martedì 26 aprile 2016

GAYCATION: la condizione LGBTQ in giro per il mondo


In Gaycation (su Vice) Ellen Page (Juno) e il suo migliore amico Ian Daniel vanno in giro per il mondo a scoprire come vivono le comunità LGBTQ nei vari Paesi e che difficoltà devono affrontare. Incontrano attivisti e gente comune, ma anche persone ostili alla comunità gay, per capire un po’ la situazione di fatto, le aspirazioni e i punti di vista di tutti, nella prospettiva antropologica e culturale locale.
Ne esce una serie documentaristica che da un lato è “leggera”, perché è una gaycation dopotutto, una vacanza gay, di scoperta e di gioia, ma da un altro lato è “pesante” nel senso migliore del termine per il valore che ha, ed è potente e intensa, perché fa emergere questioni dolorose di discriminazioni, violenza, repressione e mancata accettazione. Sono storie umane.
Per il momento le puntate sono state 4. Sono andati in Giappone, Brasile, Giamaica e Stati Uniti - i link vi portano alle puntate su YouTube. Traspare che Ellen e Ian sono amici sinceri. Hanno una facilità di contatto fisico l’uno con l’altra e una fluida consapevolezza di cadere sul morbido nell’interazione personale che è evidentemente molto naturale e navigata e  magnifica da vedere e dà loro forza nell’affrontare anche i momenti più difficili.
Spesso a fine puntata, ma non solo, vengono presentate situazioni davvero intense. In Giappone un giovane uomo decide di fare coming out con la madre. Non vuole essere da solo nel momento in cui lo fa, perché non sa che reazione aspettarsi. Si rivolge perciò ad un’agenzia che affitta familiari ed amici (sic!) per le persone che non ne hanno. Si aggregano anche i due conduttori che si trovano a disagio nel dover essere presenti a una circostanza tanto intima fra due familiari. Lo fanno con gran rispetto, onore pure. In Brasile incontrano un uomo, che maschera in parte il proprio volto per non rivelare la propria identità, che dichiaratamente odia tutti i gay, tanto più dopo che ha beccato in flagrante il figlio che lo è, e che ha lasciato il Paese evitando ogni successivo contatto con la propria famiglia. Quest’uomo dedica la sua vita a uccidere quanti più gay riesce. Ne ha già eliminati diversi. È palpabile  la paura della giovane attrice che fino a quel momento non ha rivelato il suo orientamento sessuale, che si rivolge a chi sta facendo le riprese chiedendo e chiedendosi se sia pericoloso per lei, e per l’amico che è lì con lei, rivelarlo.
In voice-over la Page fa alcune riflessioni su quello che vede e sente e vive. Uno degli aspetti più audaci è stato quello di affrontare a viso aperto persone che attivamente militano contro i diritti delle persone LGBTQ in politica – nella puntata sugli Stati Uniti affronta Ted Cruz, candidato alle presidenziali 2016 per i repubblicani - e comunque nella propria vita quotidiana Si tratta di conversazioni aperte e civili, ma immagino che, guardare in faccia persone che esplicitamente ti respingono per quello che sei, sia molto duro e ti mini nel tuo essere in un modo che si trascina nel tempo. Per questo l’ho molto apprezzata e in un certo senso mi sono sentita riconoscente, come spettatrice, perché ha avuto il coraggio di farlo.    
Un viaggio stimolante ed edificante, che lascia anche disillusi, ma di cui c’è bisogno. Spero ci siano altre puntate in futuro, anche se non sembrano previste.  

martedì 19 aprile 2016

Premio Pulitzer a EMILY NUSSBAUM


È andato alla critica televisiva del New Yorker Emily Nussbaum il premio Pulitzer per la critica. Qui il link a lei dedicato in questa circostanza, con i suoi lavori. Qui un pezzo del Washington Post che spiega perché chi si occupa di televisione ha ragione di rallegrarsi.

È il secondo anno di seguito che questo premio va a una donna che si occupa di televisione. Lo scorso anno il premio è andato a Mary McNamara, del Los Angeles Times.  

lunedì 18 aprile 2016

GAME OF SILENCE: overplotting e poco spessore

 
Basata su una serie turca, Suskunlar, a sua volta basata su una storia vera, Game of Silence parla di un gruppo di ragazzini preadolescenti che vengono messi in riformatorio per aver causato gravi lesioni a una donna in seguito a un incidente con un auto che evidentemente non potevano ancora guidare, ma che avevano sottratto per salvare la fidanzatina di uno di loro dalla madre alcolista, salvo poi far scappare la ragazzina per evitare almeno a lei le conseguenze dell’acaduto.  Sbattuti nella Quitman Youth Detention Facility, in Texas, subiscono violenze e abusi di ogni tipo da parte dei secondini, con il benestare del direttore della prigione che, se gradiva qualche fanciullo in particolare, se lo faceva portare ai suoi party (con conseguenze di violenza sessuale che lasciano immaginare).
A 25 anni di distanza ormai i giovani amici si sono fatti una loro vita. Boots (Derek Phillips), che è stato uno di questi “favoriti” del direttore del carcere, un giorno incrocia uno dei secondini, prende una mazza da golf e quasi lo ammazza. È così che gli altri del gruppo, Shawn (Larenz Tate) e Gil (Michael Raymond-James), decidono di contattare Jackson Brooks (David Lyons), che è ora uno stimato avvocato che sta per sposarsi con la collega Marina (Claire Van Der Boom). Lui rivede tutti, compresa quella che un tempo era la sua ragazza, Jessie (Bre Blair), che ora sta con Gil, e si fa convincere prima a difendere Boots, poi comunque a vendicarsi del direttore Roy Carroll (Conor O’Farrell) che nel frattempo si è dato alla politica. Fra flashback e ulteriori sottotrame che comprendono il traffico di droga e una sollevazione al penitenziario, la vicenda si fa ulteriormente complicata, fra segreti e appunto i silenzi del titolo.
Sviluppata per la NBC da David Hudgins, nonostante la buona recitazione, la storia non convince. Si pecca sicuramente di overplotting, ovvero di un inutile “eccesso di trama” che appesantisce senza ragione una costruzione narrativa che non lascia peraltro alcuno spazio a un minimo di approfondimento psicologico. I cattivi della situazione sono perfino ridicolmente privi di spessore, sottigliezze o sfumature non esistono, ogni passaggio è rimarcato in modo molto pesante per essere sicuri che capiamo bene che sono successe cose davvero terribili che meritano una vendetta altrettanto terribile, ma i crimini sono pure di un orribile molto generico e “di circostanza” su cui si insiste quasi con gusto sadico. Le donne sembrano più un “segnaposto” che altro. Di suo comunque non è inguardabile, ma è un thriller spedito e pieno di colpi di scena - anche se chi ha continuato la visione oltre al pilot suggerisce che spesso sono scontati o poco verosimili - per cui è perfetto per chi non ha troppe pretese e si accontenta di una trama avvincente.

martedì 12 aprile 2016

THE LEFTOVERS: la seconda stagione


Premesso che il fulcro della riflessione di The Leftovers - Svaniti nel Nulla, come già nella  prima stagione, è il dolore umano, e primariamente il dolore della perdita, ho concepito la seconda stagione quasi come una antitesi fichtiana alla tesi della prima stagione e a quella che mi aspetto essere la sintesi della prevista terza e ultima. Forse è azzardato e lascio questa osservazione solo come suggestione. I personaggi, che vivono “vite di quieta disperazione”, per dirla alla Thoreau, in questo arco cercano un distacco, una separazione da quella che è posta come la nota distintiva intrinseca della condizione umana, ovvero il lutto, qui collettivo e permanente.
ATTENZIONE: SPOILER SIGNIFICATIVI DI TRAMA IN QUESTO PARAGRAFO. Kevin Garvey (Justin Theroux) e la compagna Nora Durst (Carrie Coon), insieme al bebè che era stato lasciato davanti alla loro porta e alla figlia adolescente di lui,  si trasferiscono a Jarden, in Texas, una cittadina circondata dal parco nazionale di Miracle (Miracolo) e non toccata dall’improvvisa dipartita che ha coinvolto il 2% della popolazione in tutto il resto del mondo il 14 ottobre. Per questa ragione è considerato quasi un luogo sacro, meta di pellegrinaggio, anche se per poterci abitare la procedura è difficile e complicata, e solo coloro che hanno il permesso e indossano un braccialetto specifico intorno al polso possono farlo. Ci sono guardie e cancelli. Gli altri bivaccano nei paraggi, ammassati in tende e roulotte, coinvolti in diverse attività – alcuni letteralmente messi alla gogna. Kevin ha delle visioni di Patti Levin (Ann Dowd) la leader dei Guilty Remnants, i Colpevoli Sopravvissuti, che lui ha ucciso, che lo tormentano. Si rivolge a un “guaritore”, Virgil (Steven Williams) per liberarsene e riuscirà a farlo solo morendo, sebbene solo temporaneamente (nello straordinario episodio capsula – un trend del momento peraltro - “Assassino Internazionale”, 2.08). Nella nuova location si è trasferito anche Matt (Chris Eccleston) con la moglie catatonica Mary (Janel Moloney), anche se poi lui è costretto a rimanere fuori. Lei rimane incinta e a fine stagione si sveglia. Vicini di casa di Kevin e Nora sono i Murphy, John (Kevin Carroll) e Erika (Regina King), la cui figlia Evie (Jasmin Savoy Brown), insieme a due amiche, scompare, pochi  giorni dopo l’arrivo di Kevin e solo  alla fine si scopre che ha inscenato lei la propria dipartita per aggregarsi ai Guilty Remnants. Laurie (Amy Brennenan) ha lasciato la setta e con l’aiuto del figlio Tom (Chris Zylka) cerca di far evadere da quella prigionia ideologica altri membri. Quest’ultimo si propone come un santone in grado di liberare le persone dal dolore abbracciandole ma, considerandosi una frode, ci rinuncia. Megan (Liv Tyler) al contrario diventa sempre più attiva nei Colpevoli Sopravvissuti - l’autore Damon Lindelof al New York Times ha spiegato come sia stato progressivamente più interessato all’idea della radicalizzazione all’interno delle nascenti religioni - ed entra forzosamente a Jardin per distruggerla.
Se la serie ideata da Damon Lindelof (Lost) e Tom Perrotta nella prima stagione era basata sull’omonimo libro di quest’ultimo, la seconda ha presentato materiale originale. La narrazione si è fatta più vicina a quella di Lost, più frastagliata, meno unitaria, più onirica e allucinatoria, a momenti visionaria, straniante ed alienante. La “distruzione” di Jardin, dovuta non a una paventata bomba, ma a una sovversione dell’idea di possibile isolamento dal dolore, ha l’aspetto de “La Strada” di Cormac McCarthy (Il libro, non ho visto il film). Il racconto è fortemente simbolico e a momenti espressionista, aiutato da una colonna sonora intensamente evocativa e da un uso dell’audio parlato “a intermittenza”, che temporaneamente scompare sopraffatto da altri codici espressivi in alcune porzioni di scene. Si utilizzano filtri che danno un valore pittorico alla cinematografia. Ci sono riferimenti biblici: uno per tutti la “miracolosamente” incinta Mary - Maria perciò - che peregrina col marito in cerca di un alloggio che nessuno riesce a trovarle in “Non c’è posto nella locanda” (2.05). C’è un’ambizione diacronica che si espande alla notte dei tempi: “L’asse del mondo” (2.01) debutta letteralmente ai tempi dell’uomo (o forse dovremmo dire della donna) delle caverne. La scrittura sembra quasi costruita come placche tettoniche e c’è uno slittamento narrativo e di piani di realtà che non solo evoca fortissimamente Lost, come dicevamo più sopra, e la paternità di Lindelof in questo caso è indubbia, ma che in questo momento solo programmi come Mr Robot o Penny Dreadful, mutatis mutandis, eguagliano, serie con cui condivide l’aspirazione a dilatarsi nella spiegazione della vita tout court.    
“Non capisco che cosa stia succedendo” dice John Murphy a Kevin Garvey in “Sulla via di Casa” (2.10). “Nemmeno io” gli risponde lui. È una serie in cui probabilmente si è destinati a rimanere frustrati se di vuole che tutto sia perfettamente intellegibile. Bisogna più farne esperienza. La nuova sigla di apertura (diversa perciò da quella della prima stagione) ha la canzone “Let the Mystery Be” di Iris DeMent come traccia musicale. Il testo dice “Everybody’s wondering when and where they all came from / Everybody’s worrying about where they’re gonna go when the whole thing’s done / But no one knows for certain and it’s all the same to me / I think I’ll just let the mystery be” ovvero “Tutti si domandano quando e da dove vengano / Tutti si preoccupano su dove andranno quando tutto sarà finito / Ma nessuno lo sa per certo e per me è tutto lo stesso / Penso che semplicemente lascerò che sia un mistero”. Questo lasciare che sia un mistero è una sorta di prerequisito epistemologico, per così dire, nella fruizione delle puntate. Allo stesso tempo comunque la serie, proprio come Lost, non si presta ad una visione casuale, ma ingaggia se non proprio quello che Jason Mittell chiama un “fandom forense”, quanto meno una visione fortemente interpretativa.
Forse, come è stato suggerito (Den of Geek!) la serie è almeno in parte una sorta di test di Rorschach televisivo. Io ho dato un mio significato a quello che ho visto, e di fondo questo è che tutti hanno subito una perdita, un dolore, un lutto, più o meno intenso ed esplicito. Nessuno può ritenersi immune da questo, nessuno è “miracolato” e nessuno può tenersi perciò al riparo dalla possibilità che questo accada di nuovo in futuro, tanto più escludendo gli altri (come si cerca di fare a Jardin, con il cancello, il ponte, le guardie…), o fingendo di avere una soluzione (come faceva Tom). Ci sarà sempre chi ci ricorderà che non siamo immuni (i Guilty Remnants).  Accadono i miracoli, talvolta (Matt e Mary), non sappiamo perché o per come, ma dai terremoti della vita (e qui ce n’è più di qualcuno) non abbiamo scampo. Le sole realtà che fanno la differenza, e che dobbiamo difendere con tutti noi stessi dalla folla che avanza feroce e da chi ne mette in dubbio la legittimità (Nora col bambino nella finale di stagione) sono la famiglia e la casa. Kevin è costretto a cantare “Homeward Bound” (Diretto verso casa) di Simon & Garfunkel nel karaoke dell’aldilà per salvarsi la vita in “Sulla via di casa” (2.10) e in chiusura, ferito, è a casa che ritrova tutti i suoi affetti, sebbene uno isolato dall’altro, nella modalità in cui la telecamera ce li mostra.
Di The Leftovers ho preferito la prima stagione alla seconda. Non di meno ci sono stati momenti di questa che ho considerato autentica arte – non so come si possa vedere “Assassino Internazionale” (2.08) e non pensare che la TV è arte. Si è davanti a un testo denso, superbamente recitato, che lascia frastornati e pesti, ma che io lascio trasudi in me anche nelle sue possibili incoerenze.    
Nella serie la dicitura “14 ottobre” viene utilizzata alla maniera dell’11 settembre, ma è evidente che non c’è un significato politico o storico specifico in questo caso. Il 14 ottobre è appunto il lutto qualunque esso sia. Questa stagione in particolare invita a intendere la perdita proprio in senso molto più ampio del solo perdere una persona (se ha un significato quello che Evie e le sue amiche hanno fatto nell’inscenare la loro scomparsa è proprio quello). Chiudo perciò con un’osservazione a latere sulla nuova sigla (sotto) che non centra propriamente con la serie, ma a cui ho pensato spesso in questi mesi. I fotogrammi che si susseguono sono varie foto da cui sono quasi “ritagliate” le persone svanite: di loro si vede solo un contorno con dentro il vuoto. Nel documentario sulla CFS/ME intitolato “Forgotten Plague”, una malata – una ex- radiologa di un ospedale di Boston costretta a lasciare il lavoro a causa della patologia – dice: “È come se fossimo scomparsi. Come se fossimo spariti dalla vista e fossimo stati dimenticati”. La trovo un’osservazione molto vera per tutti i malati di questa patologia di cui soffro io stessa. È un’invalidità invisibile (perché non si vede e perché rende i malati, spesso costretti a letto per anni, invisibili) e costringe le persone ad essere assenti, a “perdersi la vita”, come spesso i pazienti si esprimono. Scompariamo dalle attività del mondo. Mi ritrovo fortemente in quelle parole e sentendo e leggendo quel passaggio non riesce a non venirmi in mente regolarmente questa sigla, e con lei la serie.   

sabato 9 aprile 2016

THE CATCH: il quadro del pilot

 
È di Maria Kreyn l’evocativo quadro “Alone Together - Soli insieme” che compare nel pilot di The Catch con un ruolo rilevante e simbolico per la narrazione. Per altri suoi dipinti – anche “Event Horizon” appare nel pilot - , si veda il suo sito.  
 

mercoledì 6 aprile 2016

YOUNGER: la seconda stagione


Con la seconda stagione, si è affermata come una vera erede di Sex and the City la brillante e dinamica Younger, sguardo alla vita personale e professionale dei Millennials. Questa idea è rimbalzata un po’ ovunque, e ovviamente va al di là del fatto di essere stata ideata dallo steso autore Darren Star o di condividerne la storica costumista Patricia Field.
Ci sono amicizia e relazioni professionali fra donne, molto candore nel comunicarsi le reciproche opinioni e molto affetto nel sostenersi, e un linguaggio vivace e pieno di riferimenti e battute. Kelsey (Hilary Duff) si rifiuta di mettere al suo matrimonio un vestito troppo rivelatore e commenta all’amica che non vuole che sua nonna veda la sua “Hello Kitty” (2.10), intendendo sue parti intime. Anche solo commento di questo tipo dà molto brio al dialogo. E basta lo sguardo sdegnato e snob di Diana (una eccellente Miriam Shor), che quest’anno si è lanciata in una relazione con uno scrittore ilarmente iper-femminista, o quello basito di Liza (la sempre convincente Sutton Foster) ad assicurare uno humor sagace.   
Ci si è fatti più espliciti nelle situazioni sessuali: si è dovuta gestire l’attenzione dedicata alle parti intime di Charles (Peter Hermann) sul web (2.04); la maglietta sul “burro al tartufo” (2.05) – senza farvi googlare il significato come suggerisce la serie, Urban Dictionary dice che quando tiri fuori il pene dall’ano e lo infili della vagina, la sostanza burrosa e marroncina intorno ad essa è il “burro al tartufo”; lo scrittore agricoltore che Liza trova in intimità con una pecora (2.09)…  
I social media, come è normale che sia, fanno da padrone e in questo mostrano come è cambiato anche, in loro virtù, il modo di forgiare relazioni. Continuano i riferimenti più o meno diretti all’effettivo mondo letterario entro cui la fittizia casa editrice Empirical lavora – chiarissimo, quasi smaccato, quello a Martin e al Trono di Spade in “Secrets & Liza” (2.11), ad esempio.
Alla fine della scorsa stagione Josh (Nico Tortorella) ha scoperto la verità sull’età di Liza e sulla sua vita e noi, attraverso di lui, abbiamo dovuto fare i conti con la menzogna che è alla base della serie. Riusciamo a tenere per la protagonista anche se è evidente che non sta facendo una bella cosa nelle persone della sua vita a cui dice di tenere. E siamo combattuti come lei su chi potrebbe essere il suo partner ideale: Josh o Peter?
La serie è gustosa e leggera, ma allo stesso tempo riesce a riflettere sulle relazioni, sull’invecchiare, sulle pressioni sociali, sulle scelta della vita, sull’essere donne.