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giovedì 26 ottobre 2023

RAGAZZE VINCENTI: baseball e ambizioni

È un’esplorazione di identità queer, una riflessione sulla femminilità, un’ode al lavoro di squadra e uno sguardo a come ambizioni personali e pressioni sociali si compenetrano, la serie di otto puntate A League of their own – Ragazze Vincenti (Amazon Prime), tratta dall’omonimo celebre film che personalmente non ho visto. A fare una comparsata nel ruolo del proprietario di un bar LGBTQ+ clandestino c’è anche Rosie O’Donnell, fra le attrici della pellicola cinematografica. Anche se non ci sarà una seconda stagione – una prevista di quattro puntate è stata cestinata a causa dello sciopero degli sceneggiatori - la prima si chiude in modo soddisfacente, facendo vincere le ragazze protagoniste dove più conta, sul piano morale.

Siamo nel 1943, durante la seconda Guerra Mondiale. Un gruppo di giovani donne viene selezionato per far parte di una squadra di baseball, le Rockford Peaches, professioniste che giocano in un’apposita lega. Per tutte loro è il sogno di una vita che si realizza. Carson Shaw (Abbi Jacobson, Broad City, co-ideatrice insieme a Will Graham), sposata ma con il marito Charlie (Patrick J. Adams) in guerra, diventa presto non solo una giocatrice, ma l’allenatrice di tutte loro, dopo che quello che era stato loro assegnato, Dove (Nick Offerman, Parks and Recreations, Devs), le snobba perché non le considera vere atlete con delle possibilità, in gran parte in quanto donne. Fra le compagne Carson trova una sorta di famiglia – Lupe (Roberta Colindrez), Jess (Kelly McCormack), Shirley (Kate Berlant), Esti (Priscilla Delgado)…Se all’inizio tutte la consideravano una campagnola, a poco a poco imparano a rispettarla e a farsene ispirare. Trova anche l’amore, intessendo una relazione con l’avvenente Greta Gill (D’Arcy Carden, The Good Place) e scoprendo così un lato di sé che non aveva mai esplorato. Quest’ultima, apparentemente molto sicura di sé, ha un passato doloroso ed è arrivata a Chicago insieme alla sua migliore amica, Jo De Luca (Melanie Field), a cui è profondamente legata.

Chi, nonostante la sua bravura come lanciatrice, non riesce a farsi accettare in squadra in quanto nera, è Maxine “Max” Chapman (Chanté Adams), che viene scoraggiata dalla madre a inseguire sogni che ritiene poco realistici, ma che trova supporto nell’amica del cuore, l’effervescente Clance Morgan (Gbemisola Ikumelo), che nel tempo libero ama disegnare fumetti. Perfino i club clandestini sono divisi dalla segregazione razziale. Insieme a quella di Carson, la storia di Max è portante nelle vicende, e si vede quanto sacrificio personale c’è nel perseguire sogni che la società impone non siano per te.

Siamo in un’epoca in cui essere gay è illegale, ti possono picchiare e arrestare per questo; il sessismo e il razzismo abbondano. Le ragazze devono sentirsi gridare frasi moleste dagli spalti che nulla hanno a che fare con lo sport, il loro abbigliamento e la vita privata vengono monitorate al punto da assegnare loro una chaperon, come se fossero delle minori, Beverly (Dale Dickey), e devono preoccuparsi di aderire ad un modello di femminilità che è stato deciso da altri per loro con il solo scopo di soddisfare un pubblico maschile.       

Pur essendo una serie ambientata in ambito sportivo, il baseball ha una rilevanza in fondo minore – io non ne capisco in proposito e qui non ti spiegano di certo, danno per scontato che tu conosca le regole del gioco, e se non non è così in fondo è irrilevante. Lanciare e colpire una pallina alla fine è una scusa per un messaggio che riguarda più l’essere se stessi e cercare di realizzare i propri sogni nella vita che altro. Ci si mantiene in equilibrio fra la necessità di lavorare sodo per ottenere quello che si vuole senza lasciarsi sconfiggere dalle circostanze, ma allo stesso tempo non si prescinde completamente da quelle circostanze. Non si è eccessivamente sentimentali anche quando si è positivi e propositivi.

Il messaggio di fondo alla fine è quello della presenza di una molteplicità di espressioni nell’essere donne, e stabilire a priori con lo “stampino” che cosa lo sia è tossico e deleterio, significa svilire le potenzialità della femminilità che può esprimersi in vari modi e non per forza da uso dei maschi. In questo è cruciale che le donne sappiano esserci le une per le altre, e questo la serie lo mostra ancora e ancora, che sia nelle Peaches che aiutano l’amica e in quel momento rivale Jo a raggiungere la base che deve per assicurarsi la vittoria, che sia nel semplice gesto di Beverly che consegna a Jess le multe che avrebbe dovuto pagare per non indossare la gonna invece dei pantaloni, che sia infine Bert (Lea Robinson), lo zio trans di Max, che le perdona un comportamento che lo ferisce. 

lunedì 29 giugno 2015

ORPHAN BLACK: la terza stagione


NB. Nei primi due paragrafi ci sono SPOILER rispetto agli avvenimenti della terza stagione, ma nei paragrafi successivi c’è solo una riflessione sulla serie in toto, che può essere letta anche separatamente.  

Era terminata con un colpo di scena che aveva istantaneamente allargato la mitologia del programma la seconda stagione di Orphan Black: esistevano i Castor, cloni maschili (interpretati da Ari Millen), organizzati militarmente. E la terza stagione, per quanto sia partita su questo fronte un po’ lentamente, è stata costruita idealmente proprio su di loro, anche se di fatto sono stati esplorati poco: nati con un difetto che porta a problemi neurologici seri e alla morte, sono stati in cerca del Castor originale per poter trovare, grazie al suo genoma, una cura per sé. Il colpo di scena maggiore della terza stagione perciò in fondo c’è stato con il sottofinale (3.09), con l’attesa rivelazione che l’Originale è Kendall Malone, la madre di Ms S (Maria Doyle Kennedy), che ha in sè due linee cellulari diverse e ha dato pertanto origine tanto ai Castor quanto alle Leda. La finale (3.10), che ci ha regalato una tecnicamente meravigliosa cena di famiglia in risposta al ballo di gruppo dell’anno precedente, è stata quasi anticlimatica, pur avendo avendoci lasciati con una Delphine (Évelyne Brochu) possibilmente morta, dopo che le hanno sparato, e il ritorno a tutta forza dei Neoluzionisti, uno dei cui leader si è rivelata essere la madre di Rachel, finora creduta morta, prima di chiudersi con una affettuosa riunione sulla neve di Sarah con Kira (Skyler Wexler). L’immagine incapsula un grande tema di questa stagione, quello della maternità, ripreso su più fronti - si pensi, oltre alle genitrici appena citate in questo paragrafo, anche a quella temibilissima dei Castor, la dottoressa Virginia Coady (Kyra Harper), scienziata.

Il personaggio di Sarah è stata, come e più che in passato, il maggior fulcro delle vicende, insieme a  Helena, la più ferale, pazza e vulnerabile delle creature. La memorabile citazione di questa stagione viene proprio da lei, poco prima che faccia una strage: “You should not threaten babies”  (Non dovreste minacciare i bambini) (3.09). Solo a  ricordarla, pronunciata con aria minacciosa col suo distintivo accento ucraino, fa venire da ridere – e si può contare solo su Orphan Black probabilmente per far ridere a questo modo su un pluriomicidio; Cosima ha iniziato una relazione con Shay (che per un nanosecondo si è creduta una talpa dei Castor, ma che certamente nasconde qualcosa che verrà fuori nella prossima stagione); Alison, e Donnie (Kristian Bruun), con la campagna elettorale di lei e la presa in gestione del Bubbles come copertura della loro attività di spacciatori di droga (con tanto di citazione di Breaking Bad) sono stati usati alla fine solo come sollievo comico, e non è dispiaciuto, anche se questo li ha un po’ isolati rispetto al resto delle vicende. Tatiana Maslany, oltre a loro e a Rachel (e a Beth), quest’anno ha anche continuato il suo tour de force con un memorabile nuovo clone aggiunto alla lista che mi auguro abbia maggior rilievo in futuro, Krystal. È perfino sorprendente quanto riesca ancora ad essere fresca e originale.

Quello che mi colpisce ancora una volta è quanto femminile sia questo programma. Non solo le protagoniste principali sono donne, ma lo sono anche personaggi minori che facilmente avrebbero potuto essere pensati come ruoli maschili. Ho perfino pensato: “questa è la regola per gli uomini, aspettarsi personaggi del proprio genere sessuale di appartenenza in così grande quantità”. Come è strano, e in fondo triste e vergognoso, che io come donna invece non ne sia abituata. Qui non mancano sicuramente gli uomini, e hanno anche bei personaggi -  Felix (Jordan Gavaris); Paul (Dylan Bruce), che in questa stagione sacrifica la vita per amore di Sarah; Scott (Josh Vokey); Donnie… - ma sono secondari.

Il New York Times, in un articolo che caldeggio, ha proprio riflettuto su come la serie, al di là del tema di base più ovvio della natura vs cultura, estenda questa stessa riflessione su questioni di genere, e diventi una meditazione sulla femminilità. “Che aspetto ha la stessa identica donna se la cresci della capsula di Petri di ‘Desperate Housewives’ o in un film horror ambientato nell’Europa dell’Est? E in un poliziesco procedurale? Il risultato è una rivelazione: invece di esistere ciascun archetipo come personaggio femminile solitario nel proprio rispettivo universo, questi tropi normalmente isolati si trovano, si alleano e cercano di liberarsi dal sistema malvagio che le ha create”. E “(s)strutturando la storia intorno alle differenza dei cloni, ’Orphan Black’ sembra suggerire che la monotona uniformità imposta sugli archetipi femminili esistenti deve morire”. Non è sufficiente prendere un prototipo di donna e semplicemente cambiarle la pettinatura per avere un nuovo personaggio.  

Non sono la tua proprietà, non sono il tuo esperimento, non sono la tua arma, non sono il tuo giocattolo: queste frasi accompagnavano le locandine della terza stagione della serie, ciascuna sull’immagine di uno dei cloni. Questo evidenzia l’altra grande attualissima tematica politica affrontata dalla serie, quella sul corpo femminile e sul suo possesso e determinazione. Nel sopracitato articolo Graeme Manson, ideatore del programma, è esplicito nel collegare le vicende alle questioni femministe: “A chi appartieni, a chi appartiene il tuo corpo, la tua biologia? Chi controlla la riproduzione?” I cloni si battono di continuo per controllare la propria vita, il proprio corpo, la propria fertilità, e con questo la propria umanità, contro chi dall’esterno vede in loro solo il valore si proprietà intellettuale, corpi che possono essere monitorati, regolati, fecondati, sterilizzati…

A me è tornato in mente il titolo di una famosa raccolta di scritti femministi degli anni Settanta curata da Robin Morgan, Sisterhood is Powerful, perché in effetti la Sorellanza è Potente in Orphan Black. Sono donne che si aiutano, diventano sorelle, famiglia l’una per le altre ed è questo ciò che consente loro di respingere gli attacchi esterni e preservarsi. Fanno rete. “Seestra” (o “”Sistra” se si preferisce la traslitterazione all’italiana) dice Helena per riferirsi alle altre: “Sorella”. I personaggi non sono soli, ma contano sull’aiuto reciproco anche nelle più estreme o bizzarre circostanze. E possono convivere e condividere i propri rispettivi universi senza necessariamente entrare in conflitto.

Per riprendere un’ultima volta l’articolo firmato da Lili Loofbowrow, il programma nel far coesistere vari universi femminili offre anche una metacritica ai generi che gestisce, rifiutandosi di metterli in opposizione l’uno all’altro, ma integrandoli. Orphan Black è insomma una serie dalla trama molto asciutta e tesa, che si perde poco in considerazioni a margine, apparentemente, ma nondimeno le storie riverberano in notevolissime e importanti riflessioni.