giovedì 30 dicembre 2021

LA LISTA DELLE LISTE dei migliori programmi del 2021

Ogni anno, Metacritic stende una lista delle liste dei migliori programmi dell’anno, unendo le scelte di vari, numerosissimi critici televisivi. La aggiorna di solito fino a fine gennaio, quindi la lista sarà soggetta a variazioni ancora per un po’.  La trovate qui, e sotto trovate lo screenshot delle prime 20 posizioni al momento del mio scrivere.

Come tutte le liste lascia il tempo che trova, ma questa l’ho sempre trovata particolarmente indicativa perché è uno “sforzo di gruppo” per così dire, e perché comunque queste graduatorie possono dare degli spunti.

Io da brava critica sono convinta che il nostro lavoro abbia un senso e un valore per la società, perché per certi versi il pensiero è tutto, e nulla impatta di più il modo di pensare dell’arte, delle narrazioni e rappresentazioni che facciamo di noi stessi. Vedere che cosa è apprezzato e considerato rilevante è perciò significativo non perché si indica cosa ci si gode di più in una forma di intrattenimento piuttosto che in un’altra (anche se anche questo ha il suo peso), ma perché si riflette sulla condizione umana, su chi siamo e su chi vogliamo essere e forse ci dà delle indicazioni su dove perseverare e su come cambiare quello che non ci piace.   





giovedì 23 dicembre 2021

LE MIGLIORI NUOVE SERIE del 2021, secondo me

Anche quest’anno abbiamo avuto TV ghiottissima, basti pensare a programmi come Succession, The Great, o Ted Lasso, in assoluto fra i miei preferiti dell’anno, qualitativamente eccellenti. E se amate quest’ultimo non lasciatevi sfuggire lo short natalizio animato uscito a sorpresa per le feste: qui.

Nel mare sempre più magnum delle produzioni televisive, come ogni anno però mi focalizzo su quelli che secondo me sono stati i migliori debutti. Di quelli su cui non ho già scritto, conto di farlo in futuro. Eccoli di seguito, senza un ordine particolare:

 

It’s a sin: l’AIDS che colpisce la comunità gay negli anni ’80 riceve il toccante, trascinante trattamento di Russell T. Davies, con cui non si sbaglia mai. Ne ho parlato qui.

Squid Game: il brutale, appassionante fenomeno dell’anno. Leggetemi in proposito qui.

The White Lotus: il privilegio sezionato con ferocia e umorismo cringe da Mike White. Ne ho scritto qui.  

La Ferrovia Sotterranea: il Radici della nostra generazione. Qui.

Only Murders in the Building: tre appassionati di podcast cercano di risolvere un omicidio verificatesi nel proprio condominio. Sarà uno dei miei prossimi post.    

Maid: una miniserie su una giovane madre che scappa da una situazione di abuso e lavora come cameriera per mantenere sé e la figlia, sognando di diventare scrittrice.

Hacks: una comica anziana e una giovane devono imparare a lavorare insieme. 

Reservation Dogs: adolescenti Nativi americani in Oklahoma commettono piccoli crimini, o cercano di sventarli, nella speranza di guadagnare il necessario per andarsene in California. 

Resident Alien: probabilmente non finirà nella lista delle migliori serie di nessuno, ma io l’ho trovata troppo spassosa per non menzionarla. Un alieno che dovrebbe distruggere l’umanità si fa passare per un medico, con risultati esilaranti: qui.  


Una menzione onorevole per me la meritano:

Industry: neolaureati ora impiegati nel mondo dell’alta finanza. Sono sorpresa che non abbia avuto più risonanza, perché mi ha colpita su più livelli. Ne ho scritto qui.   

The Wilds: l’aereo di un gruppo di adolescenti precipita su un’isola deserta e devono imparare a cavarsela da sole. Non sanno che è un esperimento. Ne ho parlato qui.

Generat+ion: adolescenti della comunità LGBTQ+ crescono. Ha margine di miglioramento, le recensioni sono tiepide, ma anche solo avere un personaggio asessuale per me è un pro. Continuerò a seguirlo. Ho recensito la prima metà della stagione qui.

Ho dimenticato qualcuno? Schmigadoon (qui)? WandaVision (qui)? Forse Yellowjackets (di cui hi visto troppo poco per sbilanciarmi)?    Non ho visto We Are Lady Parts o Mare of Easttown, ma se ne dicono cose buone.

E voi? Quali pensate siano le migliori serie che hanno debuttato nel 2021?

mercoledì 15 dicembre 2021

AND JUST LIKE THAT: il sequel di "Sex and the city"

Ho proprio pianto alla fine della prima puntata di And just like that… (che tradurrei “E in un attimo…”), sequel della iconica Sex & The City. L’ho seguita tutta in passato, e apprezzata su più livelli, ma non possono dirmi una grande fan della serie: è sempre stata troppo lontana dalla mia esperienza di vita e dalla mia realtà per parlarmi sul serio. E se qualcuno mi chiedesse se sono una Carrie, una Charlotte, una Miranda o una Samantha, risponderei nessuna di loro. Ho sempre un po’ aderito alla teoria che le protagoniste fossero gli equivalenti di fantasia di uomini gay metropolitani, una serie di uomini gay mascherata da serie di donne – chi fosse curioso di questa lettura, proposta da Mandy Merk, può leggere il suo saggio “Sexuality in the city” all’interno della raccolta di saggi Reading Sex and the City, a cura di Kim Akass e Janet McCabe. Se non è mai stata così significativa per me come ho sentito esserlo per altre donne, percepisco comunque il legame della familiarità ed ero curiosa di vedere il prosieguo, sans Samantha (Kim Cattrall), che viene nominata sia nel pilot, sia in seguito: si è trasferita a Londra e ha tagliato i contatti con tutte. Dopotutto, la serie ha fatto scuola ed è stata una pietra miliare della cultura televisiva e non solo.

Ho pianto alla fine della puntata e non rivelerò perché per non fare spoiler, anche se a tre quarti della puntata era già evidente dove sarebbe andata a parare. Le amiche sono ora cinquantenni, sono accoppiate con chi le ricordavamo accoppiate e hanno i figli grandi. Carrie, felicemente sposata con Mr. Big (Chris Noth), partecipa a un podcast che tratta argomenti sessuali condotto da Che Diaz (Sara Ramirez, Grey’s Anatomy), una comica non binaria. Miranda (Cynthia Nixon) è tornata a scuola per studiare diritti umani, un corso tenuto dalla professoressa Nya Wallace (Karen Pittman), ed è ancora sposata con Steve (David Eigenberg), che per l’età sta diventando sordo. Hanno un figlio adolescente, Brady (Niall Cunningham, Life in pieces), a cui permettono di far andare in camera la fidanzata, anche se la cosa sembra sfuggire loro un po’ di mano. Charlotte e Harry (Evan Handler) hanno due figlie adolescenti, Lily (Cathy Ang) e Rose (Alexa Swinton). Nel pilot Lily deve tenere un importante saggio di pianoforte, in cui è una sorta di prodigio, e Carrie, che si tiene ad essere una buona amica mostrando il suo supporto, accetta a posticipare la sua partenza per il week-end con il marito per essere presente. Presenziano anche Stanford (Willie Garson, che ha girato le scene poco prima della sua recente scomparsa) e Anthony (Mario Cantone), sempre cari amici delle non-più-giovani-donne.

L’immediata nota distintiva è proprio quest’ultima: giovani donne non sono più giovani. Sono donne mature sui cinquanta e sono consapevoli, in modo diverso, di esserlo. Bene: si parla troppo poco di questo. E non lo dico solo da persona che ricade nella loro stessa fascia d’età. È essenziale moltiplicare le prospettive e una diversità di età è davvero una prospettiva significativa, per quanto trascurata. Men of a Certain Age ci aveva provato con gli uomini ed era stata cancellata troppo presto. Dovrebbe esserci in generale molto di più. E se una serie come Hacks mette in contatto due generazioni diverse attraverso due donne diverse, qui sono le stesse donne in momenti della vita altri. Assistere a come la vita le ha cambiate è potenzialmente rivoluzionario – chi mai lo ha fatto fuori dalle soap e la serie di film documentaristici Up? È una rarità. Il fulcro non è più il sesso e le conversazioni su di esso. E si è aumentato il quoziente di diversità, aspetto sui cui la serie di partenza era sempre stata criticata, anche con un’amica nera di Charlotte, Lisa (Nicole Ari Parker). 

Questa creazione di Darren Star ha fatto una mossa audace, con il twist narrativo che mi ha fatto piangere, ma forse anche di più per una scelta che non mi aspettavo: ha deciso di rendere le proprie eroine out-of-touch, un po’ – oso dirlo? - attempate. Non vecchie, ma nemmeno in contatto con lo Zeitgeist. Se prima erano cool e sulla cresta dell’onda, rampanti, ora hanno perso consapevolezza di quello che è innovativo e all’avanguardia, faticano a stare al passo coi tempi. Solo in campo di moda d'abbigliamento sembrano essere rimaste aggiornate: sempre elegantissime. A Carrie nel podcast viene chiesto se si è mai masturbata in pubblico. È in imbarazzo a rispondere e zigzaga per evitare di farlo sul serio. Lei è abituata alla carta stampata. Essere così verbalmente esplicita la mette a disagio: lei che ha sempre trattato questi temi? Non è sembrato troppo plausibile, a dire il vero. E davvero vogliono farci credere che non sapeva se Mr Big si masturbava? Andiamo, la sospensione dell’incredulità ha i suoi limiti. Miranda fa una figuraccia la prima volta a lezione, con insegnanti e compagni, inanellando una serie di commenti infelici - razzismo, binarietà e privilegio bianco incapsulati in poche frasi che solevano gli sguardi inorriditi dei compagni. Charlotte insiste con la figlia Rose perché indossi un abito tutto fiori che lei non è evidentemente a suo agio nell’indossare. Rispetto ai dibattiti odierni, sono rimaste indietro. E quello sì è un confronto che è importante fare. Applaudo il coraggio di And Just Like That di intraprenderla. Forse sapranno proprio essere rilevanti nella conversazione extradiegetica perché hanno il coraggio di essere uncool in quella diegetica. Hanno ancora molto da imparare, e forse noi con loro.

Poi in definitiva, uno degli aspetti più pregnanti di quella che a questo punto diventata a tutti gli effetti un dramedy (anche nella durata degli episodi) era l’amicizia fra queste “donne archetipo”. E quella sembra rimasta. Non pare che sia un programma travolgente che non si deve assolutamente perdere, non è grande televisione, ma dalle prime due puntate assaggiate fa credere di avere ancora qualcosa da dire.   

mercoledì 8 dicembre 2021

ACS: IMPEACHMENT: nulla di nuovo

Anche ad aver vissuto in una caverna - e per me all’epoca, con una MECFS severa era un equivalente - a essere stati in vita nella seconda metà degli anni ‘90, difficilmente non si conosce lo scandalo di Monica Lewinsky e dell’allora presidente degli Stati Uniti Bill Clinton, oggetto della terza stagione di American Crime Story, la serie stagionalmente antologica di Ryan Murphy, con un capitolo intitolato “Impeachment” (di FX, in Italia su Fox). Doveva essere la quarta stagione, ma la terza sull’uragano Katrina è stata abbandonata, e questa è diventata la terza.

Se ripenso a quella storia nella vita reale, due immagini mi rimangono indelebili, quella di Clinton che abbraccia la stagista, con lei che indossa un basco blu, e quella di lui che, con un dito alzato, dichiara “non ho avuto una relazione sessuale con quella donna”. La prima torna qui, la seconda no (forse ho un ricordo falsato io?), ma in compenso si spiega bene il come “relazione sessuale” sia stata intesa allora, così come definita dai legali di Paula Jones (Annaleigh Ashford, Masters of Sex), che per prima aveva fatto causa all’ex-governatore dell’Arkansas.

La serie sceglie di non mostrare alcun atto fra Bill (Clive Owen) e Monica (Beanie Feldstein) – se qualcuno si aspetta qualcosa di pruriginoso ha sbagliato indirizzo. Se ho apprezzato che non ci sia stato un taglio scandalistico, mi sono interrogata di continuo, in corso di via, se sia stata la scelta migliore non mostrare nulla di nulla. Le vicende si sono chiarite, ma mi è rimasta dalla visione la stessa idea che avevo avuto allora, ovvero di una stagista in fondo ingenua e realmente innamorata di un uomo che se ne è approfittato, e di una macchina politica tritatutto che ha cercato di cogliere ogni occasione per screditare e affossare l’avversario, ma senza che i coinvolti volessero attivamente ferirsi a vicenda. Sicuramente da parte della ragazza, resa dalla Feldstein con molta dolcezza, c’è il reiterato desiderio di proteggere da ogni possibile danno un uomo contro il quale alla fine fa dichiarazioni solo al fine di proteggersi. Più volte la mostrano che vuole chiamare Betty Currie (Rae Dawn Chong), la segretaria personale del presidente.

La mia aspettativa, disattesa, era di una rilettura delle vicende non tanto in termini di strumentalizzazione politica e giornalistica delle vicende – la brutalizzazione del carattere delle persone è una costante -, ma in prospettiva del #metoo. La realtà è diversa da allora, e non solo per la tecnologia che vedeva ai tempi un internet appena nascente, ma per una cultura di consapevolezza, ora, di come le dinamiche di potere-lavoro-sesso-molestie possano rendere vulnerabili le persone, di come sia indispensabile il consenso e di come in alcune situazioni possa essere difficoltoso definirlo. E forse in questo, mostrare qualcosa in più poteva avere un senso. L’unica che in fondo è sembrata indignata di come Monica venisse usata è quella Linda Tripp (Sarah Paulson) - nella vita reale scomparsa lo scorso anno - che nemmeno qui riesce a uscirne come un’eroina, troppo consumata da risentimenti personali e traditrice della fiducia dell’amica. Le sue ragioni hanno comunque il sapore di giustificazioni dell’ultim’ora per salvare la faccia. Le donne qui sono al centro, e sono vittime soprattutto di un sistema che alla fine le lascia in ogni caso sconfitte: Paula non creduta a dispetto di tutto e finanziariamente rovinata tanto da spingerla a posare senza veli, Linda derisa e vituperata, Monica magari anche apprezzata ma con addosso l’onta, e colei che muove addirittura un’accusa di stupro ignorata  - in un locale dei ragazzi vedono che c’è in onda un’intervista e chiedono di cambiare canale per una cerimonia di premiazione, stufi dell’ennesima storia su una donna finita sotto le grinfie di Clinton, che poi sarà quello che la gente perdona. E lui, giustificato dalla rabbia per la persecuzione politica a cui è sottoposto, ben poco prova rimorso per il proprio comportamento o sente di aver danneggiato queste donne. Questa amarezza in chiusura, e la consapevolezza (voglio credere non solo speranza) che oggi sarebbe andata diversamente è l’unica vera nota in questa direzione (3.10).

Sarah Burgess, showrunner che ha basato la serie sul libro “A Vast Conspiracy: The Real Story of the Sex Scandal That Nearly Brought Down a President” di Jeffrey Toobin, in un’intervista con TV’s TOP5 (qui), ha spiegato come il suo intento principale fosse quello di parlare dal punto di vista di persone che sono vicine al potere, ma sono costantemente ignorate, relegate a lavori noiosi e ripetitivi, privi di soddisfazione. Il riferimento è soprattutto a Linda Tripp, allontanata dalla Casa Bianca. Emerge la cospirazione. Quella Paula Jones un po’ tontolona, quella Tripp troppo sola, quella Monica così innamorata sono diventate facili munizioni in una guerra politica, usate anche da altre donne come l’ultraconservatrice Anna Coulter (di cui Cobie Smulters riesce bene a rendere l’odiosità), Susan Carpenter-McMillan (Judith Light) o in fondo anche dell’agente letteraria Lucianne Goldberg (Margo Martindale) ingranaggi della macchina di cui fanno parte. Loro, le donne, sono state un mezzo per affossare il presidente democratico e questo non è mai tanto evidente quando scelgono di ignorare un’accusa di stupro rivolta al capo di Stato: non c’è interesse a fare giustizia, lo scopo è incastrarlo per spergiuro e ostruzione alla giustizia.

Burgess non complica troppo le cose con personaggi secondari. Li butta lì, e se cogli chi sono bene, altrimenti la storia funziona comunque – l’americano medio mi aspetto li conosca, l’italiano medio no. Prendiamo 3.08. Quando Hillary Clinton (Edie Falco, I Soprano) ha un incontro con Stephanopoulos (George H. Xanthis), lo chiama solo George, sono l’aspetto fisico dell’attore ed eventualmente i sottotitoli che quando lui parla lo indicano per cognome (almeno quelli in inglese), che ti dicono chi è; quando sempre lei va al Today Show, e viene intervistata da Matt Lauer, lo stesso, e lo spettatore semmai può pensare a quell’intervista anche alla luce degli scandali che con il #metoo hanno coinvolto lui stesso; quando in un ufficio di consiglieri di Kenneth Starr (Dan Bakkedahl, Life in Pieces), Cavanaugh (Alan Starzinski) risulta particolarmente accanito, sta allo spettatore capire che è lo stesso che poi verrà nominato giudice della Corte Suprema da Trump.

Fra le produttrici esecutive risulta anche la stessa Monica Lewinsky. Nonostante episodi anche pressanti (penso agli interrogatori di Monica o Bill), e nonostante un cast di peso, che comprende anche Blair Underwood nel ruolo di Vernon Jordan e Colin Hanks in quello di Mike Emmick, la serie ha poco mordente, ma soprattutto non aggiunge davvero nulla di nuovo.