lunedì 24 maggio 2021

DICKINSON: la seconda stagione

Sperimentale e surreale, e venata di umorismo, mi ha convinta di più la seconda stagione di Dickinson (Apple TV+), in cui il personaggio del titolo è una sorta di avatar culturale della nota scrittrice per noi contemporanei, come la definisce l’autrice stessa, Alena Smith, in una rivelatoria intervista per TV’s Top 5 (5 gennaio 2021): “Per una poetessa come Emily con una mente tanto selvaggia, e tuttavia una vita esteriore così contenuta, può essere che il modo migliore per accedere alla verità della sua esperienza, la sentita verità emozionalmente vissuta, sia attraverso il lavoro creativo e la fantasia piuttosto che attraverso i fatti”. Questo è sicuramente l’approccio di quella che definivo alla fine della prima stagione (qui) un’anacronistica poetica follia.

Il nucleo di questo secondo arco indaga un quesito principale: perché quella che è in assoluto una delle autrici poetiche americane più importanti non abbia pubblicato mentre era in vita. Sono migliaia le liriche da lei scritte, viveva in un ambiente culturale tale, anche in contatto con altri autori, che le avrebbe reso facile farlo.

Nella serie, grazie alla sua amata (e amante) cognata Sue (Ella Hunt) viene un contatto con il direttore dello Springfield Rupublican, Samuel Bowles (Finn Jones), che le dà proprio questo: la possibilità di pubblicare. E in varie forme e soluzioni nel costo delle diverse puntate combatte con l’idea della fama, i suoi pro ed i suoi contro. Vince un concorso per la torna migliore (2.02), ma è quello il genere di notorietà a cui aspira? Ora evoca gli spiriti in una seduta perché possano darle guida (2.03), ora si immagina persa in un labirinto (2.04), o teme che il suo editore voglia pubblicarla perché interessato a lei sul piano personale (2.05). Si confronta con una notissima cantante d’opera, Adelaide May (2.06), che la fa riflettere sul fatto che aspiriamo a significato, bellezza, amore, ma tutto passa e si dimentica, la moda cambia e essere visti significa essere esposti, e quello che è portato al vertice un giorno il giorno dopo viene distrutto o diventa stantio. Che importa che cosa pensano gli altri? Si spaventa ad essere letteralmente invisibile (2.08), ma si rende conto che è anche un potere. E la notorietà è una droga.

E se l’attrazione rappresentata dalla fama, incarnata nell’editore, la seduce finché lei non gli chiede indietro i propri lavori, per tutta la stagione viene perseguitata da una visione, quella di Nessuno (Will Pullen), un soldato morto in guerra (a cui riuscirà a dare un’identità solo in 2.09) che le appare come uno spettro premonitorio, quasi intimidatorio nel suo essere inerme ma presente, parenetico.  

Con puntate leggere e godibili la serie fa un bel lavoro di scavo su questo tema. Riesce nell’intento di mostrare l’autrice non come una vittima, ma come agente consapevole della propria vita, in una serie che usa il linguaggio dell’epoca per rappresentare lo status quo, e mette in bocca un modo di esprimersi più vicino ai nostri giorni a chi vuole qualcosa di nuovo (e in questo caso viene in mente la sorella Lavinia). La musica, contemporanea, è proprio la coscienza di Emily che pulsa attraverso lo show, così come i personaggi famosi che lei incontra (in questa stagione Edgar Allan Poe ad esempio), sono ritratti caricaturali funzionali a quello che il personaggio sta vivendo in uno specifico momento. (TV’s Top 5)

La chiusura brucia, arde della passione di Emily per la propria arte – che la rinuncia alla fama le consente di preservare intatta – e per il suo amore per Sue che viene consumato in uno scambio scritto e girato con grande coinvolgimento, anche se ammetto che la recitazione di Ella Hunt mi è sembrata un po’ rigida.

Dopo questa seconda stagione, già girata immediatamente dopo la prima e completata pre-pandemia, ne è prevista una terza.    

venerdì 14 maggio 2021

I HATE SUZIE: sfrontata, emozionale, dolorosa, spiritosa

Shock (1.01), Negazione (1.02), Paura (1.03), Vergogna (1.04), Negoziazione (1.05), Colpa (1.06), Rabbia (1.07), Accettazione (1.08): attraverso queste otto fasi, rielaborazione delle ben note cinque fasi del lutto, e titoli delle puntate corrispettive, si snoda la notevole I Hate Suzie (Sky Atlantic).

Suzie Pickles (Billie Piper, Secret Diary of a Call Girl – Diario di una squillo perbene) è un’attrice che è una celebrità fin da bambina. Sta per firmare un pingue contratto con la Disney quando qualcuno sottrae dal suo telefonino e diffonde in rete delle foto pornografiche che la ritraggono mentre pratica la fellatio a un uomo che non è il marito Cob (Daniel Ings), ma come presto si viene a scoprire lo showrunner del programma in cui lei lavora, Carter (Nathaniel Martello-White). Questo manda all’aria tutto il suo mondo e deve capire come affrontare e superare l’accaduto, sia sul fronte familiare, dove ha anche un bambino sordo, Frank (Matthew Jordan Caws), che su quello professionale. Ad aiutarla e sostenerla c’è la sua amica e agente Naomi (Leila Farzad), lei stessa in crisi, anche perché vorrebbe un figlio ma il suo orologio biologico dice che il suo tempo per questo sta per scadere.

Billie Piper, che ha co-ideato la serie insieme all’amica Lucy Prebble che ha scritto tutte le puntate, riservandosi il ruolo di protagonista ha co-costruito un mezzo ideale per veicolare la sua indubbia bravura: vulnerabile, esposta improvvisamente al mondo anche nei propri aspetti più intimi, è una girandola di emozioni, e riesce a trasmetterle con potenza, meditando su temi come l’essere donna, l’amicizia, l’amore, la cultura della celebrità, la libertà morale della persona qui violata dalla diffusione illecita di immagini sessualmente esplicite, la rappresentazione visuale dell’amore fisico, le decisioni di vita, il desiderio, la felicità... E anche stilisticamente, la narrazione è intensa e coinvolgente in un istante, apparentemente fuori fuoco e controllo il momento successivo, un po’ come la protagonista che è crollata a pezzi e cerca di trovare un nuovo equilibrio.

Una puntata che ha particolarmente colpito nel segno è stata “Shame” (1.04) in cui Suzie deve gestire la stampa: come si sente e come è accettabile far vedere che si sente? Non è sicura. Dovrebbe fingere di vergognarsene e mostrare di sentirsi una sgualdrina o fiera di essere libera di fare quello che le pare? I passaggi dell’intervista, che la vedono ora rispondere in una direzione ora nell’altra a seconda della percepita reazione dall’altra parte, sono emblematici di queste opposte tensioni. Il resto della puntata è per la gran parte lei che si masturba, prima usando la mano, poi un vibratore. Per fortuna, sempre di più si vede le donne farlo sullo schermo, e non solo per titillare le fantasie degli uomini eterosessuali o ai fini umoristici (e si legga questo articolo già del 2015 sull’importanza che questo avvenga). Qui l’aspetto insolito e prorompente è che, mentre lo fa, passa da fantasia a fantasia, senza riuscire a trovare quella giusta. Nella sua mente compare Naomi che la critica e la spinge a interrogarsi su che cosa sia realmente il suo desiderio e che cosa invece siano idee maschili perpetrate nei secoli. Se il fatto che l’amica le appaia mentalmente come modo per ragionare sui propri desideri è umoristico, il contenuto della riflessione sulla politica del desiderio non potrebbe essere più serio, o più rilevante per una donna contemporanea che cerca di riscrivere il proprio ruolo nel mondo scardinando tabù e concezioni che nel tempo non le sono stati favorevoli. Su questo tema in parte si torna.

Una componente della forza del programma sta nell’essere presente nello Zeitgeist di questo momento storico, consapevole delle tensioni multiple che la singola persona vive e su cui si interroga. In “Bargaining” (1.05) Naomi esce con un uomo che si macchia di mansplaining nella forma più smaccata, ed è evidente che lei non apprezza, ma alla fine sono altri gli impulsi che la guidano nel relazionarsi a lui. Alla stessa maniera ci si pone nei confronti dell’amore, e dell’amicizia, osservando l’importanza della capacità delle donne di esserci per le altre donne. E ovunque è casa se è un luogo dove ci si sente al sicuro, e protetti e sostenuti: questa è la convinzione di base.

Con il fatto che la protagonista è un’attrice, e la si vede recitare, si mostrano gli scarti fra realtà e sua rappresentazione. In “Fear” (1.03) si mettono a confronto la paura che si vive alla paura che lei come attrice deve mostrare di avere nell’horror che sta girando. E ci si concede dei momenti in cui ci sono apparenti variazioni di registro che rivelano l’intimo animo della protagonista. Alla fine del pilot, ad esempio, stravolta, Suzie balla e canta per la strada in un soliloquio in cui sfoga tutte la furia delle sue emozioni negative.

Scrive bene Allison Shoemaker quando scrive che la serie verrà inevitabilmente paragonata a Fleabag perché in entrambi i casi al centro c’è una donna che fa infuriare le persone che la amano, se stesse incluse, sono particolarmente franche su  argomenti come sesso e il dolore emozionale, non mostrano trepidazione nel chiedere al pubblico di empatizzare con loro e la loro furia, e usano i trucchi narrativi e di genere necessari a raccontare la storia, così condivido quando osserva che è una storia sulle conseguenze delle proprie azioni in un mondo che non accetta una via di mezzo fa “essere una principessa” (il ruolo professionale che la Disney aveva offerto a Suzie) ed essere la strega cattiva. La serie vive in quell’area intermedia, brutale e senza compromessi: è una posizione estenuante, ma intenzionale: “con essa arriva l'onestà, la bruttezza, l'empatia, l'ambizione, e alcune battute molto divertenti, spesso sporche”.

È una storia sfrontata ed emozionale, ricca di contraddizioni, dolorosa e spiritosa.  

mercoledì 5 maggio 2021

RESIDENT ALIEN: uno spassoso extra-terrestre

Resident Alien (SyFy, Rai4), tratta da un’omonima serie di fumetti ideata da Peter Hogan e Steve Parkhouse, è una delle serie più leggere e spassose che mio abbia seguito negli ultimi tempi. Sarei rimasta sinceramente delusa se non l’avessero rinnovata per una seconda stagione.

Harry Vanderspiegle (Alan Tudyk, Firefly, Suburgatory) è un alieno con la missione di distruggere l’umanità che per errore precipita sul nostro pianeta, in un paesino montano chiamato Patience, in Colorado. Uccide il vero Harry, un medico, e ne assume l’identità, vive nella baita sul lago sperduta fra i boschi che gli apparteneva, imparando tutto il necessario guardando in TV Law & Order. Quando il medico locale viene trovato morto, Harry viene chiamato a sostituirlo e deve interagire, seppur goffamente, con i locali, in particolare con Asta (Sara Tomko), una nativa americana della tribù degli Ute, che lavora come assistente nella clinica del medico e che ha come migliore amica D’Arcy (Alice Wetterlund), una ex-sciatrice olimpica che dopo un incidente gestisce il bar della città il 59 (nome legato a una leggenda cittadina). Lo sceriffo Mike (Corey Reynolds), che vuole che tutti lo chiamino Big Black, investiga con una apparente pugno di ferro, ma chi fa tutto il lavoro è la sua brillante vice Liv (Elizabeth Bowen). La situazione di Harry è complicata dal fatto che, sebbene tutti lo vedano come umano, non è così per il bimbo di nove anni Max (Judah Prehn), figlio del giovane sindaco Ben (Levi Fiehler) e della moglie Kate (Meredith Garretson), che a causa di una mutazione genetica riesce a non farsi ingannare dalla sua ricostruzione molecolare e lo riconosce come effettivamente è, nell’aspetto una specie di anfibio (imparentato però coi i polipi), cosa che lo spaventa facendolo diventare la sua spina nel fianco. Una generale (Linda Hamilton) dell’esercito intanto cerca di provare l’esistenza aliena ed è sulle sue tracce.

Se in 3rd Rock from the Sun – Una famiglia del terzo tipo, John Lithgow interpretava Dick Solomon come una persona spumeggiante e piena di entusiasmo talvolta vagamente indignata, qui Alan Tudyk ha un approccio opposto, di rigidità, riserbo e molta perplessità, che non di meno risulta grandemente esilarante. Lo humor, oltre che dalle espressioni facciali e dal suo tremendo forzato modo di sorridere e ridere, viene dall’incapacità sociale del protagonista, ma anche dalla sua semplice inesperienza di cose umane. Una volta gli diventa duro e guardandosi in mezzo alle gambe esclama “il mio pene è morto!”, pensando al rigor mortis (1.05). Rimarca a D’Arcy che lei non deve essere molto intelligente e lei si arrabbia; lui preoccupato osserva “Oh no, gli uomini umani non devono dire cose cattive alle donne, se non mi scuso saprà che sono un alieno” (1.05). L’attrito poi fra il suo cercare di farsi passare per umano e un persona che, come medico, aiuta gli altri, e i suoi pensieri minacciosi che sperano nell’annichilamento totale, costituiscono una forte di risate sempre gustose. L’altra colonna portante dell’umorismo è affidata allo sceriffo e la sua vice, lui ipercontrollante e sicuro di sé, lei bravissima, ma il cui contributo non viene debitamente riconosciuto. È costruito in modo ideale, e l’ho pensato come una possibile parodia di Fargo, anche se funziona indipendentemente da riferimenti extratestuali.   

C’è molta attenzione e tenerezza nelle situazioni, anche le più intense, e occasionalmente un pizzico di malinconia, e a questo si aggiunge la scoperta da parte del neoumano, un po’ disgustato dall’idea di esserlo, di che cosa significhi essere veramente tali, “infettati” di umanità, come la vede lui: che cosa si prova, fisicamente ma soprattutto psicologicamente ed emotivamente. Il fatto che si sia a contatto con dei Nativi americani – il padre di Asta, Dan (Gary Farmer), è il proprietario di una locanda – e che il piccolo Max abbia come miglior amica una bambina musulmana, Sahar (Gracelyn Awad Rinke), fanno bene intendere che c’è una consapevolezza, da parte della serie, del concetto di “alieno” in senso più ampio, metaforico (vengono definiti “resident alien” negli USA gli immigrati non ancora cittadini), per quanto finora non si sia esplicitamente riflettuto in questa direzione ed è un’occasione sprecata. A un ritrovo sugli extra-terrestri, Harry non gradisce che la propria identità sia trattata come un costume, Asta commenta con un equivalente di “dillo a me”, ma il massimo a cui si è arrivati è piantare l’idea che un alieno possa essere un “Cristoforo Colombo dello spazio” (1.09).

Il richiamo che viene elicitato in modo più forte è a Northern Exposure - Un medico fra gli Orsi, con un piccolo paesino dove finisci per conoscere un po’ alla volta i personaggi pittoreschi locali o le leggende del posto, cosa che aggiunge una nota di fascino e stimola lo spettatore a tornare. Anche per la presenza della cultura indigena, ovviamente. La sceneggiatura di questa creazione di Chris Sheridan non è a quei livelli, ma non ci si sente alieni, è il caso di dirlo, ma accolti. Con garbo. Ho sentito criticata la serie perché cercherebbe di essere troppe cose contemporaneamente: non la condivido perché gli elementi si compenetrano ibridandosi alla perfezione.

Molta della serietà del programma viene dalle backstory di Asta (una relazione abusante e una bimba data via alla nascita) e di D’Arcy, infelice, che beve un bel po’ ed è alla ricerca di una relazione, così come l’elemento di avventura è assicurato dalle indagini dello sceriffo, come dal tentativo del protagonista di ritrovare il device che gli permetterebbe di annientare l’umanità e di riprendere la propria nave e tornare a casa. Il messaggio ultimo va in direzione dell’amicizia e dell’amore.

Notare che le scritte in sovrimpressione appaiono in caratteri alieni (in realtà in esperanto, secondo Wikipedia), prima di apparire in inglese. Anche la sigla, ogni volta diversa, con vignette a fumetti che illustrano che cosa in una situazione è appropriato fare e che cosa no, è una chicca.