bunheads) è fra le sue migliori.

  • Alias Grace: narrativamente non ho apprezzato la fine, ma la “colpa” non è della versione televisiva ma dall’omonimo testo di Margaret Atwood da cui è tratta, ma le vicende della domestica accusata di omicidio della coppia per cui lavorava ambientata nel Canada di metà dell’’800 è stata impeccabilmente recitata e girata, ed è stata coinvolgente e sottile.

  • Back: ho scoperto questa sit-com britannica di 6 puntate ideata da Simon Balckwell (Veep) grazie alla entusiasta recensione di Tim Goodman su The Hollywood Reporter, che lo ha posizionato addirittura quarto nella sua scaletta (di 46 titoli) delle migliori serie dell’anno. Il titolare di un pub, Stephen (David Mitchell), in seguito alla perdita del padre dovrebbe diventarne il gestore unico, sennonché si presenta un (presunto?) figlio affidatario, Andrew (Robert Webb), che per la famiglia sembra fare e dire sempre la cosa giusta e diventa l’eroe di tutti, lasciando il protagonista schiacciato dall’insignificanza e dell’invidia, perenne perdente su ogni fronte, defraudato del ruolo che gli spetta di diritto. Rimiamo sempre nel dubbio che Andrew sia un imbroglione. Tanto amaro quanto esilarante.

Menzioni onorevoli per me vanno a:

Tredici (che non credo sia entrato nella lista di migliori serie di nessuno, ma che per me ha trattato un argomento solitamente tabù in modo intelligente, ed è diventato un importante argomento di discussione); 
Downward Dog (cancellato troppo presto); 
Chiamami Anna (sarà che non ne ho viste altre versioni, ma questa, per ragazzi, si è saputa distinguere ai miei occhi);
GLOW; 
Dear White People (di cui parlerò prossimamente).


E voi? Quali giudicate le migliori serie del 2017?

mercoledì 27 dicembre 2017

I programmi USA più visti nel 2017


Quali sono stati i programmi americani della TV dei network più visti (negli USA) nel 2017? Entertainment Weekly indica i primi 75 (con tanto di numeri sugli spettatori che ciascun programma raccoglie). Sotto sono elencati i primi 10, e per la lista completa si può vedere qui.

1. NBC NFL Sunday Night Football (18.2 millioni)
2. The Big Bang Theory (18 millioni)
3. The Good Doctor (16.7 millioni)
4. This Is Us (16.6 millioni)
5. NCIS (16.5 millioni)
6. Young Sheldon (15.8 millioni)
7. CBS Thursday Night Football (14.2 millioni)
8. Bull (13.8 millioni)
9. NBC Thursday Night Football (13.4 millioni)
10. NBC NFL Sunday Night Pre-Kick (13.2 millioni)


sabato 23 dicembre 2017

I migliori programmi del 2017 secondo THR e VARIETY


Quali sono stati i migliori programmi TV secondo i critici di due delle bibbie del mondo dello spettacolo?

Secondo The Hollywood Reporter:

  • Tim Goodman come ogni anno non si limita a dieci titoli, ma segnala tutti quelli che giudica meritevoli, in questo caso ben 46. Nell’ordine sono: 1.The Leftovers; 2. The A Word ; 3. The Vietnam War; 4. Back; 5. Halt and Catch Fire; 6. Patriot; 7. Better Things; 8. Game of Thrones; 9. Get Shorty; 10. Planet Earth II; 11. The Deuce; 12. Veep; 13. Better Call Saul; 14. Legion; 15. The Americans; 16. Black Mirror; 17. Mr Robot; 18. Master of None; 19. Fargo; 20. Guerrilla; 21. Humans; 22. Crazy Ex-Girlfriend; 23. Silicon Valley: 24. People of Earth; 25. Mindhunter; 26. American Vandal; 27. The Handmaid’s Tale; 28. Stranger Things; 29. It’s Always Sunny in Philadelphia; 30. GLOW; 31. Insecure; 32. Casual; 33. Orphan Black; 34. The Good Place; 35. You’re the Worst; 36. Manhunt: Unabomber; 37. Catastrophe; 38. Dear White People; 39. The Tick; 40. Bob’s Burger; 41. Brookly Nine-Nine; 42. Sneaky Pete; 43. Mr Mercedes; 44. SMILF; 45. Jane the Virgin; 46. Godless.

  • Daniel Fienberg invece sceglie: 1. Better Things; 2. Halt and Catch Fire; 3. The Leftovers; 4. Better Call Saul; 5. Baskets; 6. The Vietnam War; 7. Lady Dynamite; 8. Fargo; 9. The Good Place; 10. The Rundown with Robin Thede (BET).

Secondo Variety:

  • Maureen Ryan sceglie: 1. The Leftovers; 2. One Day at a Time; 3. The Good Place; 4.Halt and Catch Fire; 5.Crazy Ex-Girlfriend; 6. Jane the Virgin, 7. Better Things; 8. Alias Grace; 9. American Vandal; 10. Brooklyn Nine-Nine ; 11. Into the Badlands; 12. Superstore; 13. The Handmaid’s Tale; 14. Insecure; 15. Big Little Lies, 16. Top of the Lake: China Girl, 17. Black-ish; 18. Wynonna Earp; 19. One Mississippi; 20. Mary Kills People.

  • Sonia Saraiya sceglie: 1. The Leftovers; 2. The Crown; 3. Halt and Catch Fire; 4. Twin Peaks; 5. Big Little Lies , 6. Rick and Morty; 7. Alias Grace; 8. The Marvelous Mrs. Maisel; 9. Better Things; 10. BoJack Horseman; 11. Planet Earth II; 12. American Vandal; 13. Crazy Ex-Girlfriend; 14. Star Trek: Discovery, 15. The Keepers, 16. Broad City, 17. Dear White People; 18. The Handmaid’s Tale; 19. The Deuce; 20. GLOW; 21. The Good Place; 22. Better Call Saul; 23. Insecure; 24. One Day at a Time; 25. Marvel’s The Punisher.

mercoledì 20 dicembre 2017

VICTORIA: la seconda stagione


La seconda stagione di Victoria, che è previsto debutti in Italia (su Laeffe) il 29 dicembre, si apre praticamente senza soluzione di continuità con la prima stagione, ovvero riprende da subito dopo il primo parto della regina.

Politicamente, la crisi maggiore che si trova ad affrontare è quella di una cocente sconfitta in Afghanistan, in quello che era chiamato il “Grande Gioco”, durante la quale gli inglesi persero oltre 4000 militari e furono uccisi tutti tranne uno, il dottor William Brydon, che la regina riceve in visita (2.01). Victoria (o Vittoria, all’italiana) si sente messa da parte, anche dal marito Albert, con la scusa del suo nuovo ruolo di madre, e a questo proposito saggiamente si continua a toccare un tema – quello della donna come genitrice – in modo originale e acuto.

La sua scarsa propensione alla maternità viene evidenziata dalle primissime scene: si libera immediatamente dell’infante come di un peso, consegnata senza indugio a una balia, mentre si prende in grembo l’amato cagnolino Dash. Frena ogni entusiasmo di Albert che ammira gli occhi azzurri della piccola figlia, osservando bizzarramente che tutti i bambini hanno gli occhi azzurri alla nascita, e ad un’amica chiede se i suoi figli le siano piaciuti da subito, perché è evidente che non è così per lei. Questa le risponde che sono gioia, ma anche sacrificio. Si potrebbe dire che è quasi rivoluzionario vedere in TV una donna che non desidera necessariamente avere dei figli, come se fosse qualcosa di inevitabile per tutte, – anche se poi finirà per averne nove, come sappiamo -, ed è una rappresentazione benvenuta.  Così come è inusuale vedere situazioni in cui una donna è più scaltra sul piano politico e l’uomo su quello domestico, ma è proprio quello che accade In “The Luxury of Coscience” (2.08), che mostra contemporaneamente lo scontro personale fra i due coniugi che notoriamente avevano una relazione molto focosa, sia in positivo che in negativo.  Albert va in parlamento contro il volere della sua sposa e danneggia così  i progressi fatti dal primo ministro, Sir Peel (Nigel Lindasy), che si oppone alle Leggi sul Grano, in un profondo momento di crisi per la sua carriera e per il Paese. A Palazzo, la primogenita Vicky rischia la vita per la febbre alta, perché Victoria ha preferito dare ascolto alla donna che l’ha cresciuta, Lehzen (Daniela Holtz), piuttosto che al marito, che le raccomandava di tenerla distante dalle correnti d’aria. Ciascuno, intestardito sulla propria posizione, fa un errore di valutazione, e poi lo rimpiange ammettendo la propria leggerezza.

Nondimeno si celebra anche la femminilità di Vittoria. Nel libro “compagno ufficiale della serie“ intitolato “Victoria & Albert: A Royal Love Affair”,  Daisy Goodwin, ideatrice della serie e sceneggiatrice di quasi tutte le puntate (solo tre, nelle prime due stagioni, non sono state scritte da lei), dice: “Quello che rende Victoria così interessante è che invece di fingere di essere un uomo come la sua celebrata predecessora Elisabetta I, che ha famosamente fatto un discorso dichiarando che aveva ‘il corpo di una donna debole e malaticcia, ma il cuore e lo stomaco di un re’, Victoria ha trovato un modo di governare come donna, non come surrogato di uomo. Non si vestiva con l’equivalente vittoriano di un abito di potere, ma ha continuato ad indossare la cuffietta per tutta la durata del suo regno. Victoria ha mostrato al mondo che era possibile essere una moglie, una madre e anche la donna più potente al mondo. Questo è il motivo, per me, per cui è un’eroina così sorprendente e di ispirazione”. (posizione 189 dell’Edizione Kindle, mia traduzione)

Quattro morti si verificano nel corso della stagione (le più significative in 2.03 e 2.08), ma non per questo la serie diventa tetra. Lì dove non si risparmia è nella rappresentazione della carestia irlandese del 1845 (2.06) che ha fatto morire un milione di persone e ne ha fatte emigrare almeno altrettante. Molti cittadini inglesi sono rimasti scioccati della messa in scena anche perché, a quanto pare, è assente dai libri di testo che studiano a scuola. Alcuni considerano questi eventi storici l’equivalente di un genocidio perpetrato volontariamente dall’ottusità e dall’atteggiamento apatico dei leader britannici che ritenevano la carestia come un giudizio divino e come un modo efficace di ridurre i problemi di sovrappopolazione, argomentazioni che sono state messe in bocca al personaggio di Sir Charles Trevelyan sulla base di documenti storici. A portare avanti le richieste degli irlandesi, nei confronti della cui situazione la regina si mostra empatica, è un giovane predicatore della Contea di Cork, il dottor Robert Traill (Martin Compston), che mette da parte il contrasto con la popolazione cattolica per andar in aiuto dei propri parrocchiani (con il ruolo del conflitto religioso efficacemente messo in scena come componente degli eventi). Si tratta di una persona realmente esistita, e quadrisavolo di Daisy Goodwin (RTE). Interessi personali e pubblici si intersecano – Sir Peel è lacerato fra quello che ritiene giusto e la lealtà al suo partito ; e quello che accade a livello nazionale accade nel microcosmo del palazzo reale - di fronte alla sofferenza di Cleary (Tilly Steele) che proviene dall’Irlanda ed è in ansia per la propria famiglia si vede l’ostilità di Penge (adrian Schiller), che le rifiuta un anticipo sulla paga, e di contro la generosità di Francatelli (Ferdinand Kingsley).

Questa stagione è molto attenta a mostrare, di fronte allo sfarzo della vita dei reali, la povertà, quando non proprio la miseria, della gente dell’epoca. Come ricorda nella sua biografia sulla regina A.N. Wilson, che è consulente della serie, Vittoria è ascesa al trono in tempi di fame, e la monarchia non era popolare nelle prime decadi del diciannovesimo secolo. Nell’Inghilterra di quel tempo lo stesso Parlamento era rappresentativo, ma non democratico: il potere lo aveva un’oligarchia formata dall’aristocrazia terriera. Nella vicina Francia non era molto che era saltata la testa di Maria Antonietta in seguito alla Rivoluzione Francese. Gli inglesi non erano intenzionati a fare lo stesso, ma gli echi di quell’evento si sentivano bene. E questa scollatura con la gente comune è molto evidente in “Warp and Weft” (2.03), quando la regina, contro il parere di Albert e dello stesso primo ministro, organizza un ballo di corte molto sontuoso per aiutare i tessitori di seta di Spitalfields. Il lusso delle tavolate è messo ben in contrasto con la fame del popolo, e la distanza fa chi governa, pure ben intenzionato, e chi è governato appare dolorosamente evidente. 

Questa stagione ha un respiro più vasto non solo per i rapporti con Coburgo e la Germania già esplorati, ma anche per quelli con la Francia (2.05) e la Scozia (2.07) in una puntata che davvero, come ho già osservato in merito alla prima stagione, con la bucolica fuga di qualche ora della regina ha avuto il sapore dei vecchi film sulla principessa Sissi. E la passione per la tecnologia e le innovazioni mostrata con l’entusiasmo di Albert per i treni nella prima stagione è stata qui ripresa con la fugace comparsa (1.02) del personaggio di Lady Lovelace (Emerald Fennell), nota matematica ideatrice del primo prototipo di computer nonché figlia di Lord Byron.

Con originalità si è trattata la storia dell’amore fra Drummond (Leo Suter) e Lord Alfred Paget (Jordan Waller), visti come moderni Achille e Patroclo, se non altro perché è stata molto inattesa la reazione comprensiva dei personaggi che sono venuti a saperlo e ancora più per come è stata usata la Bibbia: citata per commentare la relazione omosessuale, ci sia aspetta di default una condanna, ma invece viene utilizzata come riconoscimento di un amore molto profondo. Inusuale ed efficace.
Si è sempre prestata attenzione alla correttezza storica. Un ladruncolo che riesce a infiltrarsi a palazzo nascondendosi negli armadi (2.02) è storia vera. Ci si è chiesti se lo sia anche il sospetto insinuato (2.04) che Albert non sia figlio del proprio padre, ma di zio Leopold. Non è provato, ma dubbi sulla paternità del giovane sono stati sollevati in più di un’occasione, in considerazione della natura del rapporto dei suoi genitori e del fatto che, in effetti, hanno divorziato. Qui comunque, ci si è presi una licenza poetica nel tirare un po’ la realtà verso speculazioni nell’ambito del possibile, così come era avvenuto nel dipingere il rapporto fra Victoria e Lord Melboune, uscito di scena in questo arco.

Come già per Downton Abbey, che la serie continua a richiamare in alcuni suoi tratti, Victoria ha in previsione una puntata speciale natalizia. È stata comunque già confermata per una terza stagione.  

venerdì 15 dicembre 2017

I migliori programmi del 2017 secondo TV GUIDE, TV GUIDE MAGAZINE ed EW


I migliori programmi del 2017 sono stati…

Secondo TV Guide (tutti i redattori): 1. The Good Place (NBC); 2. Big Little Lies (HBO); 3. The Handmaid's Tale (Hulu); 4. The Leftovers (HBO); 5. Master of None (Netflix); 6. This Is Us (NBC); 7. Last Week Tonight With John Oliver (HBO); 8. Legion (FX); 9. Better Call Saul (AMC); 10. Stranger Things (Netflix). E per le altre posizioni (fino alla 25), si veda qui.

Secondo Matt Roush di TV Guide Magazine sono: 1. The Handmaid's Tale (Hulu); 2. Game of Thrones (HBO); 3. FEUD: Bette and Joan (FX); 4. The Vietnam War (PBS); 5.Ozark (Netflix); 6. Master of None (Netflix); 7. Downward Dog (ABC); 8. Big Little Lies (HBO); 9. This Is Us (NBC); 10.The Middle (ABC).


Secondo Darren French di Entertainment Weekly: 1. GLOW (Netflix); 2. Twin Peaks (Showtime); 3. Big Little Lies (HBO); 4. The Good Place (NBC); 5. Rick and Morty (Adult Swim); 6. Insecure (HBO); 7. The Handmaid's Tale (Hulu); 8. DuckTales (Disney XD); 9. American Crime (ABC); 10. Mr. Robot (USA). Per le ragioni delle scelte e per la lista dei peggiori, si veda qui

lunedì 11 dicembre 2017

GOLDEN GLOBE 2018: le nomination



Sono state annunciate le nomination per i 75esimi Golden Globe, premi della stampa straniera presente ad Hollywood, che verranno consegnati in una cerimonia il 7 gennaio 2018.
Di seguito trovate quelle per le categorie televisive:


Miglior serie TV - Drama

The Crown
Game of Thrones
The Handmaid's Tale
Stranger Things
This Is Us

Miglior performance di un’attrice in una serie TV – Drama

Caitriona Balfe, "Outlander"
Claire Foy, "The Crown"
Maggie Gyllenhaal, "The Deuce"
Katherine Langford, "13 Reasons Why"
Elisabeth Moss, "The Handmaid's Tale"

Miglior performance di un attore in una serie TV – Drama

Sterling K. Brown, "This is Us"
Freddie Highmore, "The Good Doctor"
Bob Odenkirk, "Better Call Saul"
Liev Schreiber, "Ray Donovan"
Jason Bateman, "Ozark"

Miglior serie TV - Musical o Comedy

Black-ish
The Marvelous Mrs. Maisel
Master of None
SMILF
Will & Grace

Miglior performance di un attore in una serie TV - Musical o Comedy

Anthony Anderson, "Black-ish"
Aziz Ansari "Master of None"
Kevin Bacon, "I Love Dick"
William H. Macy, "Shameless"
Eric McCormack, "Will and Grace"

Miglior performance di un’attrice in una serie TV - Musical o Comedy

Pamela Adlon, "Better Things"
Alison Brie, "Glow"
Issa Rae, "Insecure"
Rachel Brosnahan, "The Marvelous Mrs. Maisel"
Frankie Shaw, "SMILF"

Limited Series o Film per la TV  

"Big Little Lies"
"Fargo"
"Feud: Bette and Joan"
"The Sinner"
"Top of the Lake: China Girl"

Miglior  Performance di un attore in una Limited Series o Film per la TV
Robert De Niro, "The Wizard of Lies"
Jude Law, "The Young Pope"
Kyle MacLachlan, "Twin Peaks"
Ewan McGregor, "Fargo"
Geoffrey Rush, "Genius"

Miglior  Performance di un’attrice in una Limited Series o Film per la TV

Jessica Biel, "The Sinner"
Nicole Kidman, "Big Little Lies"
Jessica Lange, "Feud: Bette and Joan"
Susan Sarandon, "Feud: Bette and Joan"
Reese Witherspoon, "Big Little Lies"

Miglior  Performance di un attore non protagonista  in una Limited Series o Film per la TV

Alfred Molina, "Feud"
Alexander Skarsgard, "Big Little Lies"
David Thewlis, "Fargo"
David Harbour, "Stranger Things"
Christian Slater, "Mr. Robot"

Miglior  Performance di un’attrice non protagonista in una Limited Series o Film per la TV

Laura Dern, "Big Little Lies"
Ann Dowd, "The Handmaid's Tale"
Chrissy Metz, "This is Us"
Michelle Pfeiffer, "The Wizard of Lies"
Shailene Woodley, "Big Little Lies"


Per la lista completa dei nominati (che comprende il cinema), si veda qui

venerdì 8 dicembre 2017

I 10 programmi dell'anno secondo l'AFI


L’American Film Insitute (AFI) ogni anno premia i programmi televisivi e i film che ritiene culturalmente e artisticamente più significativi, ed è l’unica “onorificenza” che dà un riconoscimento ai team creativi dell’intrattenimento nel loro complesso, come modo di riconoscere la natura collaborativa di questa forma d’arte.
I programmi televisivi del’anno per il 2017 sono stati valutati, in ordine alfabetico:

Big Little Lies
The Crown
Feud: Bette and Joan
Game of Thrones
The Good Place
The Handmaid's Tale
Insecure
Master of None
Stranger Things 2
This is Us

L’AFI Special Award è invece andato a: The Vietnam War.

L’elenco dei film giudicati più meritevoli si può trovare qui

mercoledì 6 dicembre 2017

THE STATE: cittadini britannici si uniscono allo Stato Islamico


Non è una visione facile quella The State, il drama in 4 puntate del canale inglese Channel 4, perché mostra una realtà distopica che  purtroppo non è uno scenario di fantasia. Ma se non ci si limita alla prima puntata, e si seguono i percorsi dei personaggi fino alla fine, la visione di questa creazione di Peter Kosminsky (Wolf Hall) è appagante e rivelatoria.

Siamo nel 2015 e alcuni cittadini britannici musulmani decidono di trasferirsi nella città siriana di Raqqa per unirsi al al-Dawla al-Islāmiyya, ovvero allo Stato Islamico. Jalal (Sam Otto) lo fa per seguire le orme del fratello che pensa sia stato un martire della causa, ma poi scopre una realtà diversa (che illustra come la verità sia molto più complessa); con lui va anche il suo amico Ziyad (Ryan McKen);  l'adolescente Ushna (Shavani Cameron) sogna di diventare “una leonessa fra leoni”; la dottoressa Shakira (una eccellente Ony Uhiara), madre single del giovane Issac, crede nella causa, e spera di poter usare sul campo le proprie capacità mediche. Le è stato detto che poteva farlo, finché Umm Walid (Jessica Gunning), la convertita americana che riceve le donne e che chiama tutti “tesoro”, non le esplicita che in realtà dipenderà dal volere del suo futuro marito, a cui sarà sottomessa.

Nella prima puntata vediamo i protagonisti passare il confine dal sud-est della Turchia, e venire accolti. Vengono subito spiegate loro le regole: vengono fotografati, non possono usare il telefono, le donne devono rimanere sempre interamente coperte tranne gli occhi in presenza di uomini (possono essere se stesse solo quando sono in compagnia di altre donne), non possono rimanere single quindi devono cercarsi presto un uomo, che dal canto suo può avere più di una moglie. Seguono l’addestramento e la preparazione, e l’indottrinamento, con roghi di libri e spari di mitra. Si impara che diventare un dunyah, un martire, è desiderabile - e le donne al cui marito tocca questa sorte vengono fatte le congratulazioni, oltre che consegnata una somma di denaro. Lo scopo ultimo è quello di provocare l’Occidente perché solo nell’“ora più nera” loro potranno prevalere. Alle donne viene detto che il loro compito non è in prima linea, osservando, senza ironia, che “che cosa potete fare che gli uomini non possano fare meglio?” (1.01). Il pilot si chiude con il giuramento dei nuovi arrivati, con un’aria quasi di festa per le “sorelle” fra loro e i “fratelli” fra loro. Da qui in poi c’è una cruda quotidianità di brutalità e orrori che fanno vedere la causa per quella che è, mostrando la de-umanizzazione in atto, e portando al crollo delle illusioni per ciascuno di loro.

Il primo elemento da notare è che i protagonisti principali (Jalal, Ushna e Shakira) sono mostrati non come mostri ma come persone “normali”, umane. Le caratterizzazioni di ciascuno sono estremamente tridimensionali. Una critica che è stata mossa, fondata, è che si scava poco sulle ragioni che li hanno spinti a fare quella scelta così drastica. Un elemento in comune è un rapporto abbastanza lasso con la propria fede perché, a quanto riporta l’autore, gli studi mostrano che più profonde sono la conoscenza e la comprensione dell’Islam, meno probabile è che le persone intraprendano questo tipo di viaggio. Quello che li spinge è più il senso di isolamento che vivono nella propria vita, la mancanza di una comunità dedicata a una causa che trovano qui (RadioTimes) E ricerca gli autori ne hanno fatta molta per questa serie: il team ha trascorso 18 mesi di indagine meticolosa per ricostruire la vita degli jihadisti britannici e delle donne del Califfato, incluso parlare con persone che la scelta di andare (e tornare) l’hanno fatta sul serio nella vita.   

Uno degli aspetti più pregnanti e autoevidenti è quello della misoginia: intensa, obliqua, pervasiva, reiterata, nel domestico e nel sociale, nel microscopico e nel macroscopico. Viene in mente in parallelo The Handmaid’s Tale in più di un’occasione. E si mostra in modo molto chiaro come per perpetuare questa concezione sia necessaria la collaborazione delle donne stesse. Sono loro le prime a condannare le altre donne, se una ha il velo troppo corto, o il vestito troppo aderente  o se sono in un luogo pubblico senza il proprio muharam, il proprio guardiano maschio (1.02). E una persona da sola non fa molto, perché anche l’educazione dei figli è sottratta alle madri e non possono essere al comando di quello che accade loro (come succede con Shakira e Isaac e il percorso del piccolo). Gli uomini che provano a contrastare questo paradigma, la pagano personalmente in modo molto caro (il dottor Rabia, il farmacista Sayed, Jalal).      

Le realtà che vengono mostrare, in modo più o meno diretto, oltre a quella della repressione delle donne, sono molte: decapitazione, fustigazione, stupro, schiavitù sessuale, bombardamenti suicidi, omicidi, persecuzioni, poligamia, bambini soldato, omofobia, indottrinazione, tortura, pedofilia, video terroristici dell’Isis, lavaggio del cervello, intimidazioni, segregazione di gender... Le crudeltà non mancano, ma la telecamera non vi indugia. Ci sono momenti di umanità (il medico che Shakira vuole sposare, la schiava e la sua bimba che Jalal compra per evitare loro di peggio, il proprietario del negozio che ha fatto scappare la moglie…). Sono piccole oasi nel deserto. Per capire quanto agghiacciante sia quel mondo, (ATTENZIONE SPOILER)  basta vedere i combattenti dell’ISIS che comprano schiave sessuali fra le prigioniere come da un mercato del bestiame (1.03), o una stanza piena di cadaveri di donne stuprate e mutilate, coperte da grandi lenzuoli, ma scoperte solo per far intravedere l’orrore, o sentire che a Shakira viene chiesto di asportare per il trapianto entrambi i reni dei nemici feriti in battaglia (1.03), o  basta in fondo anche solo l’immagine di un gruppo di ragazzini di poco più di 10 anni che giocano a pallone (1.04), e la palla è la testa di un uomo appena decapitato, sul cui corpo alcuni compagni si scagliano col pugnale.     
Diversi termini arabi vengono lasciati in originale e in sovrimpressione appare la parola con l’equivalente significato in inglese, un po’ come si farebbe in un libro che ha una legenda alla fine. Una bella scelta perché aiuta a creare un mondo a parte, permettendo allo spettatore di capire.

Il Daily Mail ha accusato la serie di glorificare l’Isis, definendo la serie veleno e accostandola ai film di reclutamento nazista degli anni ’30, e in qualche modo colpevolizzandola di giustificare l’estremismo, ma questa è tutt’altro che un’apologia, semmai l’impatto delle barbarie mostrate ha un valore deterrente. Ci sono delle scene che sono effettiva propaganda dello Stato Islamico, ma è evidente che serve a dare una rappresentazione realistica, come nota ben impressionato Charlie Winter, ricercatore senior al Centro Internazionale per gli Studi sulla Radicalizzazione del King’s College a Londra (The Guardian). Che i foreign fighters che seguiamo si siano uniti a una setta che promuove la morte è dolorosamente lampante.

La serie è per ora inedita in Italia.   

domenica 26 novembre 2017

GLOW: le Grandiose Lottatrici del Wrestling


Ideata da Liz Flahive (Nurse Jackie) e Carly Mensch (Weeds, Nurse Jackie, Orange is the New Black) per Netflix, e ambientata a Los Angeles negli anni ’80, GLOW sta per “Gorgeous Ladies of Wrestling”, ovvero, in italiano, le Grandiose Lottatrici del Wrestling, e re-immagina la messa in scena di quella che era una effettiva trasmissione televisiva dell’epoca con quel titolo.

Ruth Wilder (Alison Brie, Community, Mad Men) è un’attrice che non riesce a trovare un ingaggio perché immancabilmente non rispecchia il genere di donna che cercano – nella primissima scena la vediamo fingere (capiremo poi) di sbagliare ruolo in un’audizione e leggere così la parte maschile, perché il ruolo femminile è limitato a poche battute di servizio. Incappa in un regista di film di serie-B che aspira alla fama, Sam Sylva  - Marc Maron in un ruolo che, come è stato giustamente osservato, gli calza a pennello più di quando interpreta se stesso. Per finanziare il suo prossimo progetto intende realizzare uno spettacolo di wrestling al femminile, ingaggiato da un giovane ricco appassionato, Bash (Chris Lowell). Al casting call si presentano donne di ogni forma e misura, diverse delle quali faticano a trovare una collocazione perché appunto è difficile inquadrarle.

Sylva assume presto anche Debbie Egan (Betty Gilpin, Masters of Sex), un’attrice diventata famosa per un ruolo in una soap opera. Ruth e Debbie sono amiche, ma questo cambia quando quest’ultima, che ha appena avuto un bambino, scopre che l’altra ha avuto una relazione con il marito Mark (Rich Sommer, Mad Men). L’ostilità trova sfogo sul ring quando assumono, costruendoli progressivamente, i propri ruoli di scena, diventando rispettivamente Liberty Belle (Debbie) e Zoya the Destroya (Ruth), significanti dello scontro USA-Russia. Presto tutte le donne selezionate devono imparare le regole e le mosse di questo uno sport-spettacolo, e incominciano a conoscersi: Carmen “Machu Picchu” Wade (Britney Young), che proviene da una famiglia di lottatori di wrestling professionisti, aspira anche lei ad esibirsi, ma ha molta paura del pubblico; Cherry “Junkchain” Bang (Sydelle Noel), un’attrice che ha un passato personale e professionale con Sam; Sheila, la “donna lupo” (Gayle Rankin); Rhonda “Britannica” (come l’enciclopedia) Richardson (Kate Nash), la “donna più intelligente del mondo”, inglese e pronta a colpire le avversarie con un libro; Arthie “Beirut the Mad Bomber” Premkumar (Sunita Mani), costretta suo malgrado a un ruolo di terrorista; Tammé “la regina del Welfare” Dawson (Kia Stevens, una wrestler nella vita reale), maschera della nera che vive di sussidi pubblici dell’era Reagan… Il ring diventa una sorta di “luogo sacro” dove si scontrano ideali diversi.

Essendo neofite, non guasta che al’inizio siano terribili nelle mosse che devono svolgere. E i personaggi, insieme al pubblico, apprendono quanto c’è di finto e quanto c’è di vero, e le modalità narrative di questo sport – “È una soap opera!” esclama Debbie in un momento “eureka”, cogliendo in pieno i parallelismi sottostanti ai due generi. Nei costumi e nell’atteggiamento, incarnano dei personaggi che sono l’amplificazione di archetipi, sbattuti in faccia senza pudore. È quasi una Commedia dell’Arte con gusto camp. E le lottatrici, spinte nei propri ruoli verso stereotipi esasperati, scoprono al contempo se stesse, gli spazi in cui il mondo vorrebbe incasellarle e, ad un tempo, la forza intrinseca di queste semplificazioni e la necessità di liberarsene. Nessuno spera di fare grande arte, c’è una certa disillusione in questo senso, ma nemmeno si guarda il genere dall’alto in basso con la puzza sotto il naso. E la serie riesce a tratteggiare un’umanità piena di vulnerabilità e coraggio che cerca, e trova, il suo riscatto.

Fuori da Ruth, Debbie e Sam, gli altri personaggi sono un po’ di contorno, anche se alcune lottatrici vengono abbozzate e c’è il potenziale di svilupparle in tempi successivi, un po’ alla Orange is the New Black – non è un caso che produttrice esecutiva sia la stessa di quella serie, Jenji Kohan (in proposito vale la pena ascoltare la puntata che la riguarda di WTF, il podcast di Marc Maron, ovvero quella del 26 giugno 2017). Per la prima volta, che mi risulti, si mostra un personaggio, Sheila, che identifica se stessa, nella vita, con un animale, un lupo. Ci si commuove nel vedere la sua riconoscenza (1.04) quando, in seguito a uno screzio collegato al fatto che devono condividere una camera di un motel, Ruth si rivolge a lei considerandola, in un certo qual modo, una lupa.   

A mettere in moto le vicende è in fondo un’amicizia tradita ed è questa sotto i riflettori primariamente, con le ripercussioni delle scelte fatte e la difficoltà delle amiche di parlarsi. Ruth deve anche fare i conti – ATTENZIONE SPOILER - con una gravidanza indesiderata e la decisione nel suo caso è “facile da prendere” (1.08): le autrici hanno lavorato con Planned Parenthood, l’organizzazione no-profit che si occupa di salute riproduttiva negli Stati Uniti e globalmente, per far sì che l’aborto sicuro e legale, un tema caldo come non mai nel dibattito politico americano, fosse rappresentato in modo accurato.

Anche se non si è fan del wrestling, è facile entrare in questo mondo di donne “non convenzionali” che, anche se speravano di sfondare in modi diversi, cercano una propria posizione nella vita da cui poter brillare. Ci si affeziona a loro con facilità.

domenica 19 novembre 2017

THE 100: la seconda stagione


La seconda stagione di The 100 (della CW, su Netflix) – qui avevo parlato della prima -  ha visto una serie già buona crescere ancora di più, e affrontare temi forti. La trama è serrata e gli eventi sono dettagliatamente costruiti e incalzanti; chi vuole per forza che “accada” qualcosa, non si annoia di certo. Ci sono combattimenti, viaggi, alleanze, pericoli. Allo stesso tempo, c’è ampio spazio per meditazioni più dense.

La spina dorsale di quest’arco è stata legata a Mount Weather: gli uomini della montagna non sono altro che gli esseri umani rimasti sul pianeta e rifugiatisi nel sottosuolo. Loro preservano la civiltà così come la conoscevamo prima della catastrofe nucleare che ha distrutto la Terra, con la sua arte e cultura  - il loro presidente, con l’hobby della pittura, custodisce alcuni dei classici, come la Notte Stellata di Van Ghogh. La loro dannazione è che non possono tornare in superficie, ormai incapaci di reggere le radiazioni. La sola cosa che li aiuti, in caso di contaminazione, sono le trasfusioni di sangue (o poi il midollo osseo per una cura più permanente) del “popolo degli alberi”, ovvero i Terresti,  guidati da Lexa (Alycia Debnam Carey), e del “popolo del cielo”, ovvero quelli dell’Arca, guidati dalla nostra eroina Clarke (Eliza Taylor). Le due donne si coalizzano per salvare le proprie genti e le lotte fra le diverse fazioni costituiscono il fulcro centrale della narrazione. Si arriva a una tragica conclusione, con una chiusura che, come avvenuto alla fine della prima stagione, si apre mettendo le basi per una prossima, con un apparente nuovo cambio di prospettiva, con Jaha (Isaiah Washington) e Murphy (Richard Harmon) che, staccati dagli altri, fanno scoperte inaspettate alla fine del loro viaggio verso la promessa “Città della Luce”   

Fra battaglie e alleanze, si è riflettuto principalmente su che cosa significhi essere dei leader, che tipo di rinunce comporti, e a che cosa si debba dare valore, in particolare con Clarke, che deve imparare a capire chi e che cosa è necessario sacrificare, sia da un punto di vista personale che politico-sociale per le sue genti, per uscire vincitrice. Prende decisioni impopolari e sbagliate anche, e il suo sforzo di essere dalla parte “dei buoni” fa approdare alla conclusione che buoni e cattivi non esistono, come è evidente nella storia di molti dei protagonisti, uno per tutti Finn (Thomas McDonell). Che cosa significhi sopravvivere e che cosa sia importante nella vita è stato un altro dei temi forti: dall’importanza della resistenza (inevitabile pensare al nazismo e agli ebrei in alcuni passaggi), con un personaggio come Maya (Ever Harlow), o dell’addestrarsi per la battaglia, una via scelta da Octavia (Maria Avgeropoulos), o del far sì che non significhi solo salvare la pelle. Come guardiamo e trattiamo gli altri è pure stato oggetto di attenzione - dagli esseri umani in gabbia come cavie e usati contro il proprio volere per i propri scopi, alle diversità culturali fra i diversi popoli che devono imparare a conoscersi e a comunicare quando partono da premesse filosofiche diverse. Sono sempre molti i compromessi morali a cui sono costretti i personaggi, e suonano realistici: le scelte fatte e le loro conseguenze sono sempre in primo piano.

Bellamy (Bob Morley), Jasper (Devon Bostick), Monty (Christopher Larkin), Raven (Lindsey Morgan), Abby (Paige Turco), Marcus (Henry Ian Cusick), Lincon (Ricky Whittle)... davvero in questo programma di Jason Rothenberg c’è come non mai un lavoro di ensemble.

venerdì 10 novembre 2017

ATYPICAL: sesso, amore, autismo


Cresce notevolmente dopo il pilot la serie Atypical, ideata da Robia Rashid (The Goldbergs) per Netflix, che racconta la scoperta dell’amore e del sesso di un diciottenne, Sam Gardner (interpretato con acume, tenerezza e humor da Keir Gilchrist), che è nello spettro del’autismo ed è altamente funzionante.

Sam è uno studente di liceo che ha una grande passione per l’Antartide e i pinguini – la serie era conosciuta originariamente come Antarctica, e questa regione si presta in modo evidente come metafora della condizione del personaggio. La sua vita si svolge fra la scuola, dove ad aiutarlo e proteggerlo c’è la sorella minore Casey (Brigette Lundy-Paine), una promessa della corsa sportiva,  il lavoro da Techtropolis (una sorta di Mediaworld o Trony), e le sedute con la psicologa, Julia Sasaki (Amy Okuda), per la quale sviluppa presto una cotta. A casa è da sempre stato il centro dell’universo della madre Elsa (Jannifer Jason Leigh), mentre il padre Doug (Michael Rapaport) non è mai riuscito ad accettare fino in  fondo le difficoltà del figlio.

Frizzante e leggero, questo dramedy di primo acchito non convince del tutto perché presenta un personaggio principale che è una collezione stereotipata di criteri diagnostici dell’autismo, e le scene fra i genitori sono troppo forzate nell’essere una sorta di spiegazione riassuntiva di quanto avvenuto fino ad allora (mentre il rapporto con la sorella è più genuino). Però è una rarità vedere una famiglia mostrata in medias res, ovvero non al momento della scoperta della situazione, ma quando ormai è un pezzo che la vive e con il passare delle puntate si guadagna in spessore. ATTENZIONE SPOILER. Sebbene non vengano mostrati magari i danni in autostima sul ragazzo di una madre iper-controllante (un tropo in questo genere di situazioni), la si comprende di fronte a un padre che quando il momento si è fatto duro è sparito. Che, ora che il figlio è più grande, trovi una valvola di sfogo in una relazione extra-coniugale con il barista Nick (Raúl Castillo, Looking) ha senso. Sotto questo profilo i personaggi appaiono via via più tridimensionali e umani.

Se è vero che quello messo in scena è un caso troppo “da manuale”, è anche vero che si vuole insegnare un po’ l’ABC di quella che, viene detto, “è una patologia neurologica, non una malattia curabile” (1.04) spiegando ad esempio, attraverso un gruppo di supporto a cui si rivolge la madre, che non si dice “autistico”, ma si cerca una formulazione che faccia venire la persona prima della diagnosi, così come ci si esprime in termini di “neuro tipici” e “neuro atipici”. Sono aspetti molto di base che, per chi non ha familiarità con la questione, sono comunque essenziali.

L’obiettivo sembra poi essere quello di mostrare che tutte le relazioni sentimentali sono difficili e motivo di confusione su come sarebbe meglio comportarsi in assenza di regole chiare e di molte ambiguità comunicative. Chi ha problemi di autismo ha sicuramente difficoltà in più, ma anche gli altri prendono molte cantonate e commettono errori. Questo si vede dal rapporto fra i genitori del protagonista, ma anche da quello della psicologa che va in crisi con il fidanzato per via di un fraintendimento causato involontariamente proprio da Sam, così come dal nascente amore fra Casey ed Evan (Graham Rogers, Quantico). E se Sam è particolarmente imbranato e maleducato con la sua “ragazza per far pratica”, Paige (Jenna Boyd), non è solo perché ha problemi neurologici, ma anche perché è una adolescente che riceve consigli da un altro adolescente che si crede un grande amatore, l’amico Zahid (Nik Dodani), il classico nerd asiatico, evidentemente scritto a fini umoristici.     

Persone nello spettro dell’autismo hanno valutato offensiva la rappresentazione fatta. Sebbene gli autori abbiano “fatto i compiti” – hanno avuto come consulente Michele Dean, che ha lavorato per il Centro per la Ricerca e il Trattamento dell’Autismo alla California State University (Paste) - , l’assenza di qualcuno fra di loro che viva effettivamente questa realtà è stata rimproverata, e i comportamenti del protagonista nelle diverse situazioni in cui è stato messo sono state giudicate “violente, viscide, crudeli e fanno sembrare il personaggio autistico un mostro. Quando il programma poi cambia marcia per farci sentire tristi per Sam, la caratterizzazione diventa ancora più offensiva. Sostenere che coloro che hanno patologie neurologiche non dovrebbero essere ritenute responsabili di ferire gli altri è tanto paternalistico quanto socialmente irresponsabile”. (Salon) Raccolgo queste osservazioni, che venendo da persone direttamente interessate ha più peso di altre, ma ammetto di non aver avuto la stessa percezione, forse perché ho letto la narrazione in un registro decisamente più umoristico. È vero poi che Sam è apparso molto duro, ma non mi è capitato di sentirmi triste per lui (semmai per chi lo circondava), né di credere che i suoi comportamenti lo esimevano da eventuali responsabilità. Forse, non soffrendo io di questo genere di problemi, non sono in grado di vedere l’offensività di alcune rappresentazioni, e questo è eventualmente un mio limite.