La seconda stagione di The 100 (della CW, su Netflix) – qui
avevo parlato della prima - ha visto una
serie già buona crescere ancora di più, e affrontare temi forti. La trama è serrata
e gli eventi sono dettagliatamente costruiti e incalzanti; chi vuole per forza
che “accada” qualcosa, non si annoia di certo. Ci sono combattimenti, viaggi,
alleanze, pericoli. Allo stesso tempo, c’è ampio spazio per meditazioni più
dense.
La spina dorsale di quest’arco è stata legata a Mount Weather: gli uomini
della montagna non sono altro che gli esseri umani rimasti sul pianeta e
rifugiatisi nel sottosuolo. Loro preservano la civiltà così come la conoscevamo
prima della catastrofe nucleare che ha distrutto la Terra, con la sua arte e
cultura - il loro presidente, con l’hobby della pittura, custodisce
alcuni dei classici, come la Notte Stellata di Van Ghogh. La loro dannazione è
che non possono tornare in superficie, ormai incapaci di reggere le radiazioni.
La sola cosa che li aiuti, in caso di contaminazione, sono le trasfusioni di
sangue (o poi il midollo osseo per una cura più permanente) del “popolo degli
alberi”, ovvero i Terresti, guidati da Lexa (Alycia Debnam Carey), e del
“popolo del cielo”, ovvero quelli dell’Arca, guidati dalla nostra eroina Clarke
(Eliza Taylor). Le due donne si coalizzano per salvare le proprie genti e le
lotte fra le diverse fazioni costituiscono il fulcro centrale della narrazione.
Si arriva a una tragica conclusione, con una chiusura che, come avvenuto alla fine
della prima stagione, si apre mettendo le basi per una prossima, con un
apparente nuovo cambio di prospettiva, con Jaha (Isaiah Washington) e Murphy
(Richard Harmon) che, staccati dagli altri, fanno scoperte inaspettate alla
fine del loro viaggio verso la promessa “Città della Luce”
Fra battaglie e alleanze, si è riflettuto principalmente su che cosa
significhi essere dei leader, che tipo di rinunce comporti, e a che cosa si debba
dare valore, in particolare con Clarke, che deve imparare a capire chi e che
cosa è necessario sacrificare, sia da un punto di vista personale che
politico-sociale per le sue genti, per uscire vincitrice. Prende decisioni
impopolari e sbagliate anche, e il suo sforzo di essere dalla parte “dei buoni”
fa approdare alla conclusione che buoni e cattivi non esistono, come è evidente
nella storia di molti dei protagonisti, uno per tutti Finn (Thomas McDonell).
Che cosa significhi sopravvivere e che cosa sia importante nella vita è stato
un altro dei temi forti: dall’importanza della resistenza (inevitabile pensare
al nazismo e agli ebrei in alcuni passaggi), con un personaggio come Maya (Ever
Harlow), o dell’addestrarsi per la battaglia, una via scelta da Octavia (Maria
Avgeropoulos), o del far sì che non significhi solo salvare la pelle. Come
guardiamo e trattiamo gli altri è pure stato oggetto di attenzione - dagli
esseri umani in gabbia come cavie e usati contro il proprio volere per i propri
scopi, alle diversità culturali fra i diversi popoli che devono imparare a
conoscersi e a comunicare quando partono da premesse filosofiche diverse. Sono
sempre molti i compromessi morali a cui sono costretti i personaggi, e suonano
realistici: le scelte fatte e le loro conseguenze sono sempre in primo piano.
Bellamy (Bob Morley), Jasper (Devon Bostick), Monty (Christopher Larkin),
Raven (Lindsey Morgan), Abby (Paige Turco), Marcus (Henry Ian Cusick), Lincon
(Ricky Whittle)... davvero in questo programma di Jason Rothenberg c’è come non
mai un lavoro di ensemble.
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