Anche ad aver vissuto in
una caverna - e per me all’epoca, con una MECFS severa era un equivalente - a
essere stati in vita nella seconda metà degli anni ‘90, difficilmente non si
conosce lo scandalo di Monica Lewinsky e dell’allora presidente degli Stati
Uniti Bill Clinton, oggetto della terza stagione di American Crime Story, la serie stagionalmente antologica di Ryan
Murphy, con un capitolo intitolato “Impeachment” (di FX, in Italia su Fox).
Doveva essere la quarta stagione, ma la terza sull’uragano Katrina è stata
abbandonata, e questa è diventata la terza.
Se ripenso a quella storia
nella vita reale, due immagini mi rimangono indelebili, quella di Clinton che
abbraccia la stagista, con lei che indossa un basco blu, e quella di lui che,
con un dito alzato, dichiara “non ho avuto una relazione sessuale con quella
donna”. La prima torna qui, la seconda no (forse ho un ricordo falsato io?), ma
in compenso si spiega bene il come “relazione sessuale” sia stata intesa
allora, così come definita dai legali di Paula Jones (Annaleigh Ashford, Masters of Sex), che per prima aveva
fatto causa all’ex-governatore dell’Arkansas.
La serie sceglie di non
mostrare alcun atto fra Bill (Clive Owen) e Monica (Beanie Feldstein) – se
qualcuno si aspetta qualcosa di pruriginoso ha sbagliato indirizzo. Se ho
apprezzato che non ci sia stato un taglio scandalistico, mi sono interrogata di
continuo, in corso di via, se sia stata la scelta migliore non mostrare nulla
di nulla. Le vicende si sono chiarite, ma mi è rimasta dalla visione la stessa
idea che avevo avuto allora, ovvero di una stagista in fondo ingenua e
realmente innamorata di un uomo che se ne è approfittato, e di una macchina
politica tritatutto che ha cercato di cogliere ogni occasione per screditare e
affossare l’avversario, ma senza che i coinvolti volessero attivamente ferirsi
a vicenda. Sicuramente da parte della ragazza, resa dalla Feldstein con molta
dolcezza, c’è il reiterato desiderio di proteggere da ogni possibile danno un
uomo contro il quale alla fine fa dichiarazioni solo al fine di proteggersi. Più
volte la mostrano che vuole chiamare Betty Currie (Rae Dawn Chong), la
segretaria personale del presidente.
La mia aspettativa, disattesa,
era di una rilettura delle vicende non tanto in termini di strumentalizzazione
politica e giornalistica delle vicende – la brutalizzazione del carattere delle
persone è una costante -, ma in prospettiva del #metoo. La realtà è diversa da
allora, e non solo per la tecnologia che vedeva ai tempi un internet appena
nascente, ma per una cultura di consapevolezza, ora, di come le dinamiche di
potere-lavoro-sesso-molestie possano rendere vulnerabili le persone, di come
sia indispensabile il consenso e di come in alcune situazioni possa essere
difficoltoso definirlo. E forse in questo, mostrare qualcosa in più poteva avere
un senso. L’unica che in fondo è sembrata indignata di come Monica venisse
usata è quella Linda Tripp (Sarah Paulson) - nella vita reale scomparsa lo
scorso anno - che nemmeno qui riesce a uscirne come un’eroina, troppo consumata
da risentimenti personali e traditrice della fiducia dell’amica. Le sue ragioni
hanno comunque il sapore di giustificazioni dell’ultim’ora per salvare la
faccia. Le donne qui sono al centro, e sono vittime soprattutto di un sistema
che alla fine le lascia in ogni caso sconfitte: Paula non creduta a dispetto di
tutto e finanziariamente rovinata tanto da spingerla a posare senza veli, Linda
derisa e vituperata, Monica magari anche apprezzata ma con addosso l’onta, e colei
che muove addirittura un’accusa di stupro ignorata - in un locale dei ragazzi vedono che c’è in
onda un’intervista e chiedono di cambiare canale per una cerimonia di premiazione,
stufi dell’ennesima storia su una donna finita sotto le grinfie di Clinton, che
poi sarà quello che la gente perdona. E lui, giustificato dalla rabbia per la
persecuzione politica a cui è sottoposto, ben poco prova rimorso per il proprio
comportamento o sente di aver danneggiato queste donne. Questa amarezza in
chiusura, e la consapevolezza (voglio credere non solo speranza) che oggi
sarebbe andata diversamente è l’unica vera nota in questa direzione (3.10).
Sarah Burgess, showrunner
che ha basato la serie sul libro “A Vast Conspiracy: The Real Story of the Sex
Scandal That Nearly Brought Down a President” di Jeffrey Toobin, in
un’intervista con TV’s TOP5 (qui),
ha spiegato come il suo intento principale fosse quello di parlare dal punto di
vista di persone che sono vicine al potere, ma sono costantemente ignorate,
relegate a lavori noiosi e ripetitivi, privi di soddisfazione. Il riferimento è
soprattutto a Linda Tripp, allontanata dalla Casa Bianca. Emerge la
cospirazione. Quella Paula Jones un po’ tontolona, quella Tripp troppo sola,
quella Monica così innamorata sono diventate facili munizioni in una guerra
politica, usate anche da altre donne come l’ultraconservatrice Anna Coulter (di
cui Cobie Smulters riesce bene a rendere l’odiosità), Susan Carpenter-McMillan
(Judith Light) o in fondo anche dell’agente letteraria Lucianne Goldberg (Margo
Martindale) ingranaggi della macchina di cui fanno parte. Loro, le donne, sono
state un mezzo per affossare il presidente democratico e questo non è mai tanto
evidente quando scelgono di ignorare un’accusa di stupro rivolta al capo di
Stato: non c’è interesse a fare giustizia, lo scopo è incastrarlo per spergiuro
e ostruzione alla giustizia.
Burgess non complica
troppo le cose con personaggi secondari. Li butta lì, e se cogli chi sono bene,
altrimenti la storia funziona comunque – l’americano medio mi aspetto li
conosca, l’italiano medio no. Prendiamo 3.08. Quando Hillary Clinton (Edie
Falco, I Soprano) ha un incontro con Stephanopoulos (George
H. Xanthis), lo chiama solo George, sono l’aspetto fisico dell’attore ed
eventualmente i sottotitoli che quando lui parla lo indicano per cognome
(almeno quelli in inglese), che ti dicono chi è; quando sempre lei va al Today
Show, e viene intervistata da Matt Lauer, lo stesso, e lo spettatore semmai può
pensare a quell’intervista anche alla luce degli scandali che con il #metoo
hanno coinvolto lui stesso; quando in un ufficio di consiglieri di Kenneth Starr
(Dan Bakkedahl, Life in Pieces),
Cavanaugh (Alan Starzinski) risulta particolarmente accanito, sta allo
spettatore capire che è lo stesso che poi verrà nominato giudice della Corte
Suprema da Trump.
Fra le produttrici esecutive risulta anche la stessa Monica Lewinsky. Nonostante episodi anche pressanti (penso agli interrogatori di Monica o Bill), e nonostante un cast di peso, che comprende anche Blair Underwood nel ruolo di Vernon Jordan e Colin Hanks in quello di Mike Emmick, la serie ha poco mordente, ma soprattutto non aggiunge davvero nulla di nuovo.
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