Non è arrivata come una gran sorpresa la cancellazione di Rubicon, il telefilm che in Italia ha debuttato alla fine di ottobre su Joi ed è andato in onda negli USA sulla AMC (Mad Men, Breaking Bad, The Walking Dead). È difficile: elegante ma lento, lentissimo. È voluto, è il suo stile, il suo modo di creare quella che è l’atmosfera principale che si gusta, quella del sospetto e della paranoia, ma sottile, sbieca. L’ispirazione dichiaratamente è quella di molti film classici degli anni ’70 come Tutti gli uomini del presidente o I tre giorni del condor. E all’inizio non si ha molto chiaro, anche qui volutamente, che cosa stia succedendo. Questo non pregiudica la possibilità di godersi quello che accade, grazie anche alle relazioni fra i personaggi, costruite in modo molto sottile, spesso al confine fra il detto e il non detto, fra il saputo e l’insinuato. Quest’ultimo, devo ammettere, è uno degli aspetti che più mi ha appassionato. È un programma, come lo ha descritto il Miami Herald, con “la lucidità di un film d’arte cecoslovacco a cui sono stati tolti i sottotitoli”, anche se alla fine quello stesso giornale lo stronca dicendo che “non supera mai le sue allusioni di grandeur. Offre molte sinistre inquietudini, poca azione – una collezione senza fine di criptici sguardi furtivi e buie inquadrature di corridoi stretti e ombrosi.” Osservazioni con un loro fondamento che giustificano lo scarso successo del telefilm.
Protagonista principale è Will Travers (James Badge Dale di The Pacific) un analista di dati per una fittizia agenzia di spionaggio chiamata American Policy Institute (API) che ha perso moglie e figlia nell’attacco dell’11 settembre. Nell’incipit un potente miliardario si toglie la vita, e la moglie, Katherine Rhumor (Miranda Richardson), trova sulla sua scrivania un quadrifoglio. Poco dopo, il mentore di Will muore in quello che è solo apparentemente un incidente ferroviario. A Will viene offerta una promozione da parte del suo capo, l’enigmatico Kale Ingram (Arliss Howard in uno dei personaggi più affascinanti e intriganti della serie), che lo fa spiare dalla collega Maggie Young (Jessica Collins di The Nine), che è anche attratta da lui. Will e i colleghi – Grant Test (Christopher Evan Welch), Miles Fiedler (Dallas Roberts di The L Word) e Tanya MacGaffin (Lauren Hodges) visionano un’infinità di carte provenienti da CIA, FBI e quant’altri e cercano di ricostruire le informazioni di intelligence, e quando scoprono sui diversi giornali internazionali un pattern nei cruciverba, cominciano a districare una possibile cospirazione. Will poi, che indaga anche segretamente per conto suo, si vede seguito e ascoltato da cimici messe in ufficio e a casa.
Il telefilm, ideato da Jason Horwitch, che ha poi lasciato il programma per divergenze creative per lasciarlo nelle mani del produttore esecutivo Henry Bromell (Homicide, Brotherhood), è esplicitamente post-Bush e post-24 nel modo in cui prende posizione contro la tortura. Attraverso le parole di Miles la posizione dello show è che non si può e non si deve ricorrere alla tortura, e non tanto per proteggere chi la subisce, che magari se la merita anche, ma per proteggere l’umanità di chi sarebbe costretto a perpetrarla.
Il titolo fa chiaramente riferimento al fiume Rubicone e alla famosa espressione di “attraversare il Rubicone” riferita a Giulio Cesare, che lo ha appunto attraversato nel 49 a.c., azione considerata un atto di guerra dal momento che era proibito all’esercito da parte del senato Romano. Il senso è quello di attraversare un punto di non ritorno; per dirla con le parole di Bromell: “avevano sempre paura che l’esercito romano prendesse un giorno il sopravvento, che è esattamente quello che è avvenuto (…) e quello è stato il momento in cui la repubblica è finita e l’impero – che è la dittatura – è cominciato”.
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