giovedì 23 febbraio 2017

CRAZY EX-GIRLFRIEND: la seconda stagione


Apprezzata dalla critica, e per questo rinnovata per una terza stagione nonostante i numeri dicano che sia la serie meno vista della TV, Crazy Ex-Girlfriend ha appena concluso una seconda stagione che, ancora una volta, risulta altalenante, al di fuori dei numeri musicali che riescono sempre a convincere (The Math of Love Triangle; Remember that we suffered; il goduriosamente meta “Who’s the new guy”…). A momenti brillanti e di grande impatto per il loro significato culturale, ne seguono altri in cui il livello sembra quasi amatoriale e fastidiosamente ingenuo. Lascia decisamente frustrati in molti momenti, ma alla fine vale comunque la pena.

La nuova sigla di apertura, con il suo balletto vagamente anni ’30, segnala che siamo in una nuova fase. Il controverso titolo assume ora un nuovo significato. Dal testo della canzone veniamo indirizzati a vedere nella protagonista solo in fondo una persona trascinata dai sentimenti: l'amore ti rende pazzo, per cui chiamarla pazza significa solo definirla innamorata. Veniamo spinti contemporaneamente a mettere in dubbio questo assunto: “sono solo una ragazza innamorata”, “non posso essere ritenuta responsabile delle mie azioni”, “non ho problemi sottostanti da affrontare / sono carina da matti e adorabilmente ossessionata”. Se nel corso della stagione Rebecca (Rachel Bloom) sembra raggiungere un maggior equilibrio rispetto al passato, con la conclusione si torna a delle atmosfere più dark. Il senso ironico di questa parte del testo canoro è in qualche modo sempre sotto la superficie della narrazione, ma esplode con il finale dove, insieme al riprendere esplicitamente nel dialogo diegetico la dicitura “non ho problemi sottostanti da affrontare”, il fatto che non abbia difficoltà psicologiche irrisolte si rivela in tutta la sua falsità. Non solo si scopre un passato finora ignorato della protagonista che ha trascorso un periodo in ospedale psichiatrico, ma Rebecca affonda miseramente di fronte a un fresco caso di quello che è il reiterato dolore della sua vita, l'abbandono da parte di tutti gli uomini a cui ha voluto bene, a partire dal padre (John Allen Nelson).

Sognare e volere e combattere contro i mulini a vento per qualcosa che non si riesce mai ad ottenere, guardando ai segni e credendo fideisticamente alla magia dell’amore, è stato sempre il motore della vita di Rebecca. Le conseguenze di questo atteggiamento sono state il filo conduttore della narrazione così come in generale lo è stato il riflettere sui nostri desideri di forzare le relazioni lì dove è evidente che non vogliono andare. Il tema lo si affronta con Rebecca, ma anche nel rapporto fra Paula (Donna Lynne Champlin) e Darryl (Pete Gardner) – grandiosa in proposito “You’re My Best Friend (and I Know I’m Not Yours)” (2.11) – o Trent (Paul Welsh) e Rebecca. L’amicizia e il suo significato, e in particolare anche l’amicizia fra donne (“Friendtopia”), è stata una bella, forte tematica della stagione, con l’inaspettato, riuscito avvicinamento con Valencia (Gabrielle Ruiz) e temporaneo doveroso allontanamento con Paula. Coltivare un rapporto sereno con le altre donne ha anche permesso a Rebecca di ricostruirsi un'identità, cercando di non farla dipendere esclusivamente da un amore romantico con un uomo. Il sottotesto femminista si è fatto più forte e, citando espressamente la “bad feminist” di Roxane Gay (2.05), si è ammessa la vulnerabilità del cercare di conciliare l'importanza di empowerment con ragionevoli desideri che in apparenza potrebbero contrastare con principi di indipendenza. Proprio in prospettiva femminista ha deluso l’idea di far diventare Heather (Vella Lovell) la ragazza immagine per una lavanda vaginale, considerato che sono considerate dannose per le donne.

Notevole è stata invece la scelta di mostrare la decisione di Paola di abortire (2.04). La modalità in cui questo è avvenuto, in modo relativamente poco drammatico, come una scelta pragmatica di una donna adulta che sa quello che vuole - nel suo caso è già madre, sa di non poterselo economicamente permettere e vuole continuare a studiare per diventare avvocato e seguire il sogno di una vita (“Maybe this dream” in 2.02 )-, è stato rincuorante ed è in linea con quanto gli studi sull'aborto dimostrano essere spesso questo tipo di scelte (si legga in proposito, volendo, Pro di Katha Polit). Una storyline similare c’è stata in Jane the Virgin (con il personaggio di Xiomara), sempre della CW, e non si può che applaudire questa tendenza che è evidentemente una scelta del network.

L'uscita di scena di Greg (Santino Fontana), è stato un duro colpo per la serie, perché ha eliminato una delle colonne portanti del programma. È stata realizzata in modo acuto, rivelando una mai ammessa dipendenza da alcool del personaggio. ATTENZIONE SPOILER. Diversamente dal colpo di scena dell'ultima puntata, che vede Josh (Vincent Rogriguez III) optare per un futuro - decidere di farsi prete - che esce dal nulla, totalmente ingiustificato se non ai fini di un colpo di scena scioccante, la rivelazione relativa a Greg è stata inaspettata, ma ha avuto senso. Josh, che è stato esplorato più approfonditamente, è sempre stata la fantasia romantica per eccellenza per Rebecca, ma con lui non ha mai avuto una vera intesa. E il venir meno di Greg ha reso deprimente per lo spettatore seguire un amore per cui non c'era intesa. In questo davvero, la serie si presenta come l'anti rom-com. La chiusura di stagione lascia intendere che la direzione in cui vogliono andare è quella di esplorare ulteriormente l'eterna ossessione di Rebecca per Josh, prima espressa come amore, d’ora in poi come vendetta. Il potenziale per un vero rapporto romantico però c’è con la nuova entrata del capo di lei, Nathaniel (Scott Michael Foster, Greek), succube dell’approvazione di un padre per il quale non sarà mai efficiente a sufficienza (“Man nap” in 2.12 è un must). I due personaggi, hanno una fantastica dinamica di odio-amore, e una formidabile intesa fisica – esplorata in modo esilarante da “Let’s have intercorse”. Le scintille ci sono già state e in fondo il senso sella serie non è quello di non credere nell’amore, ma di non credere in una fantasia precostituita dell’amore da cui far dipendere tutto il resto come se potesse far sparire ogni altro problema dalla propria vita (“We’ll Never Have Problems Again”).

mercoledì 15 febbraio 2017

LEGION: una giostra delirante e appagante


Bastano in primi tre minuti di Legion, in cui in flash successivi che ne ripercorrono la vita - sublime la staffetta fra le scene -, si vede il protagonista passare da un bellissimo sdentato bebè sorridente a un giovane uomo ricoverato in un ospedale psichiatrico, per decidere che questa è una serie che vale la pena vedere: inventiva, sperimentale e con una regia da capogiro. È mozzafiato nell’essere cervellotica e allucinatoria (sebbene non ermetica come il remake de Il Progioniero), e con un pizzico di giocosità, ma con una visione precisa.

Ideata da Noah Howley (Fargo) per FX sulla base di un personaggio dei fumetti della Marvel creato da Chris Claremont e Bill Sienkiewicz, la serie è ambientata in un universo parallelo a quello dei film degli X-Men. David Haller (uno Dan Stevens che sembra fortemente ringiovanito rispetto al ruolo di Downton Abbey che lo ha reso famoso) è un mutante con poteri mentali, fra cui la telecinesi e la telepatia, a cui è stata diagnostica una schizofrenia paranoide sin da bambino. Spesso per lui il confine fa realtà e illusione è molto labile. Nell’ospedale psichiatrico in cui è ricoverato, il Clockworks, diventa amico di Lenny (Audrey Plaza, Parks and Recreation), un’eterna ottimista nonostante i problemi di alcol e droga, ma la sua vita cambia completamente quando lì conosce Syd Barrett (Rachel Keller)  - il suo nome è un omaggio al musicista dei Pink Floyd la cui musica è stata anche di ispirazione per la serie – che diventa la sua “fidanzata” e che non vuole in alcun modo essere toccata (quando accade si capisce il perché). In realtà, anche se ancora non se ne rende conto, ha dei superpoteri, ed è per questo che viene sottoposto a intensivi colloqui da parte dall’Interrogatore (Hamish Linklater, The New Adventures of Old Christine). Alla fine del pilot, aiutato a scappare, conosce una terapeuta che diventerà importante per il suo futuro, Melanie Bird (Jean Smart). Lo scienziato Cary Loudermilk (Bill Irwin), la savant Kerry Loudermilk (Amber Midthunder) e Amy Haller (Katie Aselton), la sorella maggiore di David, completano il cast che circonda il protagonista.

Se un simile personaggio in TV forse non sarebbe stato possibile prima di Mr Robot, un giovane uomo che scopre che quella che credeva la sua debolezza è in realtà ciò che lo rende unico e speciale è ormai un classico nella genesi dei supereroi. Non c’è niente di veramente nuovo su questo fronte perciò. Stevens è abile nel precipitare il suo personaggio in momenti di cupa disperazione seguiti da altri di sorridente equilibrio. Ma anche qui, c’è un certo spassoso distacco da quello che nel mondo reale sarebbe un doloroso vissuto le cui cicatrici sarebbero ben più radicate dell’eyeliner sotto gli occhi di Lenny e gli psichiatri beni più competenti e meno supponenti – almeno si spera – di quello fa la lezioncina a Syd su come tutti gli animali abbisognino di contatto fisico per sentirsi amati. La normalità denigrata come qualcosa a cui uno viene costretto – citando Einstein e Picasso come esempi di persone che normali non erano – suona abbastanza trita. Non è in questo che la serie sorprende a abbaglia.

Quello che qui è straordinario è come si è scelto di raccontare la diversità del personaggio. La narrazione si affida alla scomposizione e alla distorsione, e diventa disorientante, un trip fantasmagorico nelle allucinazioni visive e uditive del personaggio che prendono forma anche per lo spettatore in una giostra delirante che nel suo vorticare mescola pensieri, immagini, e suoni, va avanti e indietro, dentro e fuori la mente del protagonista. La regia imprime un moto ad una trottola di tagli e movimenti di camera e scenografia e uso delle luci e dei costumi, ora moderni ora retrò, da vertigine. Matt Zoller Seitz (Vulture) ci vede gli influssi di Wes Anderson e Bob Fosse. Quello che è certo è che questo è il punto di forza. Se le otto puntate previste per la prima stagione si mantengono sul tracciato del pilot sarà una autentica goduria.     

giovedì 9 febbraio 2017

STRANGER THINGS: nostalgico


Siamo nel 1983, in una cittadina dell’Indiana chiamata Hawkins. Un ragazzino di 12 anni, Will Byers (Noah Schnapp), svanisce misteriosamente nel nulla. Lo cercano sia la madre Joyce (Winona Ryder), disperata, che si rivolge al capo della polizia Jim Hopper (David Harbour), sia i compagni di giochi, Mike (Finn Wolfhard), Dustin (Gaten Matarazzo) e Lucas (Caleb McLaughlin) che si imbattono in una ragazzina con i capelli rasati a zero, Undici, Eleven detta El (Millie Bobbie Brown) in originale, con poteri mentali particolari, fra cui la telecinesi, scappata da un laboratorio dove una serie di scienziati faceva esperimenti su di lei cercando di potenziare e usare queste sue capacità. A dirigere l’agenzia governativa segreta è un uomo che la ragazzina chiama papà, il dottor Martin Brenner (Matthew Modine). Loro, così come il fratello di Will, Jonathan (Charlie Heaton), e la sorella di Mike, Nancy (Natalia Dyer), entrambi adolescenti, scoprono in modo separato, per poi unire le forze, che il ragazzino è stato rapito da una mostruosa creatura - un enorme mostro antropomorfo con la testa che sembra una pianta carnivora gigante -, e portato nel “sottosopra”, una specie di dimensione parallela.

Stranger Things, ideata dai fratelli Matt e Ross Duffer, una delle serie più apprezzate del 2016, è prima di ogni cosa un’operazione nostalgica. Insieme alla collocazione temporale recupera lo spirito narrativo e riproduce gli stilemi estetici di quell’epoca. Le storie si prendono sul serio, senza ironia, ma anche senza cinismo, e il gusto è quello di una storia per ragazzi. È sicuramente apprezzabile anche da un adulto, ma ha la sensibilità, l’innocenza e l’ingenuità di una avventura ancora infantile, un po’ alla Spielbergiana maniera, uno degli autori qui più evocati (c’è la piccola Eleven in vestito e parrucca alla ET, tanto per dirne una), insieme a Stephen King. Entro questi limiti, che qui vengono fatti diventare punti di forza, la serie è estremamente ben realizzata, compatta, senza sbavature. È una storia multi generazionale – gli adulti, gli adolescenti, i pre-adolescenti – e di amicizia, che permette di superare il bullismo e di sconfiggere i mostri. I personaggi vivono situazioni inquietanti, ma non sono abbandonati a loro stessi, e trovano sostegno e una soluzione.

Prelapsario, ha definito Emily Nussbaum il loro mondo di walkie-talkie, telefoni fissi e ragazzini che girano ovunque a piacimento in bicicletta. Ha acutamente osservato come c’è un raro rispetto per il dolore di tutti, adulti e ragazzi. Joshua Rothman, sempre sul New Yorker, lo vede come un esperimento profondamente americano, dove l’ottimismo si scontra con l’atavismo, dove personaggi odierni coraggiosi, egualitari, aperti, onesti, si contrano con l’orrore alla Lovecraft-maniera dove nell’esplorare l’universo scopriamo che la normalità è l’orrore, non la bellezza,  e caratterizzato dall’indifferenza del cosmo, la vastità del tempo e la natura come qualcosa di alieno, cose che sono la memoria di un passato turbolento e paranoico. Il presente insomma si scontra con il passato, con paure che speravamo di esserci lasciati alle spalle.

Una parte di me non è certa di quanto il mostro sia inteso esplicitamente come il prodotto della violenza prodotta dalla figura paterna sulla piccola Eleven – volendo del patriarcato sulle giovani donne – o quanto meno la fuga, se non la creazione del mostro, siano dovuti ai ripetuti abusi, ma in questo c’è sicuramente anche un margine, nella seconda stagione promessa da Neflix dopo il successo delle 8 puntate della prima stagione, per un possibile ritorno di Eleven che si sacrifica in conclusione per salvare tutti.  

giovedì 2 febbraio 2017

RIVERDALE: un teen drama imbevuto di citazioni


Dopo un’estate trascorsa a lavorare per l’azienda di costruzione del padre Fred (Luke Perry, Beverly Hills, 90210) per “costruirsi il carattere”, periodo durante il quale ha avuto una relazione sessual-sentimentale con la sua insegnante Geraldine (Sarah Habel), l’adolescente Archie Andrews (KJ Apa) ricomincia la scuola. Viene incoraggiato a giocare a football, ma il suo cuore lo spinge a dedicarsi alla musica, nonostante non abbia fortuna nel cercare di far cantare i suoi testi alla band più popolare della scuola, Josie and the Pussicats, di cui leader è Josie (Ashleigh Murray). Betty Cooper (Lili Reinhart), che si sforza di essere una persona perfetta e che ha da tempo una cotta per lui, è spinta dal suo migliore amico gay Kevin (Casey Cott) a dichiarasi, e lei è incerta se farlo o meno, specie ora che in città è arrivata la bellissima e abbiente Veronica (Camilla Mendes), proveniente da New York insieme alla madre Hermione (Marisol Nichols), dopo che si è lasciata alle spalle uno scandalo che riguarda il padre. Le due ragazze diventano subito amiche, sebbene la madre di Betty, Alice (Mädchen Amick, Twin Peaks), cerchi di metterla in guardia. Come racconta il narratore della serie Jughead (Cole Sprouse), amico di Archie, quella appena passata non è stata un’estate come le altre. La comunità si è appena ripresa dalla tragica morte, il 4 luglio, in circostanze mai del tutto chiarite, di un ragazzo il cui corpo non è stato ritrovato, Jason Blossom. Gli è sopravvissuta la sorella gemella, Cheryl (Madelaine Petsch), ricca e maleducata, che non è la sola in città a mantenere dei segreti su che cosa sia veramente successo il giorno della scomparsa del fratello. Siano a Riverdale.

La nota principale del nuovo teen drama della CW (di cui Netflix ha acquisito i diritti di distribuzione internazionale) è quanti echi rimanda. Già i personaggi non sono degli originali, ma sono basati esplicitamente su quelli dei classici fumetti della casa editrice Archie Comics  - gli stessi nomi di Archie, Betty e Veronica, coinvolti in un triangolo amoroso, sono forse familiari a tutti, anche a quelli che i fumetti non li hanno mai letti; il personaggio di Archie ha debuttato nel 1941. Nel DNA della serie però si riconoscono facilmente, anche senza citazioni dirette (pur visibili nel casting adulto, ad esempio), ma solo per le formulazioni dei dialoghi e per le pure sensazioni evocate, i molti progenitori, da Berverly Hills, 90210 (basterebbe la giacca indossata dal protagonista), a Dawson’s Creek (la storia d’amore con l’insegnante), The OC (la ragazza arrivata da fuori), Gossip Girl (il narratore, la mean girl), Pretty Little Liars (il compagno di scuola scomparso), Twin Peaks (il cadavere, l’epoca evocata), Peyton Place (i segreti), Happy Days (il locale dove si ritrovano i ragazzi), Mad Men (a Betty si nomina Batty Draper)… Fra parentesi ho indicato un piccolo aggancio, ma l’homage va più a fondo di un unico elemento. Ogni puntata poi rende ossequio a un diverso film: River’s Edge, The Last Picture Show,  Body Double, Touch of Evil(EW) E i riferimenti espliciti al’immaginario culturale high e low brow sono innumerevoli.

Siamo indubbiamente nella seconda decade degli anni 2000, e si è più dark, ma l’estetica (nella scenografia e nei costumi ad esempio) e una qualche sensibilità emozionale riportano a galla il periodo a cavallo fra la fine degli anni ‘40 e gli inizi degli anni ‘50. Il retrogusto pure è quello che si associa a quegli anni, una sorta di innocenza che è anche perfezione apparente che maschera inconfessate pulsioni e verità di cui ci si vergogna. Imbevuta com’è di passato, la serie fatica a dimostrarsi originale, ma riesce ad esserlo a sufficienza da avere qualcosa da dire. Non ha il sapore di un pastiche, se non nella misura in cui nel volto di un bimbo si vedono i tratti dei genitori. Ha detto bene Entertainment Weekly (link sopra) dichiarandola una serie post-tutto e “la somma di tutti i trend: estensione del franchise, adattamento di un fumetto, cripto serial adesca-teorie, audace storia d’amore YA, e decostruzione densamente ironica. Riverdale è acutamente consapevole di ciò: codificata entro il suo essere un pulp giovanile solidamente soddisfacente c’è una astuta parodia di se stessa e del lavoro di reinvenzione”.

Portata sullo schermo da Roberto Aguirre-Sacasa (anche direttore creativo per la Archie Comics) e con l’instancabile Greg Berlanti come produttore esecutivo, è una storia di scoperta di se stessi in primo luogo, con in questo l’adolescenza come luogo biografico principe, e di disvelamento. Una critica interessante è venuta da parte di chi ha lamentato il fatto che si sia deciso, almeno nel corso della prima stagione, di considerare il personaggio di Jughead come eterosessuale, quando secondo il canone è asessuale, cosa di cui tutti, dagli autori agli attori, sono di fatto consapevoli. La comunità asessuale, fortemente sottorappresentata, è ragionevolmente rimasta delusa da quella che poteva essere un’occasione importante di visibilità. (Si legga in proposito l’interessante articolo su Polygon). Ci dovrebbe però essere un margine per cambiare traiettoria in futuro.

È difficile valutare se questa serie diventerà un culto per le nuove generazioni, ma le premesse ne garantiscono quantomeno il potenziale. Della prima stagione di questo mistery a tinte soap sono previste 13 puntate.