Se
un solo libro di televisione intendete leggere, fate che sia questo: Complex
TV, di Jason Mittell (Minimum Fax, 2017).
Scrivo
in termini personali come raramente faccio.
Ho
un distinto ricordo di me alle elementari che penso “la mia maestra non capisce
niente di televisione”, io che all’epoca facevo già le schede dei cartoni
animati. Come farle, per i libri, ce lo aveva insegnato una supplente di terza
elementare. C’è voluto molto tempo prima di incontrare qualcuno che “parlasse
la mia lingua”, televisivamente parlando. La maggior parte dei critici colti
erano troppo snob nei confronti del medium, e non riuscivano a coglierne l’essenza.
La gran parte della gente comune è spesso così tutt’ora. Per i più la
televisione in passato era la sorella stupida del cinema, non qualcosa con una propria identità.
Ora sono grande e non mi disturba o ferisce come quando ero bimba, ora mi
irrito solo quando un simile atteggiamento viene da presunti esperti o da
persone la cui opinione dovrebbe valere più di quella di qualcun altro in virtù
del proprio ruolo culturale in altri settori, come è stato il caso quando ho
attaccato pubblicamente lo scrittore e poeta Hans Magnus Enzensberger che presenziava alla manifestazione culturale
che si tiene a Pordenone chiamata “Dedica Festival”, nell’orami lontano 18
marzo 2010: aveva snocciolato troppi insulsi luoghi comuni. Avevo pubblicato un
piccolo articolo in proposito per il giornale per cui scrivevo, e magari lo
riproporrò qui sul mio blog, in futuro. Suppongo che in passato la maggiorana
degli studiosi fosse anche culturalmente troppo vecchia e rigida per
comprendere a pieno qualcosa con cui non erano cresciuti. Quei pochi che magari
ci provavano anche, e penso ai vari “Espresso” e “Panorama” e affini, con le
varie donne nude in copertina, con tutto quello che si porta appresso un
atteggiamento accettante di questo genere di confezione, erano troppo respingenti
in toto per essere presi sul serio da una giovane donna. E anche lì, quello che
leggevo raramente dimostrava di comprendere i meccanismi del mezzo che fruivano
come autonomi, con proprie regole funzionali ed estetiche. Non so nemmeno di
preciso quando io sia riuscita ad averlo, ma non è prima degli anni del liceo
che sono riuscita a leggere “Television:
the critical view – fourth edition”, difficile com’era all’epoca recuperare
qualunque tipo di materiali, e mi sono sentita finalmente meno sola.
Ora
c’è una vibrante comunità di critici e accademici, e talvolta anche di semplici appassionati, spesso più brillanti e acuti
di me che ho comunque una comprensione di queste tematiche nel sangue, sono la
mia identità, sono nel mio DNA culturale più di ogni altra realtà, e che con
l’espandersi quantitativa degli universi narrativi seriali e per le mie
difficoltà di salute, in qualche caso mi sento in ritardo, sempre sommersa e in
difficoltà a stare al passo. Bene così. Io so di sapere, ma so di non sapere. Si
dice che se si è i più brillanti in una stanza, si è nella stanza sbagliata. Io
mi trovo a mio agio in molte stanze, e lo stimolo migliore viene dal dialogo,
dal confronto, dall’accettazione e convivenza di asserzioni contrapposte
ugualmente vere. Evviva.
Quando
poi leggo libri come quello citato in apertura sono finalmente a casa. Mi sento
profondamente in sintonia con Mittell, di cui ho anche avuto l’onore di essere
la traduttrice per la raccolta saggistica “Cult
TV”. Ha un inglese elegante, e lo consiglio in originale, anche se in
questo caso l’ho letto in italiano (un’offerta lampo dell’edizione digitale,
ammetto). La traduzione è molto buona, anche se non capisco perché si sia
deciso di tenere producer invece di
produttore. Forse indica una figura professionale differente rispetto
all’italiano e io, a dispetto delle mie vantate conoscenze non me ne rendo
conto? Ripenso alla mia tesi di laurea: nel caso di “opinion” della Corte Suprema americana e “opinione” dei giudici
nostrani aveva senso tenere “opinion”
perché ha un valore giuridico diverso rispetto ad “opinione”. È una situazione simile? Se avete una risposta, illuminatemi. La sola
volta in cui la traduzione mi ha deluso è quando ho visto scritto “il critico
Emily Nussbaum”, invece de “la critica Emily Nussbaum”: è una donna, e capita
che abbia vinto il Pulitzer per i suoi articoli di critica televisiva. Sto a
pignolare.
Sono
in sintonia con Mittell – anche se a me Mad
Men piace molto, mentre a lui no – e sono appagata dal fatto che ci siano
studiosi che riescono a ragionare in questi termini rispetto al piccolo
schermo. Non è il primo e non è l’unico, nel mare magnum accademico attuale, ma
è sicuramente una voce autorevole che è al contempo lucida, aperta e
innovativa. Riesce a offrire categorie di indagine e di riflessione stimolanti
e utili.
Qui,
in un testo modulare – come lo definisce appropriatamente Barra in una
postfazione - di cui spiega in chiusura la costruzione ed evoluzione, parlando
di serialità ci introduce alla categoria di “TV complessa”, di cui indaga i
meccanismi narrativi, prendendo le distanze dalla più problematica dicitura di
“TV di qualità”. L’approccio scelto è quello della poetica (storica, cognitiva,
orientata al lettore), quindi cerca di capire come funziona un testo guardando
ai modi stilistico-formali in cui costruisce il suo senso. Lo fa in una
prospettiva che non si limita al testo, ma è anche profondamente legata al
contesto perché fa riferimento a una visione culturale in cui interagiscono
autori, industria, critica e pubblico concorrendo a plasmare lo storytelling, e
in cui un programma è l’origine di una rete intertestuale dove hanno un ruolo
anche i paratesti, che considera parte integrante della testualità televisiva
nella misura in cui un testo costruisce il suo significato quando circola e
viene fruito e diventa e vive in pratiche culturali attive.
Questo
libro è denso di spunti, su inizi e fini, personaggi, eventi, temporalità.
L’idea dell’estetica funzionale fa da filo conduttore, ovvero il principio per
cui la narrativa seriale televisiva complessa spinge gli spettatori non tanto a
chiedersi che cosa avverrà, e quindi ad essere trasportati in un mondo
finzionale credibile, ma come è stato realizzato, giocando perciò con il senso
di stupore nell’osservare gli ingranaggi in azione. Lo spettacolo è l’effetto
speciale narrativo.
Fra
le riflessioni più stimolanti c’è quella sull’autorialità, un tema spinoso in
un medium collaborativo come la televisione. Utile è il concetto della funzione
dell’autore desunto. L’Autore è creato dagli spettatori in dialogo con il testo,
viene appunto “desunto” creando un ipotetico “loro” di responsabili dello
storytelling, è quindi costruito dal testo, ma anche attraverso l’atto di
ricezione e quindi dalla fruizione e dai discorsi intorno al testo stesso.
Infine
un altro aspetto che apprezzo molto, e questa non è la prima volta che Mittell lancia un simile appello: auspica una maggiore trasparenza da parte degli studiosi nel
senso di non avere timore di esprimere un giudizio valutativo nei confronti delle
serie di cui parlano. Non farlo non rende lo studio più scientifico, ma al
contrario nasconde un elemento importante nella discussione di un’opera culturale.
“Un’obiezione mossa di frequente al giudizio critico è che esso crea e alimenta
delle gerarchie culturali, perché valorizza una pratica culturale a scapito di
un’altra, attraverso una modalità di distinzione che, come dimostrato da Bordieu,
rinforza i rapporti di potere sociale. Dobbiamo comunque spingerci al di là di
una logica binaria, e quindi riduttiva, per la quale il valore sarebbe un «gioco
a somma zero», in cui lodare un qualsiasi canone scredita il suo opposto”. Concordo
in pieno: è approccio ideale, per quanto mi riguarda.
Sicuramente sarà una strenna graditissima a chi è appassionato di TV, se siete in cerca di idee in quel senso, ma penso possa anche essere una scoperta per chi non ha idea di che cosa facciano i television studies, che senso abbiano. Il mio unico scrupolo in questo caso è che non riesco ragionevolmente ad avere una percezione di come possa essere recepito da lettori che non conoscono per nulla i testi che cita. Non credo che ci fosse un solo titolo da lui menzionato che io non conoscessi o su cui magari non avessi anche scritto. Se lo spettatore medio dubito conosca magari titoli come Kingpin (che io ho amato molto), Rubicon (ne ho parlato qui) o Boomtown (che apprezzo molto per una narrativa che ricordo di aver pensato “alla Picasso”, ma che non ho seguito interamente), è anche vero che questi sono citati en passant, e che le analisi più approfondite sono su mostri sacri come Lost, Breaking Bad, The Wire, I Soprano, che mi aspetto che il fruitore medio interessato abbia, se non visto, almeno più o meno presenti. Se così non fosse, ho l’impressione che il lettore comunque potrebbe capire, ma magari mi sbaglio, o magari parte delle sue argomentazioni non riescono altrettanto a centrare il bersaglio perché non si capisce di che cosa si sta parlando. Salvo questa riserva, penso che sia una lettura pregnante. Un must-read.
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