lunedì 31 ottobre 2011

Speciale di Halloween per PRETTY LITTLE LIARS (2.13)


Pretty Little Liars ha confezionato una puntata di Halloween -  2.13, andata in onda il 19 ottobre negli USA - davvero cool. Ci ha dato dolcetto e scherzetto. Dolcetto, è un episodio speciale. La prima tranche della seconda stagione è terminata a fine agosto e la seconda non comincia prima dell’anno nuovo, quindi questa è una puntata a sé. Scherzetto, è ambientata qualche anno prima dell’inizio delle vicende, nel 2008: Aria ha le mesh violette ai capelli, Hanna è soprappeso, Spencer porta occhialoni, Emily non è ancora “uscita dall’armadio” e, naturalmente, Alison è ancora viva.
La puntata è stata una vera goduria per i fan, a cominciare dalla sigla (sotto), modificata appositamente per l’occasione: i flash nella pupilla dell’occhio, con  la maschera che nella puntata le perseguita; rossetto e smalto neri al cadavere; i lampi e il sangue che cola dall’alto dello schermo quando si stacca sulle quattro davanti alla bara; e poi la chiusura con le impronte di sangue alla fine. Magnifica.
Scritta dall’ideatrice I. Marlene King e girata da Dana W. Gonzales, “The First Secret” (così era intitolata) è stata un continuo piccolo riferimento ed eco di avvenimenti futuri, alcuni importanti e ben noti (Aria che vede il padre tradire la madre, ad esempio), altre volte appena accennati (Aria che passando per un corridoio sbatte inavvertitamente, senza badarci, contro Ezra; la madre di Hanna che cerca lavoro e vede un annuncio per personale in banca…). Abbiamo avuto modo di vedere in prospettiva diversa alcuni personaggi (Mona quando era una “ragazza sfigata”, Jenna prima di diventare cieca quando ancora Alison nemmeno la conosceva, Alison che riceveva lei stessa messaggi minacciosi da una fantomatica A), e momenti di tensione (l’aggressione ad Alison).   
Il dialogo era scoppiettante, dall’umorismo (“che peccato, tutto questo testosterone e nemmeno una pecora in vista” scherza Alison a un gruppo di amici), alle allusioni vagamente minacciose in cui la serie riesce così bene e che sono un suo classico. Ho trovato assolutamente perfetta quella con Emily che guarda Jenna mentre balla. Alison le si avvicina all’orecchio e avviene questo scambio (la traduzione è mia):
Alison: Stavi desiderando di assaggiare il suo Labello alla ciliegia?
Emily: Che cosa?
 Alison: Non ti preoccupare, Em. Il tuo segreto è al sicuro con me.
Quello che io ho tradotto come “Labello alla ciliegia” era in originale “cherry chapstick” (la marca Chapstick è venduta anche da noi, ma mi pare meno nota del Labello, da cui il mio adattamento). Comunque, era chiaramente un riferimento alla canzone di Katy Perry I kissed a girl, uscita proprio nel 2008, qualche mese prima della festa a cui partecipano le ragazze (28 ottobre). Il testo della canzone dice, nel ritornello tradotto, “Ho baciato una ragazza e mi è piaciuto / il gusto del suo Labello alla ciliegia”). Noi sappiamo già bene che Emily è lesbica, e anche se qui lei non coglie il riferimento di Alison, allo spettatore arriva in modo forte e chiaro, attraverso una godibilissima citazione indiretta.   
Anche i costumi della festa erano convincenti: Spencer era Maria Stuarda, regina di scozia, Hanna Britney Spears nella versione …Baby one more time, Aria era una strega, Emily era un'indiana, e tanto Alison quanto Jenna si sono presentate da Lady Gaga. Trick AND treat.


venerdì 28 ottobre 2011

ONCE UPON A TIME: una favola per adulti



C’era una volta
Una foresta incantata piena di tutti i classici personaggi che conosciamo.
O che pensiamo di conoscere.
Un giorno si trovarono intrappolati in un luogo dove tutti i loro lieti fine erano stati rubati.
Il nostro mondo.
Questo è quello che è successo…

Con questa scritta, nella mia traduzione, comincia la nuova serie Once Upon a Time, C’era Una Volta cioè, una favola fatta coi personaggi delle favole, potremmo dire. Il principe Azzurro (Josh Dallas) bacia e risveglia così Biancaneve (Ginnifer Goodwin, Big Love). Si sposano, ma proprio durante le nozze la Regina Cattiva (Lana Parrilla, Swingtown) lancia loro una maledizione. Per ora che la maledizione arriva come un potente fumo nero – che ferma la città nel tempo e fa sì che tutti si dimentichino chi sono e vivano una realtà simile alla nostra – Biancaneve ha partorito una bambina, Emma, che messa dal padre in un portale magico (un armadio a forma di albero) riesce a passare nel mondo reale. La leggenda, come raccontata dal cattivo Rumplestiltskin (Tremotino in italiano), vuole che questa bimba a 28 anni di distanza torni per liberare i personaggi delle favole dalla maledizione.
Il giorno del suo ventottesimo compleanno Emma Swan (Jennifer Morrison, House), una donna che era stata abbandonata dai genitori in fasce, riceve la visita di un bambino, Henry (Jared S. Gilmore) che le dice che, secondo il suo libro di fiabe, è lei la salvatrice, la figlia di Biancaneve e del Principe Azzurro. Si fa riaccompagnare a Storybrooke, nel Maine, dove tutti gli abitanti sono appunto delle versioni “umane” dei personaggi delle fiabe, anche se non lo sanno. La Regina Cattiva è Regina, la madre adottiva del piccolo, sindaco della città. Biancaneve è Mary Margaret Blanchard, una maestra delle elementari. Il Principe Azzurro, che nel regno delle fiabe era rimasto ferito per assicurare la salvezza a Emma, è qui John Doe, un uomo privo di identità perciò – in inglese sono chiamati John Doe tutti gli uomini senza un’identità conosciuta – in coma. Il Grillo Parlante è Archie Hopper. Tremotino è Mr. Gold, il proprietario della locanda dove alla fine Emma decide di fermarsi. E in tutte le persone apparentemente comuni si intravedono i personaggi che erano nelle fiabe.
Ideata da Edward Kitsis e Adam Horowitz, già autori di Lost (la cui lezione si vede, su più piani), Once Upon a Time è una storia fantasy piena di stupore e commozione, avventura e amore, ambiziosa ed epica. Non vuole essere una semplice favoletta, e se anche è adatta a un pubblico molto giovane, si rivolge senz’altro anche a uno adulto. La storia si sposta avanti e indietro su due dimensioni, quella delle favole e quella più reale. C’è una grande cura ai dettagli: Regina che offre ad Emma del sidro di mele, ad esempio, o che si guarda allo specchio; una bimba a scuola che regala alla maestra al posto della tradizionale mela una pera; nei nomi - il Grillo Parlante che da umano si chiama Hopper (Saltatore), Biancaneve che ha il cognome che comincia con Blanch(e)… Il cast è eccellente.
In primissimo piano c’è il tema della speranza. I poster pubblicitari scrivono The Hope (La Speranza) sotto l’immagine di Emma, poiché lei è la Salvatrice (cosa che fa molto Buffy) e Mary dice che proprio la speranza, la possibilità di un lieto fine, è una delle forse più importanti nella vita. L’importanza delle storie, come modo per dare un senso al mondo, e il potere che credere in qualcosa ha nel renderlo vero sono delle altre colonne portanti. Al di là degli effetti speciali e dell’affabulazione, già dal trascinante pilot  si nota lo spessore di una storia leggibile al di là dell’allegoria. Pur non avendo tinte religiose, più volte ne ho sentito parallelismi con la religione cristiana peraltro.
Le favole, eredità culturale presente un po’ nel DNA di tutti, nel tempo sono state oggetto di feroci critiche e terreno di battaglia per il modo in cui la società costruisce e intende i generi sessuali. In estrema sintesi, l’accusa maggiore è stata quella di rendere le donne o impotenti vittime che devono essere salvate, il cui solo ideale è ottenere l’amore del principe di turno che aspettano passivamente o malvage megere, e di converso di rendere gli uomini superflui e irrilevanti, premio finale di vicende che hanno come protagoniste donne. Qui le donne sono sicuramente molto protagoniste, ma sono tutt’altro che inermi: quando la Regina Cattiva si presenta al matrimonio del Principe Azzurro e Biancaneve, quest’ultima prende la spada dal marito e la punta contro la nemica, anche solo per cominciare. Quello dei generi sarà uno degli elementi che sarà affascinante vedere come verrà sviluppato, così come la reinterpretazione in chiave moderna delle favole, che hanno la potenzialità di prendere nuovo smalto e nuovo significato.    
La serie ha debuttato sull’americana ABC lo scorso 23 ottobre. Su IMDB si può vedere (in inglese) il pilot.  

giovedì 27 ottobre 2011

LEGENDS: cominciano le riprese della serie fantasy per il web


Nasce la serie per il web Legends. Questo è il comunicato stampa:
Venerdì 28 Ottobre, a partire dalle ore 14, presso il locale S' Move Light Bar (Vico Dei Sospiri, 10 a Napoli nel quartiere/zona Chiaia) si terranno le prime riprese della Web Series fantasy LEGENDS, realizzata da Mondo Cult/Sm Production col fondamentale supporto di Scuola di Cinema di Napoli.
Il progetto nasce da un racconto dello scrittore Bruno Pezone incentrato sulle paure e le attese per il dicembre 2012, riadattato per l'audiovisivo da Giuseppe Cozzolino e sceneggiato dal gruppo di studenti del Corso di Scrittura Mistery/Noir 2010-11 tenutosi presso la sede della Scuola di Cinema di Napoli diretta da Roberta Inarta (con alcuni dei migliori giallisti napoletani come docenti: Maurizio de Giovanni, Diana Lama, Simonetta Santamaria, Ugo Mazzotta).

Sulla scia delle serie come LOST, HEROES, BUFFY THE VAMPIRE SLAYER il plot di questo telefilm per il Web si basa su un gruppo di ragazzi che, per caso (o forse no) si ritrovano al centro della Battaglie fra le Forze della Luce e delle Tenebre, rappresentati dagli dei e dai demoni delle antiche mitologie.

Il progetto prevede la realizzazione di una miniserie di sei episodi (di 10 minuti l'una) che verranno programmati sui canali web a disposizione dell'associazione Mondo Cult e della Scuola di Cinema di Napoli, ma verrà anche sottoposto all'attenzione dei media-partners della nuovissima NOIR FACTORY, il nuovo corso/laboratorio di scrittura per cinema & tv che partirà quest'anno con Scuola di Cinema e Mondo Cult dal mese di Novembre 2011 fino al mese di Maggio 2012. Fra questi partner, il canale STEEL di Mediaset Premium.
Per informazioni: 347/6603194.

THE LYING GAME (1.08): l’inside joke con Annie


Ho notato con molto piacere che in The Lying Game ad interpretare la madre biologica di Sutton ed Emma, Annie Hobbs, la donna confinata in un ospedale psichiatrico, è stata assunta Stacy Edwards. Ha dato il volto a Hayley Benson in Santa Barbara negli anni ’80. Ho pensato: ecco che Chuck Pratt jr., che ha sviluppato la serie per la ABC Family, si porta dietro qualcuno del suo passato (è stato fra gli sceneggiatori della soap).
Poi, nella puntata “Never have I ever” (1.08), a una convention Ted (Andy Buckley) incontra un collega che scambia sua moglie per Annie, e dice che si erano visti in passato, a Santa Barbara. L’ho trovato un bel tocco e un bel inside joke, ed è stato fatto in modo così indiretto da risultare davvero per intenditori.  
La foto sopra è tratta dall’episodio 1.07.

martedì 25 ottobre 2011

MA COME TI VESTI?! Per manichini, non persone


Forse sarei io stessa ad abbisognare dell’intervento di Enzo Miccio e Carla Gozzi, di Ma come ti vesti?! (Real Time, mercoledì, ore 21.10), eppure mai mi rivolgerei a loro perché, sebbene mi paiano competenti, trovo che facciano un cattivo lavoro, omogeneizzando e depersonalizzando quelli che si rivolgono alla loro professionalità, imponendo il proprio gusto su quello degli altri, invece di indirizzare le persone a scoprirne uno proprio. I casi senza speranza della moda vengono osservati nel loro look quotidiano, spesso decisamente terrificante. I due stylist affettano un anche divertente, e immagino in parte genuino, orrore per gli errori-orrori di vestiario che vedono. Fatto questo, attaccano capo per capo il guardaroba della persona che vogliono trasformare, dividendolo in tre cesti: uno nero con quello che si butta, che finisce per riempirsi parecchio; uno rosa, con ciò che si può tenere, spesso ben poco, ma che va reinventato; e uno oro con quello che può essere riciclato.
Poi propongono dei look alternativi e qui dimostrano che son bravi a essere spietati, son bravi nella pars destruens, ma molto meno in quella construens, dove danno sì buoni suggerimenti (ad esempio a una ragazza in una puntata che ho visto recentemente dicevano che aveva un bel corpo e che non doveva nasconderlo, ma imparare a valorizzarlo), ma poi non ascoltano e non costruiscono le proprie proposte sui gusti della persona, ma la etichettano come “senza gusto”. Quando una si è lamentata che i modelli che le proponevano non le piacevano Enzo ha rimarcato: “non abbiamo chiesto se ti piaceva!”. Urrà per l’interessata che ha avuto il coraggio di esprimere la propria opinione. La frase però è emblematica di quello che fanno, che è vestire manichini e non persone. Certo, ad affinare il gusto ci vuole competenza, che spesso le persone che si rivolgono a loro non hanno, ma ci vuole anche personalità. Non c’è niente di più triste invece del loro atteggiamento, che vuole dire spingere a non pensare e a bersi qualunque cosa acriticamente solo perché qualcun altro decide che è bello, vuole dire essere pecoroni e significa anche scarsità di fantasia da parte loro che sono incapaci di cogliere la prospettiva di qualcun altro. Penso dovrebbero potersi conciliare moda ed estetica al gusto personale. Qui non succede.
La trasmissione dà un budget di 1500 euro, da spendere. Non voglio dire che spendere quella cifra per soli tre look significhi essere aiutato nel buon gusto. Ovviamente è irrilevante, ma è anche vero che nella vita quotidiana molte persone non possono certo affidarsi a simili cifre per pochissimi capi e in parte conta anche quello. Nel loro atteggiarsi a fashion police dovrebbero tenere anche conto del portafoglio delle persone, per lo meno nei loro giudizi così trancianti, e del fatto che non tutti aspirano ad essere delle o dei fashionista. Le mise che alla fine mettono insieme potranno anche rivaleggiare con quelle di Vogue, forse, ma mi sembrano tanto piatte e stereotipate. Qui l’arbiter elegatiae dei programmi TV sono io, e a seguire il loro esempio, butto il programma nel cesto dei programmi da non rivedere.

venerdì 21 ottobre 2011

BOSS: una serie politica per Kelsey Grammer


È già stata confermata per una seconda stagione, ancor prima della partenza, la serie politica Boss, che debutta oggi sull’americana Starz. Protagonista è un fittizio sindaco della Chicago contemporanea, Tom Kane (Kelsey Grammer, Frasier), che siede come un ragno al centro della ragnatela di potere della sua città, per prendere a prestito le parole che il sito ufficiale usa per definirlo. Il suo credo, come spiega al giovane ambizioso ex-avvocato di umili origini Ben Zajac (Jeff Hephner, Hellcats), è che la gente voglia essere guidata, che voglia che ci sia qualcuno a dirimere le proprie dispute, a negoziare e punire i crimini al post suo, a distribuire posti di lavoro, a vedere premiata la propria lealtà e, in un tacito contratto, in cambio dà potere a chi si assume questo compito. Lui è potente e senza scrupoli, è il boss del titolo, e sa di esserlo.  Solo, nessuno ne è ancora a conoscenza, ma gli è stata diagnosticata una malattia neurodegenerativa che nel giro di qualche anno lo porterà all’atrofia delle regioni frontali e temporali del cervello, e a un lento, inesorabile, devastante disfacimento delle sue capacità mentali e fisiche e, alla fine, alla morte.
Tom ha un matrimonio di facciata con Meredith (Connie Nielsen), una donna formalmente impeccabile impegnata a migliorare il sistema scolastico cittadino davanti alle telecamere, ma a cui importa sopra ogni casa di come le cose appaiono. La figlia con possibili problemi di droga Emma (Hannah Ware) è rettore della First Episcopal Church, la chiesa episcopale per la quale dirige anche una clinica sanitaria per l’assistenza ai poveri, attività che la porta a conoscere Darius Morrison (Rotimi Akinosho), un giovane che vuole sfuggire dai confini della periferia malfamata dove abita. L’assistente personale di Kane, Kitty O’Neil (Kathleen Robertson, Beverly Hills, 90210), è una donna efficientissima; Ezra Stone (Martin Donovan) è il suo brillante consigliere anziano; McCall Cullen (Francis Guinam) è il volubile governatore dell’Illinois che apparentemente Kane appoggia per la rielezione, ma che è consapevole che è solo una finta. Un giornalista politico che lavora per The Sentinel, Sam Miller (Troy Garrity), vuole far luce sulla figura di Kane: bisogno di arrestare la corruzione e necessità di qualcuno con muscolatura morale, spina dorsale, integrità e operosità sono parole di cui il sindaco si riempie solo la bocca.
Ideata dall’autore iraniano Farhad Safinia, che ha scritto un pilot che porta la prima regia televisiva di Gus Van Sant (premio oscar per Good Will Hunting e Milk), dalla prima puntata la serie è apparsa solida. Ci sono stati momenti di scrittura davvero pregnanti (la conversazione privata di Meredith, o il fulminante scambio di battute fra Kane a la sua assistente mentre lui è steso al buio ad esempio, o ancora l’intimidazione della sua dottoressa in auto) e momenti di regia che hanno spiccato (l’uso ripetuto del primissimo piano, il montaggio a flash nella scena di sesso fra Kitty e Ben, l’elisione di alcuni edifici della città per rendere visiva la spiegazione di Kane a Ben), ma la sensazione di fondo che è rimasta è che questa sia particolarmente una serie in cui il pilot è solo la radice di qualcosa che si costruisce sul serio solo nell’arco degli otto episodi previsti. E per ora un difetto grande emerge: manca chiaroscuro – a fronte di una sotterranea, quando non esplicita brutalità e ipocrisia, non si scorge alcun idealismo, alcuna nota positiva.
È un incrocio fra The West Wing e I Soprano, con echi di Boardwalk Empire e Kings (un leader autocrate e facoltà mentali che cominciano a vacillare). Il cognome pesante che porta il personaggio, Kane, non può non richiamare alla mente Citizen Kane – Quarto Potere, e guardarlo mi ha senz’altro richiamato la lettura di Tutti gli uomini del re, di Robert Sean Warren (con le eventuali versioni cinematografiche). Mira anche a un certo realismo alla The Wire, come si può intuire sin dalla sigla d’apertura. C’è Machiavelli e una concezione shakespeariana della politica, osservava lo stesso Grammer.
Ho lasciato una considerazione su quest’ultimo alla fine, di proposito. Siamo così tanto abituati a identificarlo con ruoli comici che vederlo in un ruolo drammatico è un’autentica sorpresa. L’interpretazione è davvero riuscita, intensa, credibile, autorevole e in qualche maniera minacciosa. Ho trovato coraggioso da parte sua decidere di fare una simile svolta a questo punto della sua carriera. Notare questo come una cosa audace, e vederlo per la prima volta in un contesto che fa della violenza parte del suo contenuto, mi ha fatto ripensare anche al suo coraggioso atteggiamento personale. Anni fa, ha ammesso pubblicamente di essere stato la vittima di violenza domestica da parte della moglie (qui c’è una clip in cui ne parla). Il tema è da sempre delicato e spinoso, in più quando si parla di violenza domestica si pensa di solito sempre alle donne come alle possibili vittime. Per gli uomini è ancora di più un tabù, nonostante le cifre rivelino che sia un fenomeno più esteso di quanto non si creda. Ho ammirato molto a suo tempo Grammer per averne parlato. È l’unico uomo che “conosco” che lo abbia fatto. Penso ci sia voluta molta forza. È una nota tangenziale, che non ha veramente a fare con il programma, ma a cui ho ripensato e che mi sento per questo di condividere.

giovedì 20 ottobre 2011

BAILA: ha chiuso un talent "alla buona"


Ha chiuso anticipatamente rispetto al previsto il flop “Baila” (Canale5, lunedì, prima serata). Non potevano aspettarsi qualcosa di diverso. “La Rai ha diffidato RTI ed Endemol dal trasmettere il programma ‘Baila’, anche con titolo diverso o con simili caratteristiche e a dare attuazione al provvedimento del Giudice. La Rai riserva ogni altra iniziativa all’esito dei comportamenti di RTI ed Endemol” era stato il comunicato apparso sul sito della TV pubblica poco prima della messa in onda del nuovo talent-reality di Barbara D’Urso. Le ben note vicende avevano alimentato la curiosità: la Rai aveva accusato “Baila” di essere un plagio di “Ballando con le stelle” e il giudice aveva bloccato la messa in onda del programma, a meno di non fare alcune modifiche. Canale5 ha debuttato come previsto lunedì 26 settembre e ci si domanda perché lo abbia proprio fatto, invece di aspettare ed eventualmente posticipare la messa in onda e offrire un programma più curato.
La prima puntata è stata pasticciata - problemi di regia che apparentemente schiacciava tasti audio quando non doveva e infilava inquadrature che non si capiva che c’entrassero, la conduttrice che doveva essere richiamata per ricordarsi di aprire il televoto, la grafica che doveva apparire sotto un giudice, ma che non c’era… “ma che c’importa” ha commentato allegra la padrona di casa, dopo che il mantra della serata è stato in pratica “abbiamo messo in piedi un programma nuovo in due ore oggi pomeriggio, ce l’abbiamo fatta e che la sorte ce la mandi buona”. Si sono dovuti accontentare, la sorte l’ha mandata “alla buona”.
Il format, da quel che si è visto in questa incarnazione, era parecchio diverso dal rivale danzerino. C’erano cinque squadre, ciascuna composta da una coppia di nip, come vengono chiamati, persone comuni, che amano e sanno (almeno come non professionisti) ballare, e una di vip, noti per attività diverse dal ballo. Si esibivano e venivano giudicati in stili estratti a sorte: cha cha, rumba, valzer inglese, jive, salsa… Nella luminosa scenografia si scontravano per vincere e poter così realizzare un sogno – per qualcuno avere un cavallo tutto proprio, per qualcun altro andare a vivere a New York, per un altro ancora aiutare la figura paterna a costruire un’officina… Si poteva votarli (ottenendo crediti) anche via Facebook, cosa davvero nuova.
La cancellazione di questo genere di programmi mi lascia in realtà indifferente, ma vedo lo spreco e penso che se solo si fossero dati un po’ di cura e di tempo in più, forse lo avrebbero potuto evitare.

mercoledì 19 ottobre 2011

AMERICAN HORROR STORY: un thriller psicosessuale


Gli autori Ryan Murphy e Brad Falchuck (entrambi di Glee e Nip/Tuck) lo avevano definito, già in occasione del primo promo, come un thriller psicosessuale, e ora che American Horror Story ha debuttato (sull’americana FX dallo scorso 5 ottobre, in Italia su Fox da novembre) la definizione sembra appropriata.
Ben (Dylan McDermott, The Practice) e Vivien (Connie Britton, Friday Night Lights) Harmon per superare un periodo difficile - hanno perso il bambino che aspettavano e lei ha trovato lui a letto con una studente – hanno deciso di trasferirsi da Boston a Los Angeles, insieme alla figlia Violet (Taissa Farmiga), un’adolescente che si autoferisce procurandosi dei tagli alle braccia. Acquistano una casa, dove sono avvenuti degli omicidi e che è infestata da varie presenze e apparizioni.
Fanno presto conoscenza con la governante Moira, ma mentre tutti la vedono come una signora anziana (Frances Conroy, Six Feet Under), Ben la vede come una giovane affamata di sesso (Alex Breckenridge) che cerca di sedurlo. E ricevono le visite inaspettate della ragazza con la sindrome di down Adelaide (Jamie Brewer) - che dice a tutti che in quella casa moriranno, cosa effettivamente avvenuta a due gemelli molti anni prima, e non solo a loro – e della madre di lei, la loro sinistra vicina di casa Constance (Jessica Lange), che chiama la figlia “mongoloide” e dice che se avesse saputo come sarebbe uscita avrebbe abortito – è in poche parole una versione drammatico-horror di Sue Sylverster di Glee, molto insultante e molto poco politically correct. Ben viene seguito da Larry (Danis O’Hare, True Blood), un uomo sfigurato da un incendio (ma potremmo scherzosamente dire dalla serie precedente, dove era un vampiro lasciato ustionare al sole) e il solo sopravvissuto a quella casa. Vivien, che non fa sesso con il marito da praticamente un anno, ha un incontro sessuale con un uomo in una tuta di lattice, che lei crede il marito (lo è o no?). La giovane Violet a scuola è oggetto di un feroce bullismo (un tema molto caro a Murphy e Falchuck) e fa amicizia con uno dei pazienti del padre, che è uno psicologo, il coetaneo Tate (Evan Peters) che ha molte fantasie omicide. 
American Horror Story: prendo una parola alla volta.
American. Troy Patterson su Slate scrive: “Per ora, American Horror Story non è la grande storia d’orrore americana ma piuttosto una nottata di spavento veramente buona. Il titolo porta più peso di quanto il suo contenuto possa reggere. Mi fa ricordare la recensione di Joyce Carol Oates di American Wife di Curtis Sittenfeld: ‘C’è un’esperienza distintamente americana? L’Americano, di Henry James; Una Tragedia Americana, di Theodore Dreiser; Un Americano Tranquillo, di Graham Greene; Il brutto americano, di William Lederer e Eugene Burdick; Pastorale Americana, di Philip Roth; e American Psycho di Bret Easton Ellis – ciascuno suggerisce, nel suo stesso titolo, una dimensione mitica in cui personaggi fittizi intendono rappresentare tipi o predilezioni… ‘Americano’ è una identità carica di ambiguità, e di quelle parabole allegoriche di Hawthorne in cui ‘bene’ e ‘male’ sono misteriosamente congiunte.’ Non preoccupatevi troppo di tutto questo. Questo cibo spazzatura gourmet vi dà puro male (…)”.

Horror. Non c’è stato alcunché che mi abbia provocato la più minima paura e la serie è più adeguatamente descritta come un thriller che non una vicenda dell’orrore. Mira a disturbare, ad inquietare, con la sigla (sotto) che ben trasmette il senso generale del programma. L’uso di immagini a flash e soprattutto un sapiente utilizzo del montaggio, che togliendo alcuni fotogrammi stacca di continuo scene che diversamente sarebbero lineari, sono quello che stilisticamente colpisce di più. Come riferimenti sono stati citati Psycho, Rosemary’s Baby, The Others, al cinema, e in tv mi ha fatto ripensare soprattutto a Twin Peaks, e alla soap gotica cult degli anni ’60 Dark Shadows – la prima immagine, della casa vittoriana che è il fulcro delle vicende, tanto protagonista quanto le persone in carne ed ossa, mi ha immediatamente richiamato alla memoria Collinwood. C’è anche una buona dose di kink, come c’è da aspettarsi coerentemente alla premessa, e non ricordo di averne mai visto in partenza di così esplicito, in TV. In qualche modo la memoria mi ha anche richiamato, in proposito, la puntata “Baba Yaga” della serie nostrana Valentina, ma dato che l’ho vista una sola volta nell’anno della messa in onda (il 1988) ed il ricordo è quello che è, non so quanto dar credito a questo parallelismo. Da subito in ogni caso risulta chiaro che il vero orrore non è tanto quello sovrannaturale, ma quello della vita quotidiana, dei demoni personali e relazionali, del mondo, un luogo che l’originale definisce filthy, lurido, sporco, perverso, turpe, schifoso. La vita è il vero orrore.  
Story. Il sopracitato critico di Slate ha osservato, in modo che ho trovato simpatico e azzeccato, che se questo telefilm fosse un libro sarebbe un incrocio fra un volume che raccoglie critiche cinematografiche, vista la pletora di horror da cui “ruba”, e il DSM-IV. Forte è anche la valenza meta testuale. Che cosa ci fa paura? Le storie sono modi in cui controlliamo la paura, dice Ben al suo paziente. È perciò una storia intesa come modo di mostrare, affrontare e controllare la paura? La TV non ha avuto molte serie vagamente definibili come horror – e finché sono come Harper’s Island, si capisce anche il perché. American Horror Story è un originale. Il pilot è stato convincente. Già la seconda puntata, ispirata a veri omicidi, ha avuto un calo e sono stati più i momenti che a me hanno procurato ilarità che non terrore. Murphy e Falchuck non sono noti per la sottigliezza, amano il gridato, le tinte forti. Credo che American Horror Story sia un programma da non perdere, uno di quelli a cui in futuro si farà spesso riferimento. Quanto buono sia però, lo dirà solo il tempo.

martedì 18 ottobre 2011

LE 50 PERSONE PIÙ POTENTI DELLA TELEVISIONE (2011)



The Hollywood Reporter, per la quarta volta, ha stilato la lista di quelli che ritiene siano i 50 showrunner più potenti e di valore della televisione contemporanea (americana), leader creativi che aiutano a scrivere, produrre e ridefinire la televisione. Il metodo usato per sceglierli ha tenuto conto della loro diretta responsabilità nel constante output creativo, di quanto sono prolifici, degli ascolti, della critica e degli Emmy, della loro professionalità e reputazione. Per ciascuno ha steso anche un profilo, e per quello vi rimando al sito che li divide in autori drammatici e autori comici. Qui riporto l’elenco dei nomi con l’indicazione dei programmi a cui fanno riferimento in questo momento specifico della loro carriera.

Drama:
Alan Ball (True Blood); Carol Mendelsohn (CSI), Ann Donahue (CSI:Miami) e Pam Veasey (CSI: NY); Steven S. DeKnight (Spartacus); Vince Gilligan (Breaking Bad); Brenda Hampton (La vita segreta di una teenager americana); Hart Hanson (Bones, The Finder); Bruno Heller (The Mentalist); Neil Jordan (I Borgia); Jason Katims (Parenthood); Michelle King and Robert King (The Good Wife); Peter Lenkov (Hawaii 5-0); Ryan Murphy e Brad Falchuck (Glee, American Horror Story); Shane Brennan (NCIS: LA) e Gary Glasberg (NCIS); Matt Nix (Burn Notice); Jeff Pinkner e J.H. Wyman (Fringe); Shonda Rhimes (Grey’s Anatomy, The Practice, Revenge); Michael Rauch e Andrew Lenchewski (Royal Pains); Josh Schwartz e Stephanie Savage (Gossip Girl, Chuck, Hart of Dixie); Craig Silverstein (Nikita); David Simon (Treme); Veena Sud (The Killing); Kurt Sutter (Sons of Anarchy); Janet Tamaro (Rizzoli & Isles); Matthew Weiner (Mad Men); D.B. Weiss e David Benioff (Game of Thrones); John Wells (Shameless); Kevin Williamson e Julie Plec (The Vampire Diaries); Terence Winter (Boardwalk Empire); Graham Yost (Justified).

Comedy:

Salim e Mara Brock Akil (The Game); Carter Bays e Craig Thomas (E alla fine arriva mamma); Jenny Bicks (The Big C); Liz Brixius e Linda Wallem (Nurse Jackie); Louis C.K. (Louie); Tina Fey e Robert Carlock (30 Rock); Greg Garcia (Raising Hope); Dan Harmon (Community); Al Jean (I Simpson); Bill Lawrence (Cougar Town); Steven Levitan e Christopher Lloyd (Modern Family); Paul Lieberstein (The Office); il “Team Lorre”: Chuck Lorre e Lee Aronsohn (Due uomini e mezzo), Bill Prady (The Big Bang Theory), Mark Roberts (Mike & Molly); Seth MacFarlane (Family Guy); Suzanne Martin (Hot in Cleveland); Rob McElhenney, Glenn Howerton e Charlie Day (It’s Always Sunny in Philadelphia); Trey Parker e Matt Stone (South Park); Tyler Perry (House of Payne); Mike Schur (Parks and Recreation); David Zuckerman (Wilfred).
Per una riflessione sul termine showrunner, e su quando e come si è cominciato ad usarlo, si legga qui.

lunedì 17 ottobre 2011

PAN AM: hostess in volo negli anni '60


Sono belle, aggraziate, colte, plurilingue, e single. Sono le hostess della Pan Am, la compagnia aerea del telefilm dal titolo omonimo (sull’americana ABC dallo scorso 25 settembre), anno 1963: vengono scelte secondo rigidi criteri, pesate una volta arrivate al lavoro, attente che cappello e giarrettiera siano come si deve, e non devono sposarsi, altrimenti addio lavoro.
Sono Maggie (Christina Ricci), che è il commissario di bordo, ed è una donna che vuole poter vedere il mondo per poterlo cambiare; Colette (Karine Vanasse), una ragazza francese che scopre nel pilot di aver avuto, inconsapevolmente, una relazione con un uomo sposato; Kate (Kelli Garner) che, in un’epoca di guerra fredda, lavora anche come spia per la CIA, complice la possibilità di spostarsi agevolmente da un luogo all’altro, e che sostituisce un’altra hostess che aveva il suo stesso ruolo, Bridget (Annabelle Wallis); e Laura (Margot Robbie), la sorella di Kate, che il giorno delle nozze, scappa con ancora su l’abito bianco per seguire la sorella e lasciarsi alle spalle, idealmente per tutte, la vita della generazione precedente alla sua, per cui il matrimonio era la sola opzione possibile. Sono un po’ delle pioniere, accanto al giovane pilota di Boeing 707, Dean (Jonah Lotan), da poco promosso capitano e nel pilot – parola più che mai appropriata - al suo primo volo internazionale, e al suo primo ufficiale Ted (Michael Mosley).
La serie, ideata da Jack Orman (ER), così come The Playboy Club questa stagione, ha inteso capitalizzare sul successo di Mad Men e guardare al passato, in un momento di storici cambiamenti. Per l’accuratezza in questo senso si conta anche su una delle produttrici esecutive, Nancy Hult Ganis, che ha svolto quel lavoro alla fine degli anni ’60. Lo si fa in questo caso con senso di nostalgia, con entusiasmo, con un certo senso epico anche. Dopotutto si dice che chi vola Pan Am non si sposta solo, va da qualche parte. Le storie sono gradevoli, ma condivido l’osservazione di Slate che c’è una sorta di “gioia aggressiva” nelle vicende, costruite anche attraverso dei flashback che raccontano il recente passato delle protagoniste.  
Nella prima puntata Laura viene ammirata da tutti perché il suo volto è apparso sulla copertina della rivista “Life”, a rappresentare la compagnia aerea. Una delle colleghe osserva che quella è solo l’apparenza, la fantasia di quello che loro sono e fanno (il glamour, il jet-set, la vita indipendente e “liberata”). Quell’immagine è quello che rappresentano più che non la realtà. Lo stesso si può dire della serie, che alla fine sembra “ritoccata”, un’illusione,  uno spot. La regia di Thomas Schlamme (The West Wing) nel pilot enfatizza questa sensazione. Prima vediamo le quattro hostess camminare come una squadra, una accanto all’altra. Poi, impeccabili nella loro uniformi blu, entrano in aereo in fila indiana, in modo quasi marziale, determinato e professionale. L’ultima si gira e fa un occhiolino: lo fa a una bimba che le guarda incantata. Lo fa alle generazioni future che anche grazie a loro possono sognare una vita diversa. Sembra una pubblicità.  

venerdì 14 ottobre 2011

HOMELAND: la paura del terrorismo, il sospetto


 
Uno dei migliori appuntamenti della stagione – su Metacritic ha ricevuto un punteggio di 91 -  è sicuramente quello del nuovo telefilm dedicato al tema del terrorismo, Homeland (sull’americana Showtime dallo scorso 2 ottobre), un incrocio, come sensibilità, fra 24 e Rubicon, ma che evita gli eccessi da supereroi del primo e la esasperante immobilità del secondo. Sviluppato per la televisione americana da Alex Gansa e Howard Gordon (24) sulla base di una serie israeliana chiamata Hatufim e conosciuta anche come Prisoners of War (ovvero Prigionieri di Guerra, noti anche come POW), ideata da Gideon Raff, ha il pilot scritto dai tre ed è facilmente riassumibile con la tagline del poster del programma: “La nazione vede un eroe. Lei vede una minaccia”.   
Un marine disperso in azione, il sergente Nicholas Brody (Damian Lewis, Life) viene ritrovato dopo otto anni dalla sua cattura in Iraq e torna negli Stati Uniti come un eroe. Una analista della CIA però, Carrie Mathison (Claire Danes, al suo primo ruolo televisivo dopo quello che l’ha ressa famosa, nell’inedito da noi My So-Called Life), alcuni mesi prima ha ricevuto una soffiata in Iraq che le diceva che un militare americano in realtà era un terrorista convertito, e lei è convinta che quel terrorista sia il sergente Brody e vuole dimostrare la sua connessione con il leader di Al Qaeda, Abu Nazir. Nonostante qualche titubanza da parte dei suoi superiori, fra cui il suo mentore Saul Berenson (Mandy Patinkin, Chicago Hope, Criminal Minds), Carrie decide perciò di investigare e sorvegliarlo, mentre l’ex POW cerca di riprendere la sua vita con la moglie Jessica (Morena Baccarin, V) e i figli. 
Se la risposta telefilmica a ridosso degli eventi dell’11 settembre è stata Jack Bauer (24), viscerale e machista, a dieci anni di distanza, la reazione alla pressione di una minaccia alla propria sicurezza è Carrie Mathison, è psicologica, consapevole degli errori del passato, tinta di ansia e di sospetto, e nell’altra parte della medaglia è Nicholas Brody, il corpo e lo spirito segnati dalle torture di anni, dalla paura e dalla fatica. L’immagine della nazione non è quella del  terrore dello shock, è quella della forza logorante del terrore prolungato, vissuto e atteso.
Homeland, grazie anche ad una recitazione di prim’ordine da parte di tutti i coinvolti, riesce a intrigare e a tenere in sospeso. Vediamo l’urgenza di una donna che, sul fronte personale deve combattere i suoi demoni (le è stato diagnosticato un disordine bipolare e prende pastiglie di clozapina) – sineddoche dello stato della società –, e sul fronte professionale non può permettersi di lasciarsi sfuggire indizi che vogliono dire la differenza fra la vita e la morte, ma non deve permettere alla paranoia di avere il sopravvento. Vediamo la quieta distruzione di un uomo che, da un punto di vista personale deve imparare la vita da capo, mostrando le cicatrici nascoste (emblematiche a questo proposito le scene d’amore con la moglie nel pilot, o il suo rincantucciarsi in un angolo in 1.02), e da un punto di vista pubblico deve mascherare la propria fragilità e far fronte al sospetto.
Questo è il grande tema del programma, mi pare, all’esordio, quello del sospetto. Noi non sappiamo se Carrie abbia ragione o meno. Non sappiamo se Nicholas è il grande eroe che tutti vedono o no. Sappiamo che mente. E questo è l’elemento che ci instaura il dubbio e ci mette sullo stesso piano di Carrie. Non sappiamo la verità: dubbio, sospetto.  Efficace, anche, narrativamente e per regia, il modo in cui è costruita la sua scoperta di Allah come, quasi letteralmente, il momento in cui Brody “ha visto la luce” (1.02).
Alex Gansa, su Entertainment Weekly (#1171/1172; Sept. 9/16, 2011, p.21) ha dichiarato che quando hanno sviluppato la serie sono partiti da un quesito centrale: gli americani devono ancora temere oggi le stesse cose che temevano nei momenti subito successivi all’11 settembre? E che da lì sono nati altri quesiti: che cosa significa essere un patriota? In che modo l’America rende onore ai veterani? È giusto rinunciare ai propri diritti costituzionali in cambio delle sicurezza? Perché siamo andati in guerra e perché stiamo ancora combattendo? Numerose attualissime tematiche si intrecciano, e alcune di queste risuonano anche nella realtà italiana (le intercettazioni e il rapporto escort-politica, ad esempio).
Quello che è certo è che Homeland si prospetta una grande serie, avvincente da un punto di vista superficiale di affabulazione e suspense, e occasione di riflessione a un livello più profondo sulle paure, reali e no, fondate e no, della vita contemporanea e su come le affrontiamo.           

giovedì 13 ottobre 2011

SWITCHED AT BIRTH e la Lingua dei Segni


La prima stagione di Switched at Birth è terminata agli inizi di agosto (1.10) con l’arrivo del padre biologico di Bay (Gilles Marini, il Luc di Brothers and Sisters), cosa che assicurerà ampio foraggio per una seconda stagione. Nel primo ciclo intanto oltre a qualche colpo di scena (quello che Regina sapeva) e a un po’ di romanticherie (Bay-Emmet) si è continuato in quello che già avevo notato a debutto di serie, ovvero ad affrontare efficacemente, senza prediche e senza tono da pubblicità progresso, alcune delle tematiche legate alla cultura sorda (in chiusura ad esempio si è accennato alla opportunità o meno per Emmett, sordo, di seguire dei corsi di terapia logopedistica). Quello che ancora in partenza ragionevolmente non c’era, e che ho apprezzato nella continuazione, è il modo in cui si sta sviluppando il discorso linguistico.
Ritengo opportuno fare una premessa per chi non avesse dimestichezza con le lingue dei segni, prima di tornare a paralare della serie. L’ASL, l’American Sign Language, la Lingua Americana dei Segni è una lingua a tutti gli effetti, con un suo vocabolario, ma anche con una sua grammatica e una sua sintassi, che si costruiscono sullo spazio, in modo quindi molto differente dal lineare susseguirsi delle parole così come siamo abituati a concepirle nelle lingue verbali. Esiste anche il Signed English, l’Inglese Segnato, che utilizza gli stessi vocaboli dell’ASL, ma che non è una lingua perché si appoggia poi di fatto sulla grammatica e sulla sintassi della lingua parlata di cui riproduce in segni ogni singola parola. Sebbene si chiami Signed English non bisogna confonderlo con la lingua dei segni britannica, ma si tratta sempre di americano. Se da un punto di vista vocale infatti l’americano ha le sue radici nell’inglese d’Inghilterra, da un punto di vista di segni l’americano è legato alla Francia. Storicamente, gli inglesi insulari non hanno voluto condividere il proprio modo di esprimersi con le colonie e sono stati i monaci francesi ad esportare la loro lingua dei segni nel nuovo continente. Chi avesse piacere di approfondire questi argomenti non ha che da prendere una copia di “Vedere Voci” di Oliver Sacks, ed eventualmente farsi guidare dall’ottima bibliografia, o nel caso leggere l’eccellente “Deaf in America – Voices from a Culture” di Padden e Humphries.
Tornando alla serie, nella seconda parte della prima stagione ci sono state numerose conversazioni, anche estese, fra sordi in cui si è rinunciato in maniera completa e totale ad accompagnarle ad alcuna espressione verbale, ma si è fatto ricorso esclusivo ai sottotitoli. E questo è stato fantastico, perché  è così stato possibile far parlare i personaggi in autentica ASL, in tutta la sua plasticità, ricchezza e iconicità. C’è una capacità di sintesi con i segni che difficilmente si raggiunge con la parola orale. Chi si è mai provato a tradurre dai segni al vocale sa quanto sia frustrante talvolta dover fare lunghe perifrasi per esprimere concetti che in Lingua dei Segni sono così immediate e potenti. Chi poi avesse dimestichezza anche con la Lingua Italiana dei Segni avrà notato anche come, rispetto alla LIS, l’ASL si affida di più al fingerspelling, alla compitazione delle lettere con la mano cioè, e usa di meno le labbra e i movimenti del volto rispetto a noi. In ogni caso quello che Switched at Birth ha fatto è mostrare l’ASL in sé e per sé, in modo che, anche se si è già visto, è sufficientemente abbastanza raro.
Nelle interazioni fra sordi e udenti, ci si è affidati al doppio binario parlato-segni, e qui necessariamente non si è utilizzato un ALS “puro”, ma ci si è affidati anche in buona parte alla struttura linguistica dell’americano parlato, o oscillando fra ASL e Signed English, cosa che è la via più comune quando si vedono i segni in TV (penso a programmi come The L Word o Reasonable Doubts, o a tutte le numerose serie in cui è apparsa Marlee Matlin). Si rimane comunque almeno idealmente nel territorio dell’ASL, evitando i pedanti ipercorrettismi del Signed English.
Una delle prime storie che ricordo legate alla Lingua dei Segni è quella di Days of Our Lives - Il tempo della nostra vita, andata in onda nel 1988 negli USA (sulla NBC, all’epoca attenta alla questione che ha trovato spazio anche in Santa Barbara) e agli inizi degli anni ’90 in Italia (su Italia7). Lì, l’infermiera Kayla veniva aggredita e perdeva l’udito, non per ragioni fisiche, ma psicologiche. A poco a poco aveva imparato a vivere la sua nuova condizione di sorda, fra paura e scoperte di un nuovo mondo e una nuova cultura. I tempi quotidiani della soap opera hanno consentito un sufficiente realismo nell’apprendimento che è durato mesi e ha coinvolto il suo ragazzo Steve-Patch e sua sorella Kim (che conosceva già la lingua), prevalentemente, oltre a qualche personaggio minore (Peggy, Benji). Nonostante il messaggio di fondo fosse chiaro – esprimersi in lingua dei segni è magnifico ed è un modo vitale per farlo e di altrettanto valore che farlo attraverso una lingua parlata – e nonostante io la consideri tutt’ora ancora una storia molto ben sviluppata (e non dimentichiamo che nell’88 c’è stato un lungo sciopero degli sceneggiatori che in alcuni casi si è sentito pesantemente nella programmazione del daytime), non c’è dubbio che fosse una storia di udenti per udenti. Lì quello che veniva usato era il Signed English, puntuale e dettagliatissimo fino a ogni preposizione e articolo. Per certi versi il Signed English uccide la lingua dei segni pura.
Non è quello che si sta facendo in Switched at Birth, dove si è optato per segni che evitano una eccessiva aderenza al Signed English, ma che spingono con decisione verso l’ASL. Il solo altro programma che mi venga in mente in cui sia stato fatto in modo continuato è Sentieri dove Rick Bauer alla fine degli anni ’90 ha imparato a segnare avendo sposato una ragazza Amish sorda, Abigal Blume. Le storie di apprendimento da parte di udenti di lingue dei segni si contano sulle dita di una mano. Switched at Birth sta davvero facendo le cose per bene.  Sul sito, attraverso i personaggi della serie si possono anche imparare le lettere dell’alfabeto, che ricordo, salvo un paio di lettere (la “s” e la “t”), sono le stesse che usiamo in Italia nella LIS.

mercoledì 12 ottobre 2011

AVANTI UN ALTRO: un quiz che funziona


Avanti un altro, il nuovo quiz del preserale di Canale5 che ha debuttato lo scorso 5 settembre, funziona. La prima ragione è che è stato costruito in modo solido. Santucci e Bonolis, che oltre che conduttore è co-autore, sono riusciti in un impresa che sembra facile ma non lo è: hanno confezionato un quiz semplice, diretto, non troppo estraneo al già visto da disorientare e così alienare il pubblico, ma non troppo uguale al già visto da sembrare l’ennesima fotocopia.

Un concorrente si cimenta in una batteria di quattro domande a risposta binaria (o è una o è l’altra fra due opzioni insomma) e deve rispondere correttamente almeno a tre. Se non riesce, viene eliminato e avanti un altro. Se riesce, può pescare da un’urna una provetta che indica la somma che potenzialmente può vincere. Può continuare con un’altra batteria di domande per inalzare il montepremi, o può decidere di fermarsi lì e viene così accompagnato al trono del potenziale campione, e in quel caso pure avanti un altro. Verrà scalzato dalla sua posizione solo se il concorrente successivo riesce nella pescata a raggiungere una somma più alta della sua.

Chi è seduto sul trono per quando la puntata si avvia a conclusione ha la possibilità di portare effettivamente a casa la somma che ha pescato (più altri 100.000 euro messi dal programma) se riesce a rispondere in 150 secondi a 21 domande. La difficoltà del gioco (che imbroglia facilmente), e il punto di forza e originalità dello show, è che la risposta da dare è quella sbagliata. Ad esempio, la domanda può essere “Qual è il gatto? Tom o Jerry?” La risposta da dare (sbagliata) è Jerry. Rivolte a raffica fanno lo sgambetto al giocatore che se sbaglia deve ricominciare da capo tutte e 21 le risposte, e vince la somma che gli rimane alla fine. Ci sono altre regole minori di quante non ne riveli la mia descrizione, ma la formula è più facile a vedersi che a spiegarsi.

Tutto poi prende quota con la solita vitale presentazione di Bonolis, che soffre e lotta, si scalmana e suda, compartecipa ed è presente “anima e core”, tanto che, finché non esagera,  gli perdoni una certa ilare condiscendenza verso “popolino e casi umani”, che è un po’ una sua nota distintiva, e il fatto di essersi portato dietro Laurenti, un suo portafortuna si direbbe, ma superfluo qui.

martedì 11 ottobre 2011

NEW GIRL: "adorkabile"


L’unica cosa che probabilmente non mi è piaciuta del pilot di New Girl (dal 20 settembre sull’americana Fox) è il look della protagonista, Jess Day (Zooey Deschanel) che con quell’acconciatura e occhialoni sembra Katy Perry nella versione parodistica di se stessa in Last Friday Night (TGIF) meno l’apparecchio per i denti. Il suo personaggio potrebbe essere sognante e genuino senza per questo sembrare una dork, però mi rendo conto che quello è il punto, Jess intende essere una dork oltre ad essere totalmente e assolutamente adorabile. Per lei infatti hanno coniato un nuovo aggettivo: adorkable, adorkabile.
Come ha scritto Mary McNamara sul Los Angeles Times: “l’essenziale sexitudine della Deschanel è impossibile da sradicare, ma la usa in tutti i suoi elementi - gli occhi, quella voce, quelle curve – per un fine effetto comico, facendo la dork alla maniera in cui  Judy Holliday, Carole Lombard  o anche Lucille Ball facevano le tonte”. E, come ha rincarato Robert Bianco su USA Today, “lei e l’ideatrice dello show Liz Meriwether hanno dato forma con Jess a qualcosa che non avevamo del tutto visto prima – una donna che è dolce eppure crassa, innocente eppure sexy, bellissima eppure goffa, e sfacciata eppure irresistibilmente adorabile”.
Jess scopre che il suo ragazzo ha un’altra, lo pianta e cerca un nuovo posto in cui andare a vivere. Trovato un annuncio fa un colloquio per dividere un appartamento in cui abitano già tre ragazzi, Nik (Jake M. Johnson),  Schmidt (Max Greenfield, Veronica Mars, Ugly Betty) e Coach (Damon Wayans jr), che dalla seconda puntata viene sostituito da Winston (Lamorne Morris). Nonostante qualche titubanza iniziale perché si tratta di una persona dell’altro sesso, i tre la accettano, anche incentivati dal fatto che Jess dice di avere numerose amiche modelle. Comincia così non solo una coabitazione, ma quella che si rivela subito come un’autentica amicizia.
Un po’ come accade con la ben diversa Modern Family il  punto di forza sembra essere quello di saper dosare bene umorismo e tenerezza – se nel pilot si ride di gusto a vederla frignare all’ennesimo riguardarsi Dirty Dancing, o a vedere Coach che cerca di capire come comunicare meglio con le donne, a fine puntata ci si commuove dei tre ragazzi che vengono in suo soccorso, o di nuovo in 1.02 quando la aiutano a tener testa alla sua “Criptonite”, ovvero il suo ex Spencer (Ian Walterstorff) o in 1.03 quando ballano tutti insieme un molto originale ballo del qua qua ad un matrimonio.
E la sit-com non ha timore di mischiare situazioni un po’ sceme con altre più sottili. Il dialogo peraltro è fraseggiato in modo tale da sembrare fresco e vero. Nel pilot, ad esempio, Schmidt, con l’intenzione di fare il buon padrone di casa e far colpo sulla migliore amica di Jess, Cece (Hannah Simone), le offre del tè, per finire in modo imbarazzante, inappropriato quanto divertente, a parlare di bustine di tè (chi non avesse idea del doppio senso sessuale delle bustine di tè legga qui alla voce tea bag). La scena è stata costruita in modo tale per cui il contorcersi verbale del personaggio è risultato assolutamente autentico.  
New Girl, che nel farci divertire intende esplorare i rapporti uomo-donna nel mondo contemporaneo, è stato il primo telefilm di quest’annata  a ricevere l’ordine per una stagione completa. Sotto, la sigla a partire dalla seconda puntata.