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martedì 5 dicembre 2023

LESSONS IN CHEMISTRY: fantasia femminista anni '50-'60

Tratto dall’omonimo romanzo di Bonnie Garmus, che non ho letto, Lessons in Chemistry – Lezioni di Chimica solleva molte questioni di rilevanza anche attuale, travestite da fantasia femminista di riscatto dall’opprimente cultura degli anni ’50-’60, periodo in cui è ambientato. Non riesce in definitiva ad elevarsi da quest’ultimo aspetto e da risultare realmente memorabile o incisivo, ma offre ugualmente spunti interessanti in una gradevole confezione. 

ATTENZIONE SPOILER

Siamo degli Stati Uniti. Protagonista è Elizabeth Zott (Brie Larson), una chimica che in quanto donna viene relegata a ruoli umili nel laboratorio Hastings dove lavora come tecnica, pur essendo più brillante di molti colleghi maschi. Questo finché non incontra l’appoggio di un chimico, Calvin Evans (Lewis Pullman), un tipo molto eccentrico che i colleghi sopportano solo perché è finito sulla copertina di Scientific American per le sue ricerche.  Insieme decidono di studiare l’abiogenesi. Si innamorano, sono travolti da una deliziosa storia romantica, e decidono di vivere insieme. Sono sul punto di pubblicare quando lui, fuori a correre come al suo solito insieme al cane Seiemezza (la puntata 1.03 viene narrata dalla sua prospettiva), viene investito da un veicolo e muore (1.02). Lei viene licenziata, e dei loro studi si appropria qualcun altro. Si scopre incinta. Un po’ l’aiuta la vicina di casa Harriet Sloane (Aja Naomi King), un’avvocata che si sta battendo perché non venga costruita un’autostrada demolendo il quartiere a prevalenza afro-americana in cui vivono, che conosceva Calvin. Dopo che nasce la figlia Madeline (Alice Halsey), detta Mad, vista la necessità economica e la sua bravura in cucina, campo in cui si è sempre dilettata applicandoci i principi della chimica e testando ogni nuova variabile nelle differenti versioni di uno stesso piatto, le viene offerta la conduzione di un nuovo programma televisivo, “Supper at Six” (Cena alle sei) che è subito un grande successo e ispira molte donne, non solo ai fornelli. Ha il sostegno di Walter Pine (Kevin Sussman, The Big Bang Theory), suo produttore che la supporta anche contro l’aperta ostilità del direttore di rete Phil Lebensmal (Rainn Wilson, The Office), e ha l’amicizia di Fran Frask (Stephanie Koenig), una delle segretarie del Hastings Research Institute che inizialmente la riprendeva sempre per il suo comportamento. Quando Mad comincia ad andare a scuola e deve fare il suo albero genealogico, emergono il passato della madre e del padre.

In questa miniserie sviluppata per AppleTV+ da Lee Eisenberg non so se per aderenza al testo che non ho idea se dica qualcosa in proposito, per scelta della sceneggiatura o della convincente attrice che la interpreta , la protagonista per la gran parte della narrazione non mi sembra una persona neurotipica. Nella diegesi non ci si esprime mai in questi termini, né si allude a qualcosa di simile con un linguaggio più appropriato all’epoca, ma se si esclude la puntata finale e pochi altri momenti, questa è l’impressione che mi dà. Forse la rigidità dovuta al comportamento preteso all’epoca, unita all’eccezionalità degli interessi del personaggio è tale da giustificare il suo modo di atteggiarsi, in realtà: me lo sono chiesto. Quello che mi ha irritato nel pilot, perché è la solita solfa, è che, a dispetto del suo messaggio esplicito, la serie inizialmente contrappone la protagonista alle altre donne e, per far emergere la sua brillantezza, fa sembrare un po’ stupide tutte le altre, e anche gli altri a dire il vero. E quello che la rende brava in cucina è il fatto che è una scienziata – “cucinare è chimica e chimica è vita” è un po’ il suo motto (1.05) -, quando per come la vedo io quello potrebbe fortemente anche essere il suo limite all’essere eccellente, e questo tristemente non passa come idea. C’è questa fasulla concezione che solo se c’è scienza alla base, allora qualcosa è geniale e meritevole: niente di più svilente dell’essere umano nella sua completezza. Questa è la mia maggiore obiezione valoriale al programma, che prevede una via alternativa solo in termini religiosi e non intellettuali, attraverso il confronto con le idee del reverendo Wakely primariamente (Patrick Walker).  

Di contro si affrontano molte importanti questioni: la lotta al patriarcato che schiaccia le potenzialità femminili, alle discriminazioni che valutano non la competenza, ma il gender o l’aspetto che hai, al sessismo, e la necessità dell’empowerment di donne che vengono da lei incoraggiate durante il suo programma a seguire i propri sogni (in un caso una donna aspira a diventare medico, ma non l’aveva mai preso nemmeno in considerazione come una possibilità realistica) e l’importanza di credere nelle persone, nell’avere qualcuno che ha fiducia nelle tue capacità e l’importanza di essere di ispirazione agli altri, anche quando questo rischia di essere visto come una minaccia; il fatto che cucinare non è divertimento o un hobby, è un un’attività vitale (1.05) e che prendersi cura delle persone amate comporta lavoro, vero lavoro (1.01); l’importanza del cibo, come catalizzatore dello sviluppo fisico della persona, e per il fatto che è famiglia, è comunità, è essenziale (1.04); la significatività di essere visti e ascoltati, di avere una piattaforma per farlo, perché quello che si dice lascia un’impronta, e anche quello che non si dice: è un antidoto a quella che Jill Stauffer chiamerebbe “la solitudine etica”, l'esperienza di essere abbandonati dall'umanità, inascoltati, nella dolorosa percezione di subire torti che non sono percepiti e riconosciuti; il ruolo della TV che la gente non guarda solo “perché è accesa”, come vuol farle credere il direttore di rete, ma perché ci si trovano contenuti rilevanti per le proprie vite, con il conseguente imperativo morale di non mentire agli spettatori, e di non trattarli da stupidi; e poi il leit motiv reiterato dell’inevitabilità dei cambiamenti, forse la sola costante della vita.

Queste in fondo sono le “lezioni” impartite dalla serie, che ci rimanda anche sempre a un testo letterario che la punteggia, Grandi Speranze di Dickens, il preferito di Calvin, sullo sfondo di una storia d’amore tragica perché finita troppo presto.

Deliziosa a mio gusto la sigla di apertura.

mercoledì 2 giugno 2021

INDUSTRY: neolaureati al lavoro nell'alta finanza

Sesso, droga e iperlavoro, non necessariamente in quest’ordine, sono gli elementi fondanti di Industry (HBO, BBC2), su un gruppo di neolaureati che cominciano un periodo di prova presso un’importante banca londinese, la Pierpoint & Co.: alla fine del ciclo (e della stagione televisiva) verranno valutati per capire chi di loro vale la pena assumere. Giovani donne e uomini che si mettono alla prova e scoprono chi sono in un mondo del lavoro ulttracompetitivo. Il pilot trasmette proprio quella tensione performativa e quell’ansia da prestazione che vivono i protagonisti, uno dei quali per questa ragione fa una brutta fine. Il titolo è comunque generico perché, sebbene qui si sia nel mondo dell’alta economia e finanza, è applicabile anche ad altri settori: quello che è sotto i riflettori sono le mircopolicy di certi ambienti (cfr l’intervista con gli autori in TV’s Top5).

Harper (Myha’la Herrold) è un’americana che ha mentito sulle proprie credenziali per essere lì, ma supera la paura di venire scoperta quando Eric (Ken Leung, Lost), suo mentore, la prende sotto la sua ala. Yasmin (Marisa Abela), che ha genitori di origina libanese e parla fluentemente anche arabo e spagnolo, viene da una famiglia economicamente e socialmente privilegiata, e vive con il fidanzato con il quale c’è un rapporto un po’ fiacco. Robert (Harry Lawtey) è un laureato a Oxford proveniente dalla classe operaia che è desideroso di apprendere i costumi del nuovo ambiente in cui ora si trova a navigare e presto comincia a provare attrazione per Yasmin e a flirtare con lei. Augustus "Gus" (David Jonsson), un gay nero britannico laureato in studi classici a Eton e Oxford, che condivide un alloggio con Robert, sa di valere. Hari, un laureato della scuola pubblica, figlio di immigrati di lingua urdu, è tesissimo e ansioso: finisce per dormire nella toilette perché non ha nemmeno il tempo di tornare a casa. A supervisonarli ci sono numerosi dipendenti senior della banca, ma in particolare creano un rapporto con Daria (Freya Mavor). Sara Dhadwal (Priyanga Burford) è la presidente della banca.

Mickey Down e Konrad Kay, che hanno una formazione nel mondo dell’alta finanza e hanno ideato la serie, hanno reso quel mondo in modo realistico, riuscendo a rendere appetibili e comprensibili situazioni economiche complicate: anche quando non capisci, riesci a comunque a comprendere che cosa sta accadendo. Hanno attivato anche l’interesse di Lena Dunham (Girls), che ha diretto il pilot, e si sente come possa essere vicino alla sua sensibilità, specie nelle relazioni personali. Anche nella descrizione degli atti sessuali la serie è molto esplicita, anche se non l’ho mai percepita come volgare.

Come si possa essere molto bravi e molto inesperti viene reso alla perfezione qui: è uno dei punti di forza del programma, che nel finale decolla proprio, mostrandosi più di mero escapismo. Poco dopo la metà della stagione, Eric chiude la porta della sala riunioni, dove le chiede di andare per parlarle in privato, e fa una ramanzina ad Harper. ATTENZIONE SPOILER. Su quel chiudere quella porta si costruiscono successivi ben calibrati colpi di scena, fino alla detonazione finale. La regia è stata sottile a sufficienza da far notare che la porta veniva chiusa – io so di aver percepito che mi sarei sentita a disagio, per il fatto che veniva chiusa a chiave, se fosse capitato a me nella vita vera -, ma non così tanto lì per lì, da far capire che poteva essere un potenziale problema. Quando Harper chiede di aprire la porta, lui lo fa subito senza problemi. Questo mi aveva rilassata, e mi sono detta che forse ero io che avevo percepito una situazione “di potenziale pericolo”.  

Appena Harper nella puntata successiva (1.06) lo menziona a Daria, lei sottolinea come sia un comportamento inadeguato, e Eric viene licenziato, e ad Harper viene chiesto di firmare una sorta di NDA. In chiusura però Harper viene messa davanti a una scelta: dire che è stata forzata da Daria a fare quella dichiarazione, e così reintegrare Eric, oppure lasciare che le cose stiano come stanno. Daria e la presidente della banca, Sara, le dicono che vogliono l’opportunità di cambiare la cultura. All’uomo invisibile vogliono sostituire la donna visibile.

La scelta finale di Harper, che non spoilero, è interessante perché in qualche modo apparentemente mette in contrapposizione istanze e aspirazioni femministe e lealtà personali, ma in realtà fa riflettere su che cosa significhi anche eventualmente fare delle scelte femministe. In questo entra in gioco anche una molestia che Harper ha dovuto subire da una cliente proprio nel pilot. E che cosa significhino l’integrità e la relazione personale in una ambiente in cui apparente non hanno un valore. Ad un certo punto, viene insegnato alla ragazza come misurare, con la clessidra, il tempo al telefono in cui, prima di parlare d’affari ci si dedica alle vicende personali del cliente, per dare l’illusione di un legame, che in realtà ha interesse solo in termini economici. Su quello standard ci si misura. E si riflette, anche su quello che è apparente e performativo, e quello che è sostanziale.  

Alla fine, un programma notevole, che alla luce della prima stagione intendo proseguire. Che avesse menzioni agli Emmy in qualche categoria non mi sorprenderebbe.

lunedì 27 luglio 2020

MRS. AMERICA: ratifica dell'ERA - la seconda ondata femminista e l'opposizione



Se descrivo Mrs America (sull’americana Hulu) come il corso di storia, di scienze politiche, di femminismo, di attivismo e di narrativa biografica che ritengo che sia, lo faccio sembrare un polpettone lagnoso e quello, al contrario, non ritengo lo sia: è una sagace, appassionante battaglia per i diritti delle donne, e con una prospettiva inaspettata che dà peso e rilievo anche a chi quella lotta l’ha combattuta e persa. Si rimane con il fiato sospeso, anche se si sa già come va a finire. E i parallelismi con la contemporaneità rendono tutto ancora più pregnante. Quali di quelle conversazioni sono conversazioni che facciamo tutt’ora? La reazione alla finzione della narrativa possiamo anche intenderla come un potenziale test di Rorschach sulla propria posizione rispetto alle questioni trattate.  

Siamo negli USA, negli anni ’70 (si procede cronologicamente a partire dal ’71). I grandi nomi della seconda ondata femminista Gloria Steinem (Rose Byrne, Damages), Betty Friedan (Tracey Ullman, The Tracey Ullman Show), Bella Abzug (Margo Martindale, The Americans, The Good Wife), Shirley Chisholm (Uzo Aduba, Orange is the New Black), Jill Ruckelshaus (Elizabeth Banks)    si stanno battendo per far ratificare da tutti gli Stati americani, perché sia considerato costituzionale, l’ERA, ovvero l’Equal Rights Emendment, l’emendamento sulla parità dei diritti, approvato da entrambi i rami del Congresso in modo bipartisan e perfino sostenuto dal presidente repubblicano, ma osteggiato da chi sente minacciata la famiglia americana tradizionale, capitanato dalla reazionaria Phyllis Schlafly (Cate Balchet) che ha fondato l’Eagle Forum, un gruppo conservatore, sostenuta a denti stretti dal marito Fred (John Slattery, che dopo Homefront e Mad Men si sta facendo tutte le decadi) e contornata da altre donne che ne condividono i principi, come Alice Maccray (Sara Paulson, American Horror Story) e Rosemary Thomson (Melanie Lynskey).

Le puntate si aprono con il disclaimer che si tratta di eventi realmente accaduti, ma con un margine di invenzione, se non altro rispetto alle conversazioni a porte chiuse. La creazione di Dahvi Waller è particolarmente interessate nel taglio proprio perché, pur dedicando ogni puntata a una icona del movimento per i diritti delle donne, per terminare poi con una visione corale, sceglie di guardare molto a chi si è battuto intensamente contro, mostrando intanto anche le ragioni, non sempre retrograde e ottuse, di queste persone: casalinghe con poca esperienza fuori dall’ambiente domestico si sentivano minacciate e in fondo giudicate come poco importanti da parte di donne agguerrite che cercavano un proprio ruolo fuori dalle mura domestiche, ridicolizzate per essere orgogliose del loro ruolo di casalinghe, quando altrettanto legittima doveva essere giudicata la loro aspirazione di realizzarsi come madri e mogli. Si mostrano attivamente le donne come ultimo baluardo del patriarcato: hanno paura di perdere l’amore e la protezione dell’uomo e si fa vedere come siano state sfruttate le loro paure, ritraendole con un misto di ingenuità e di finto perbenismo (condiscendenza? Non mi pare), ma illustrando come nella concretezza quello che facevano non era lavoro casalingo, ma in tutto e per tutto quello che facevano le femministe a loro opposte: il contenuto era in senso inverso, ma il tipo di impegno era lo stesso.

Bella Abzug lo dice chiaro e tondo a tre di loro (fa cui Alice e Rosemary). Parlando di Phylis Schlafly, la dichiara come una femminista a tutti gli effetti, anzi come forse la donna “più liberata” d’America. Vogliono stare a casa con i propri figli, non essere donne che lavorano, dichiarano. E lei le incalza con una serie di domande su quello che dicono di aver imparato da lei, conoscendo bene la risposta: vi ha insegnato come fare lobbismo sui legislatori? Vi ha insegnato come stendere un comunicato stampa? Come rispondere alle domande dei giornalisti, come procurarsi le interviste televisive? Come preparare e far quadrare un bilancio? Ovviamente sì. Per cui può solo commentare: “Congratulazioni, siete donne che lavorano” (1.07).

Il femminismo non è evidentemente una cosa unica, e l’autrice riesce a mostrare questo aspetto, e a far emergere questioni cruciali trasversali (aborto, lavoro), ma anche ben a mostrare esigenze variegate (le nere, le lesbiche), come si sia cercato il compromesso e come nella negoziazione certi interessi, tutti riconosciuti importanti e validi nella ricerca di giustizia e uguaglianza, alcuni siano stati sacrificati o abbiano rischiato di esserlo a favore di altri per paura di perdere tutto. Ci sono molti punti di vista, e la serie cerca di mantenerli. Era un movimento magari caotico, ma idealmente inclusivo, se non consapevolmente ancora intersezionale, e con molti obiettivi. Di contrasto gli oppositori ne avevo uno e uno solo: fermare le femministe.

C’è chi si è risentito di una visione forse troppo generosa nei confronti della Schlafly, che sarebbe stata dipinta come un’antieroina. In realtà l’autrice non le fa sconti. Non ci si fa scrupoli nel ritrarla come una persona che sì è una brillante organizzatrice, ma è una donna assetata di potere, manipolatrice e ipocrita – che non riconosce che, se riesce a portare avanti la battaglia che le sta a cuore è anche perché ha l’aiuto della cognata Eleanor: Jeanne Tripplehorn (Big Love) ha saputo molto espressivamente mostrare l’amarezza e la delusione di sentirsi disprezzata e ignorata pubblicamente, alla prova dei fatti, quando privatamente le si faceva credere il contrario. Si allude più volte all’uso strumentale da parte della Schlafly di estremismi e fanatismi (l’appoggio del Klu Klux Klan, ad esempio), delle fake news e della volontaria distorsione delle informazioni a proprio vantaggio. Il rancore, il risentimento e la rabbia schiumavano cristalline nella recitazione di una fulgida Cate Blanchett, e non sono passate nemmeno inosservate per Alice, che la Paulson ha reso un personaggio molto acuto, rendendo più che credibile il suo cambiamento di posizione, pur nel non rinnegare il proprio percorso. Insieme a quella della Martingale, queste sono state le interpretazioni più riuscite, in un cast in cui scegliere la migliore è veramente volersi fare del male.  

La Waller (si ascolti l’intervista per TV Top 5: qui) riconosce che il punto di vista privilegiato della Schlafly è stato scelto per riconoscerne l’appeal nella consapevolezza che ad ogni rivoluzione fa da contrappeso una controrivoluzione per cui è necessario capirla per sapersene difendere, per evitare di essere compiacenti. C’è sempre  il rischio di tornare indietro rispetto ai progressi fatti. 

Molta della riflessione si concentra proprio sulle dinamiche di potere, sulle strategie politiche e comunicative, sulle modalità per vincere - ad esempio si dice che le persone a cui si presta attenzione sono quelle che vincono, quindi può essere rilevante a chi viene riservata attenzione; si riflette sull’importanza della presenza fisica, sul potere dell’impatto emozionale… - , sulla retorica, sui concetti che fanno parte del DNA culturale di un’epoca e non necessariamente sono sempre esplicitati, ma sono comunque “nell’aria”. È un testo denso proprio perché si fa carico delle filosofie che lo animano.

La palette di colori usati richiama quelle dell’epoca, e alla mente affiorano programmi come Good Girls Revolt (che tratta tematiche affini) o Swingtown (che tratta tematiche differenti, ma è ambientato nella stessa epoca – nel caso si legga un mio saggio in proposito qui). La sigla, che meriterebbe un pezzo a sé, usa come musica “A Fifth of Beethoven” di Walter Murphy, un pezzo strumentale disco-funk che adattava il primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, uscito in origine nel 1976. So per certo che questa stessa musica è stata usata in passato (forse proprio negli anni ’70) da un altro telefilm, ma nonostante mi sia scervellata non poco per cercare di ricordarlo o recuperare quale fosse ne sono uscita a mani vuote. Anzi, se qualcuno lo ricorda e me lo segnala mi fa un piacere.

Mrs America è stata concepita come una miniserie, ma non si esclude un approccio antologico, con nuove stagioni. Da parte mia sarebbero benvenute.

domenica 30 luglio 2017

GOOD GIRLS REVOLT: ispirata a fatti veri


Good Girls Revolt (Amazon) è una serie ambientata fra la fine degli anni ’60 e gli inizi dei ’70 e segue un gruppo di giovani donne che lavorano per una rivista che si chiama “News of the Week” (fittizia, ma ispirata a Newsweek). In quanto donne possono avere solo ruoli di segretarie e ricercatrici, mentre è loro proibito ambire a diventare reporter, sebbene talvolta dimostrino più talento dei giornalisti che affiancano quotidianamente. Quando qualcosa scritto da loro viene pubblicato, è comunque con il nome di un uomo. Per questa ragione si organizzano e decidono di fare causa al giornale (1.10) e di rivendicare i propri diritti. Le vicende sono ispirate a fatti veri e incorporano personaggi reali, come Nora Ephron (Grace Gummer, Mr Robot).

Lo spirito ultimo della serie può essere inferito dal discorso (1.06) che una giovane avvocatessa nera, Eleanor Holmes Norton (realmente esistente e interpretata da Joy Bryant, Parenthood), fa a una delle impiegate, Denise (Betty Gabriel),  che, nera, non vorrebbe partecipare alla causa:
“Capisco che senti che questa non è la tua battaglia, ma sorella, sono qui per dirti che lo è. Vedi, queste donne hanno una cosa molto importante in comune con noi: sono cittadine di seconda classe. E io e te sappiamo esattamente che cosa si prova, non è vero? Trattenuta dal tuo pieno potenziale, pagata meno di quello che vali, trattata con superiorità, ti viene detto di stare zitta, di stare al tuo posto. Queste donne vivono in una scatola proprio come te, perciò non farti ingannare perché la loro scatola è un po’ più comoda della tua. È sempre una scatola. E il solo modo in cui ognuna di noi riuscirà ad evadere da questa scatola è se rimaniamo unite, perché quando i cittadini di seconda classe del mondo stanno l’uno a fianco dell’altro, non l’uno contro l’altro, è allora che cambi il mondo. Perciò, quando aiuti queste donne, Denise, la persona che liberi è te stessa”.

Con un tono quieto, quotidiano, minuto e molto poco glamour, seguiamo prevalentemente tre giovani donne che hanno, ciascuno a modo proprio, un risveglio della propria consapevolezza. Patti Robinson (Genevieve Angelson), che più di tutte sogna di diventare una giornalista a tutti gli effetti, magari inviata in Egitto, lavora sodo per dimostrare quello che vale; ha una storia con Douglas (Hunter Parrish), ma seduce e si lascia sedurre dal capo del giornale, Chris Diamantopoulos (Evan Phinnaeous ‘Finn’ Woodhouse, Episodes), sposato, ma di fatto più dedito al lavoro che alla vita matrimoniale. Cindy (Erin Darke), addetta a scrivere le didascalie, è intrappolata in un matrimonio infelice ed è talmente abituata a venire ignorata  - il marito legge anche a tavola mentre lei gli parla e la tratta come una serva e basta, le pratica un foro sul diaframma, nonostante il loro accordo di non avere figli immediatamente… – e solo una relazione extraconiugale sul lavoro le fa scoprire che può pretendere di più. Jane Hollander  (Anna Camp, The Good Wife) è la fidanzata sempre perfetta che vede il lavoro come una tappa prima dell’inevitabile matrimonio, ma presto si rende conto che vuole diventare una donna in carriera.
 
La serie, ideata da Lynn Povich sulla base di un libro dallo stesso titolo, e non confermata per una seconda stagione, si fa sempre più pregnante e densa con il procedere delle puntate. Nel descrivere la situazione femminile dell’epoca, ed eventualmente il sessismo, non si mostrano elementi eclatanti, ma una bruciante quotidianità: Patti è preoccupata che le nozze della sorella significhino  che a lei d’ora in poi aspetti solo un futuro “a servizio” del marito (1.02); vengono incoraggiate a scoprire quanto guadagnino più di loro gli uomini, a parità di lavoro (1.06); gli uomini dettano come si devono vestire le donne (1.07) – a Patti viene permesso di venire al lavoro in pantaloni, la prima a farlo, solo perché è il suo venticinquesimo compleanno, ma la si invita a non rifarlo, a Cindy il marito non permette di indossare l’abito sexy che voleva mettere a una festa; tutte fanno una colletta per un l’aborto di una di loro che ha già figli e per cui averne un altro sarebbe problematico (1.09)…Ci si accorge senza sforzo di quanta strada è stata fatta da allora, e allo stesso tempo quanto ancora attuali siano certe problematiche e rivendicazioni.

Sebbene la serie sia indubbiamente intrisa di spirito femminista, in tanti piccoli dettagli, questo è organico e naturale, e non ci si riduce a quello. In  “Strikethrough” (1.06) ad esempio, in occasione dello sciopero dei postini, Jane accompagna Sam (Daniel Eric Gold) per capire di prima mano la situazione. Prendono alcune lettere non recapitate e le consegnano loro stessi ai destinatari. Una di queste è una donna che ha perso qualcuno in Vietnam. Sam potrebbe intervistarla, visto che sta scrivendo un pezzo su quest’argomento, ma decide di non farlo per rispetto del dolore di quella persona: non puoi aggiustare la situazione, farla dimenticare o migliorarla, puoi solo appunto portare rispetto.

Se la partenza non è stata sfavillante, e in corso di via ci sono state debolezze, a chiusura di stagione ci si rammarica che non si sia riusciti, come si è provato, a salvare una serie che aveva molto da dire.   

giovedì 23 febbraio 2017

CRAZY EX-GIRLFRIEND: la seconda stagione


Apprezzata dalla critica, e per questo rinnovata per una terza stagione nonostante i numeri dicano che sia la serie meno vista della TV, Crazy Ex-Girlfriend ha appena concluso una seconda stagione che, ancora una volta, risulta altalenante, al di fuori dei numeri musicali che riescono sempre a convincere (The Math of Love Triangle; Remember that we suffered; il goduriosamente meta “Who’s the new guy”…). A momenti brillanti e di grande impatto per il loro significato culturale, ne seguono altri in cui il livello sembra quasi amatoriale e fastidiosamente ingenuo. Lascia decisamente frustrati in molti momenti, ma alla fine vale comunque la pena.

La nuova sigla di apertura, con il suo balletto vagamente anni ’30, segnala che siamo in una nuova fase. Il controverso titolo assume ora un nuovo significato. Dal testo della canzone veniamo indirizzati a vedere nella protagonista solo in fondo una persona trascinata dai sentimenti: l'amore ti rende pazzo, per cui chiamarla pazza significa solo definirla innamorata. Veniamo spinti contemporaneamente a mettere in dubbio questo assunto: “sono solo una ragazza innamorata”, “non posso essere ritenuta responsabile delle mie azioni”, “non ho problemi sottostanti da affrontare / sono carina da matti e adorabilmente ossessionata”. Se nel corso della stagione Rebecca (Rachel Bloom) sembra raggiungere un maggior equilibrio rispetto al passato, con la conclusione si torna a delle atmosfere più dark. Il senso ironico di questa parte del testo canoro è in qualche modo sempre sotto la superficie della narrazione, ma esplode con il finale dove, insieme al riprendere esplicitamente nel dialogo diegetico la dicitura “non ho problemi sottostanti da affrontare”, il fatto che non abbia difficoltà psicologiche irrisolte si rivela in tutta la sua falsità. Non solo si scopre un passato finora ignorato della protagonista che ha trascorso un periodo in ospedale psichiatrico, ma Rebecca affonda miseramente di fronte a un fresco caso di quello che è il reiterato dolore della sua vita, l'abbandono da parte di tutti gli uomini a cui ha voluto bene, a partire dal padre (John Allen Nelson).

Sognare e volere e combattere contro i mulini a vento per qualcosa che non si riesce mai ad ottenere, guardando ai segni e credendo fideisticamente alla magia dell’amore, è stato sempre il motore della vita di Rebecca. Le conseguenze di questo atteggiamento sono state il filo conduttore della narrazione così come in generale lo è stato il riflettere sui nostri desideri di forzare le relazioni lì dove è evidente che non vogliono andare. Il tema lo si affronta con Rebecca, ma anche nel rapporto fra Paula (Donna Lynne Champlin) e Darryl (Pete Gardner) – grandiosa in proposito “You’re My Best Friend (and I Know I’m Not Yours)” (2.11) – o Trent (Paul Welsh) e Rebecca. L’amicizia e il suo significato, e in particolare anche l’amicizia fra donne (“Friendtopia”), è stata una bella, forte tematica della stagione, con l’inaspettato, riuscito avvicinamento con Valencia (Gabrielle Ruiz) e temporaneo doveroso allontanamento con Paula. Coltivare un rapporto sereno con le altre donne ha anche permesso a Rebecca di ricostruirsi un'identità, cercando di non farla dipendere esclusivamente da un amore romantico con un uomo. Il sottotesto femminista si è fatto più forte e, citando espressamente la “bad feminist” di Roxane Gay (2.05), si è ammessa la vulnerabilità del cercare di conciliare l'importanza di empowerment con ragionevoli desideri che in apparenza potrebbero contrastare con principi di indipendenza. Proprio in prospettiva femminista ha deluso l’idea di far diventare Heather (Vella Lovell) la ragazza immagine per una lavanda vaginale, considerato che sono considerate dannose per le donne.

Notevole è stata invece la scelta di mostrare la decisione di Paola di abortire (2.04). La modalità in cui questo è avvenuto, in modo relativamente poco drammatico, come una scelta pragmatica di una donna adulta che sa quello che vuole - nel suo caso è già madre, sa di non poterselo economicamente permettere e vuole continuare a studiare per diventare avvocato e seguire il sogno di una vita (“Maybe this dream” in 2.02 )-, è stato rincuorante ed è in linea con quanto gli studi sull'aborto dimostrano essere spesso questo tipo di scelte (si legga in proposito, volendo, Pro di Katha Polit). Una storyline similare c’è stata in Jane the Virgin (con il personaggio di Xiomara), sempre della CW, e non si può che applaudire questa tendenza che è evidentemente una scelta del network.

L'uscita di scena di Greg (Santino Fontana), è stato un duro colpo per la serie, perché ha eliminato una delle colonne portanti del programma. È stata realizzata in modo acuto, rivelando una mai ammessa dipendenza da alcool del personaggio. ATTENZIONE SPOILER. Diversamente dal colpo di scena dell'ultima puntata, che vede Josh (Vincent Rogriguez III) optare per un futuro - decidere di farsi prete - che esce dal nulla, totalmente ingiustificato se non ai fini di un colpo di scena scioccante, la rivelazione relativa a Greg è stata inaspettata, ma ha avuto senso. Josh, che è stato esplorato più approfonditamente, è sempre stata la fantasia romantica per eccellenza per Rebecca, ma con lui non ha mai avuto una vera intesa. E il venir meno di Greg ha reso deprimente per lo spettatore seguire un amore per cui non c'era intesa. In questo davvero, la serie si presenta come l'anti rom-com. La chiusura di stagione lascia intendere che la direzione in cui vogliono andare è quella di esplorare ulteriormente l'eterna ossessione di Rebecca per Josh, prima espressa come amore, d’ora in poi come vendetta. Il potenziale per un vero rapporto romantico però c’è con la nuova entrata del capo di lei, Nathaniel (Scott Michael Foster, Greek), succube dell’approvazione di un padre per il quale non sarà mai efficiente a sufficienza (“Man nap” in 2.12 è un must). I due personaggi, hanno una fantastica dinamica di odio-amore, e una formidabile intesa fisica – esplorata in modo esilarante da “Let’s have intercorse”. Le scintille ci sono già state e in fondo il senso sella serie non è quello di non credere nell’amore, ma di non credere in una fantasia precostituita dell’amore da cui far dipendere tutto il resto come se potesse far sparire ogni altro problema dalla propria vita (“We’ll Never Have Problems Again”).

lunedì 16 gennaio 2017

PITCH: baseball e femminismo


È terminata con il futuro della protagonista in bilico così come quello della serie, la prima stagione di Pitch (dell’americana Fox) che ha raccolto buoni consensi di critica – era una delle più attese del 2016 – ma ascolti minori del previsto.

Ginny Baker (Kylie Bunbury) è una giocatrice di baseball che diventa la prima donna a venire assunta come lanciatrice da una squadra della Major League, quella dei Los Padres di San Diego. Fin da piccola il padre (Michael Beach), ora scomparso, intuendone le potenzialità, l’ha allenata duramente – se doveva scegliere fra il ballo scolastico e gli allenamenti, erano sempre questi ultimi ad avere la meglio (1.04). Da adulta a prendersi cura dei suoi interessi professionali è la sua agente, Amelia Slater (Ali Larter), che insieme ad Eliot (Tim Jo), che diventa direttore dei social media, lascia la sua carriera precedente per dedicarsi completamente al nuovo astro nascente dello sport. La posizione di Ginny non è facile, anche perché si ritrova in un ambiente, anche storicamente, completamente maschile. Del fatto che non sia una situazione usuale sono molto consapevoli tutti, in primis il manager generale, Oscar Arguella (Mark Consuelos, All My Children) e il presidente ad interim Charlie Graham (Kevin Connolly, Entourage). Presto Ginny guadagna la stima del capitano della squadra, Mike Lawson (Mark-Paul Gosselaar, noto soprattutto per il suo ruolo di Zack in Saved By the Bell / Bayside School), che è alla fine della carriera, e dell’allenatore Al (Dan Lauria). Fra i colleghi trova un vecchio compagno di quando giocava in squadre minori, Blip Sander (Bo McRae), che, con la moglie Evelyn (Meagan Holder), è per lei un vero amico. Il fratello Will (BJ Britt), che agli inizi seguiva la sua carriera, è più interessato a sfruttare la sua fama che altro, messo alle strette da debiti contratti con persone con pochi scrupoli.

È probabilmente dai tempi di Friday Night Lights che non c’è una serie così fortemente incentrata sullo sport. In questo caso, come in quello, non è necessario conoscerne le regole per apprezzare quello che accade, ma di certo aiuta a comprendere finezze e riferimenti. E come in quel caso la vita personale dei protagonisti è centrale. Qui, essenziale è specificatamente Ginny in quanto donna. La serie è consapevole della politica di genere e delle filosofie femministe, anche con riferimento specifico a dibattiti molto attuali. Il personaggio stesso nella diegesi è cosciente che è come se facesse una dichiarazione per il fatto stesso di esistere. Diventa un simbolo e un modello da emulare per milioni di ragazzine. Come viene vista e trattata proprio in quanto femmina è occasione di ripetuta riflessione. Al deve scusarsi pubblicamente (1.02) per aver fatto delle osservazioni su di lei che la riducono a suo solo aspetto fisico. È una giocatrice, ma allo stesso tempo un brand. Questo le provoca anche momenti di panico: si sente sopraffatta dalla responsabilità che sente addosso.  Essendo la prima, infrange il cosiddetto soffitto di cristallo, e uno spot che prepara su di lei una nota marca di scarpe (1.06) la dipinge proprio come una pioniera che con la sua pallina lanciata verso l’alto spacca un muro di vetro.

La serie è davvero molto attenta alla questione femminista e non solo è quasi emozionante per come trasmette un messaggio di empowering, ma diventa soggetto attivo di un dibattito che intende cambiare la conversazione. In un momento in cui nella realtà americana è molto presente il problema degli stupri nei campus universitari e in cui c’è il riverbero del danno delle parole dell’allora ancora candidato alla presidenza Trump che diceva che le donne basta “afferrarle per la figa” per far fare loro quello che si vuole, dichiarazioni da lui definite come semplici chiacchiere da spogliatoio, e in un’epoca in cui si ragiona sul modello di mascolinità che si vuole proporre, ha una pregnanza non da poco entrare in quel tipo di spogliatoi per sentirne le chiacchiere. Che gli autori del programma facciano dichiarare alla giovane sportiva, in occasione della sua ospitata nella diegesi al live di Jimmy Kimmel, che “una donna non è responsabile del fatto che la assalgano sessualmente perché era nello spogliatoio sbagliato. Questo non solo è sbagliato, è pericoloso. Non dobbiamo assicurarci che ogni ragazza entri nella stanza giusta, dobbiamo assicurarci che ogni ragazzo sappia che è sbagliato stuprare” (1.02). Queste parole hanno se non il senso di una risposta, sicuramente quello di una presa di posizione.

Che per superare atteggiamenti di “due pesi due misure” ci voglia il sostegno e l’impegno di tutti si è ben visto, ad esempio, un una puntata come “San Francisco” (1.07). C’è il rischio che delle foto nude di Ginny vengano rese pubbliche contro la sua volontà. I manager sono preoccupati. Nella discussione su come gestire la situazione, sottolineano ad Amelia che gli uomini non vengono resi oggetto come le donne. “Thanks for mansplaining that to me!” replica lei. “Grazie di spiegarmelo!” tradurrei in italiano in mancanza di soluzioni migliori. In inglese viene utilizzato però il neologismo “mansplaining”, che si usa quando un uomo assume nei confronti di una donna un tono di spiegazione su un argomento che presumibilmente lei conosce meglio di lui.  Si trattava di un selfie e Ginny senza imbarazzo dichiara “It’s my body, it’s my business – È il mio corpo, sono affari miei”, mostrando una forte consapevolezza del proprio potere sul proprio corpo, terreno di battaglie femministe da sempre. Lì dove si vede che è la collaborazione di tutti che porta a demolire double standard sessisti è quando per sostenerla l’intera squadra decide di posare nuda. In generale, si riesce ad evitare di essere didattici perché si mostra la necessità della parità, per una vita sana, per un buon lavoro.

L’infanzia e i suoi risvolti nell’età adulta (con i flashback non solo di Ginny, ma anche di Mike), la lealtà familiare e amicale, il rapporto con i media, il rapporto fra il singolo e il gruppo, l’amicizia uomo-donna ed eventualmente i rapporti sentimentali (con il rapporto fra Ginny e Mike che ha sempre anche un sottotesto di potenziale intesa romantica) sono pure argomenti di molto rilievo. Ideata da Dan Fogelman (This is us, Galavant) e Rick Singer, Pitch è distante dai vertici raggiunti dalla summenzionata Friday Night Lights, ma  nondimeno è un racconto solido.  

sabato 25 giugno 2016

ORPHAN BLACK: la quarta stagione


È terminata con gran parte dei personaggi in pericolo di vita la quarta stagione di Orphan Black. La prossima, in cui inevitabilmente ci sarà la risoluzione dei cliffhanger, è già stata annunciata come l’ultima. Questa intanto è stata molto rinvigorita dal ritorno alle origini, guardando a quello che era accaduto prima della morte di Beth, evento che aveva dato per noi origine alle vicende. È stato saggio poi concentrarsi sul progetto Leda (e potevano mancare “visioni” di un cigno da parte di Rachel?), lasciando da parte i Castor (Ari Millen), presenti solo in un “esemplare”, Ira, l’amante di Susan Duncan (Rosemary Dunsmore). In primo piano di nuovo la Neolution con larve robotiche impiantate nelle guance di alcuni personaggi e la BrightBorn, un progetto segreto ossessionato dall’idea del miglioramento della specie umana mascherato da clinica per la fecondazione assistita.

La bravura di Tatiana Maslany nell’interpretare i vari cloni lascia sempre sbalorditi. Ci si deve attivamente ricordare che non sono veramente persone diverse. Quest’anno Krystal, l’estetista un po’ oca giuliva del gruppo, ha avuto con piacere più spazio, ed ha debuttato M.K, che si nasconde dietro a una maschera da pecora. È rimasto sempre per fortuna presente anche uno dei favoriti, Felix (Jordan Gavaris), che in questa stagione ha trovato la propria sorella biologica.

Ancora una volta non si può non notare quanto femminile sia la creazione di Graeme Manson e John Fawcett. E in proposito rimando alle osservazioni già fatte per la terza stagione. Forse ancor più marcato è ora il “lavoro di gruppo” delle donne. “Stiamo facendo tutto questo per tutte le sorelle” dice ad un certo punto, verso la fine, Sarah. E questo è il messaggio di fondo una volta in più. Le donne lì dove collaborano possono ottenere grandi cose. Conoscersi e riconoscersi come sorelle, come sestras per usare la loro terminologia, è la via costruttiva e positiva. Rachel, che contro di loro combatte perché non vuole vederle come tali, è la cattiva della situazione.

Il femminismo della serie è talmente voluto da far sì che tutti i titoli delle puntate della stagione siano citazioni di Donna J. Haraway che, da quello che rivela la voce Wikipedia che la riguarda, è Distinguished Professor Emerita nel Dipatimento di Storia della Coscienza e del Dipartimento di Studi Femministi della University of California, Santa Cruz (USA) ed è un’autrice che ha riflettuto e scritto molto sul tema della scienza e tecnologia in rapporto al femminismo – tutti i titoli della terza stagione erano tratti dal discorso d’addio di Dwight Eisenhower, quelli della seconda dai lavori di Sir Francis Bacon e quelli della prima da L’Origine delle Specie di Darwin. 


lunedì 29 giugno 2015

ORPHAN BLACK: la terza stagione


NB. Nei primi due paragrafi ci sono SPOILER rispetto agli avvenimenti della terza stagione, ma nei paragrafi successivi c’è solo una riflessione sulla serie in toto, che può essere letta anche separatamente.  

Era terminata con un colpo di scena che aveva istantaneamente allargato la mitologia del programma la seconda stagione di Orphan Black: esistevano i Castor, cloni maschili (interpretati da Ari Millen), organizzati militarmente. E la terza stagione, per quanto sia partita su questo fronte un po’ lentamente, è stata costruita idealmente proprio su di loro, anche se di fatto sono stati esplorati poco: nati con un difetto che porta a problemi neurologici seri e alla morte, sono stati in cerca del Castor originale per poter trovare, grazie al suo genoma, una cura per sé. Il colpo di scena maggiore della terza stagione perciò in fondo c’è stato con il sottofinale (3.09), con l’attesa rivelazione che l’Originale è Kendall Malone, la madre di Ms S (Maria Doyle Kennedy), che ha in sè due linee cellulari diverse e ha dato pertanto origine tanto ai Castor quanto alle Leda. La finale (3.10), che ci ha regalato una tecnicamente meravigliosa cena di famiglia in risposta al ballo di gruppo dell’anno precedente, è stata quasi anticlimatica, pur avendo avendoci lasciati con una Delphine (Évelyne Brochu) possibilmente morta, dopo che le hanno sparato, e il ritorno a tutta forza dei Neoluzionisti, uno dei cui leader si è rivelata essere la madre di Rachel, finora creduta morta, prima di chiudersi con una affettuosa riunione sulla neve di Sarah con Kira (Skyler Wexler). L’immagine incapsula un grande tema di questa stagione, quello della maternità, ripreso su più fronti - si pensi, oltre alle genitrici appena citate in questo paragrafo, anche a quella temibilissima dei Castor, la dottoressa Virginia Coady (Kyra Harper), scienziata.

Il personaggio di Sarah è stata, come e più che in passato, il maggior fulcro delle vicende, insieme a  Helena, la più ferale, pazza e vulnerabile delle creature. La memorabile citazione di questa stagione viene proprio da lei, poco prima che faccia una strage: “You should not threaten babies”  (Non dovreste minacciare i bambini) (3.09). Solo a  ricordarla, pronunciata con aria minacciosa col suo distintivo accento ucraino, fa venire da ridere – e si può contare solo su Orphan Black probabilmente per far ridere a questo modo su un pluriomicidio; Cosima ha iniziato una relazione con Shay (che per un nanosecondo si è creduta una talpa dei Castor, ma che certamente nasconde qualcosa che verrà fuori nella prossima stagione); Alison, e Donnie (Kristian Bruun), con la campagna elettorale di lei e la presa in gestione del Bubbles come copertura della loro attività di spacciatori di droga (con tanto di citazione di Breaking Bad) sono stati usati alla fine solo come sollievo comico, e non è dispiaciuto, anche se questo li ha un po’ isolati rispetto al resto delle vicende. Tatiana Maslany, oltre a loro e a Rachel (e a Beth), quest’anno ha anche continuato il suo tour de force con un memorabile nuovo clone aggiunto alla lista che mi auguro abbia maggior rilievo in futuro, Krystal. È perfino sorprendente quanto riesca ancora ad essere fresca e originale.

Quello che mi colpisce ancora una volta è quanto femminile sia questo programma. Non solo le protagoniste principali sono donne, ma lo sono anche personaggi minori che facilmente avrebbero potuto essere pensati come ruoli maschili. Ho perfino pensato: “questa è la regola per gli uomini, aspettarsi personaggi del proprio genere sessuale di appartenenza in così grande quantità”. Come è strano, e in fondo triste e vergognoso, che io come donna invece non ne sia abituata. Qui non mancano sicuramente gli uomini, e hanno anche bei personaggi -  Felix (Jordan Gavaris); Paul (Dylan Bruce), che in questa stagione sacrifica la vita per amore di Sarah; Scott (Josh Vokey); Donnie… - ma sono secondari.

Il New York Times, in un articolo che caldeggio, ha proprio riflettuto su come la serie, al di là del tema di base più ovvio della natura vs cultura, estenda questa stessa riflessione su questioni di genere, e diventi una meditazione sulla femminilità. “Che aspetto ha la stessa identica donna se la cresci della capsula di Petri di ‘Desperate Housewives’ o in un film horror ambientato nell’Europa dell’Est? E in un poliziesco procedurale? Il risultato è una rivelazione: invece di esistere ciascun archetipo come personaggio femminile solitario nel proprio rispettivo universo, questi tropi normalmente isolati si trovano, si alleano e cercano di liberarsi dal sistema malvagio che le ha create”. E “(s)strutturando la storia intorno alle differenza dei cloni, ’Orphan Black’ sembra suggerire che la monotona uniformità imposta sugli archetipi femminili esistenti deve morire”. Non è sufficiente prendere un prototipo di donna e semplicemente cambiarle la pettinatura per avere un nuovo personaggio.  

Non sono la tua proprietà, non sono il tuo esperimento, non sono la tua arma, non sono il tuo giocattolo: queste frasi accompagnavano le locandine della terza stagione della serie, ciascuna sull’immagine di uno dei cloni. Questo evidenzia l’altra grande attualissima tematica politica affrontata dalla serie, quella sul corpo femminile e sul suo possesso e determinazione. Nel sopracitato articolo Graeme Manson, ideatore del programma, è esplicito nel collegare le vicende alle questioni femministe: “A chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla la riproduzione?” I cloni si battono di continuo per controllare la propria vita, il proprio corpo, la propria fertilità, e con questo la propria umanità, contro chi dall’esterno vede in loro solo il valore si proprietà intellettuale, corpi che possono essere monitorati, regolati, fecondati, sterilizzati…

A me è tornato in mente il titolo di una famosa raccolta di scritti femministi degli anni Settanta curata da Robin Morgan, Sisterhood is Powerful, perché in effetti la Sorellanza è Potente in Orphan Black. Sono donne che si aiutano, diventano sorelle, famiglia l’una per le altre ed è questo ciò che consente loro di respingere gli attacchi esterni e preservarsi. Fanno rete. “Seestra” (o “”Sistra” se si preferisce la traslitterazione all’italiana) dice Helena per riferirsi alle altre: “Sorella”. I personaggi non sono soli, ma contano sull’aiuto reciproco anche nelle più estreme o bizzarre circostanze. E possono convivere e condividere i propri rispettivi universi senza necessariamente entrare in conflitto.

Per riprendere un’ultima volta l’articolo firmato da Lili Loofbowrow, il programma nel far coesistere vari universi femminili offre anche una metacritica ai generi che gestisce, rifiutandosi di metterli in opposizione l’uno all’altro, ma integrandoli. Orphan Black è insomma una serie dalla trama molto asciutta e tesa, che si perde poco in considerazioni a margine, apparentemente, ma nondimeno le storie riverberano in notevolissime e importanti riflessioni. 








domenica 4 agosto 2013

AHS COVEN: l'oppressione delle mionoranze

 
Tim Minear, produttore esecutivo di American Horror Story: Coven, terzo capitolo di AHS, che si preannuncia più ricco di umorismo dei precedenti, ha rivelato, insieme ad oltre ghiotte novità, che il punto focale della stagione sarà quello dell’oppressione delle minoranze di ogni tipo, come scrive l’Hollywood Reporter: “All’interno di quell’idea, [verrà esplorata] l’idea dei gruppi minoritari che si attaccano l’un l’altro e che fanno il lavoro della cultura più ampia per la cultura più ampia. […] “Pur essendoci un forte tema femminista che attraversa Coven quest’anno, ci saranno anche i temi della razza, dell’oppressione e c’è il tema molto forte della famiglia, specificatamente delle madri e delle figlie”.