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mercoledì 6 giugno 2018

POSE: trans, ballroom culture, famiglia


Il debutto di Pose (sulla rete americana FX) ha convinto molto di più di quanto non ci si aspettasse perché, confezionato in una narrazione molto tradizionale, apre a un mondo totalmente sconosciuto ai più. Il senso di anticipazione per la nuova serie firmata da Ryan Murphy, che l’ha ideata insieme a Brad Falchuck e Steven Canals, già era alta: fa la storia della televisione per avere il più grande numero di attori trans come protagonisti e il più ampio cast di interpreti LGBTQ di qualunque serie di narrativa. L’Huffington Post riporta anche (qui) che tutti i proventi andranno in beneficienza a sfondo “arcobaleno” e in particolare focalizzata su gruppi transgender. 

Siamo a New York alla fine degli anni ’80 e si guarda alla “ball culture” e alla sua comunità, e al “house system” che, come spiega wikipedia e come illustra già il pilot della serie in modo molto efficace senza essere didascalico, indica una subcultura underground LGBT negli Stati Uniti, in cui le persone “sfilano” (“walk” in inglese), ovvero competono, in alcuni eventi chiamati “balls” (balli) davanti a una giuria e a un pubblico per vincere dei trofei. Alcuni si sfidano proprio nel ballo, nella house dance chiamata “voguing” (resa popolare da Vogue di Madonna e dal documentario Paris is Burning), altri nel travestimento drag, ma ricevono voti anche per i costumi, l’aspetto e l’atteggiamento. Quelli che si sfidano appartengono a “houses” (case) che sono una specie di famiglie alternative formate prevalentemente da giovani omosessuali neri e ispanici che trovano accoglienza. Queste case sono guidate da “madri” o “padri” che seguono e aiutano i “figli” della casa. Chi fra le case guadagna più trofei e riconoscimenti diventa “leggendario”.   

L’incipit della serie vede proprio i membri della House of Abundance che rubano da un museo degli abiti regali per vincere a basi basse nella gara (ve ne sono diverse) che richiede loro di vestirsi da reali –  “La categoria è…” annuncia il presentatore Pray Tell (Billy Porter) per ognuna. Questo è il biglietto da visita dello sfolgorante, scintillante mondo che stiamo per imparare a conoscere. Presto capiamo che è un costume variopinto sotto cui batte il cuore di un family drama di inclusione e accettazione. Subito dopo, con una situazione che è fin uno stereotipo per quanto tragicamente comune era - e magari è, anche se mi illudo sempre meno -, ci viene presentato Damon (Ryan Jamaal Swain): ha diciassette anni e adora ballare; quando confessa al padre, che si vergogna di lui, che è gay, questi lo sbatte fuori di casa dicendogli “per me sei morto”, e la madre rincara la dose ammonendolo sul fatto che Dio lo punirà dandogli “quella malattia”, e che si tratti dell’HIV/AIDS pre-possibilità-di-cure non è nemmeno necessario dirlo. Ad avere la certezza di essere sieropositiva è la transessuale Blanca (MJ Rodriguez) che decide di lasciare la House of Abundance guidata dalla “madre” Elektra (Dominique Jackson) per fondare, nel tempo che le rimane, una casa sua, la House of Evangelista (in onore della modella Linda Evangelista). Blanca invita Damon, che di tutta questa cultura è digiuno, a entrare a far parte della sua casa. E a lei si unisce anche Angel (Indya Moore), che inizia una storia con Stan Bowes (Evan Petters). Nell’era reaganina che permette l’ascesa dell’impero Trump e di una vita di lusso ed eccesso, Stan lavora per il magnate, assunto da Matt (James Van De Beek, Dawson’s Creek) e la sera torna a casa dalla moglie Patty (Kate Mara, House of Cards) e dai figli, ma non riesce ad arginare l’attrazione per Angel, che sa bene non essere socialmente accettabile.  

La recitazione è impeccabile e Pose intelligentemente, forse perché sa quanto inusuali sono questo genere di soggetto e di casting, usa di proposito una narrazione e uno stile molto tradizionale e “confortante”: si mostrano persone che, come tutti (generalizzo, ma passatemela), vogliono essere accettate per se stesse, per la verità di quello che sono intimamente, amate e circondate da una famiglia che tiene a loro - Angel sogna il principe azzurro, Blanca pretende che i suoi “figli” tengano all’istruzione perché è il solo modo di andare avanti nella vita e definisce e si comporta da madre spingendo perché Damon entri in una scuola di danza… 

La società potrà emarginare certi gruppi, ma rimangono persone la cui umanità qui viene celebrata. Murphy e i suoi adottano l’approccio più sconcertantemente “già visto” a cui siamo abituati – con espliciti riferimenti a classici degli anni ’80 come Flashdance o Saranno Famosi, e abbondanti tracce musicali di quegli anni – quasi proprio a far capire a quelli di noi che non fanno parte di quella realtà che nonostante l’apparenza non sono poi così distanti da quello che conosciamo, e a mostrare a chi invece ne fa parte che vengono visti e riconosciuti e apprezzati. Una scelta che mi ha sorpreso perché è sensata, elegante, intelligente e coinvolgente. In effetti questi personaggi, anche solo dal pilot, sanno già di famiglia.     

domenica 14 gennaio 2018

9-1-1: un procedurale solido, ma perdibile


“9-1-1, qual è la sua emergenza?”: la frase di risposta del 113 americano punteggia, ricorrente, la nuova serie di Ryan Murphy, Brad Flachuck  (entrambi di Glee e American Horror Story) e Tim Minear (Angel, American Horror Story), intitolata 9-1-1 appunto (sull’americana Fox), e raggruma intorno a queste chiamate i casi professionali intrecciati alle vicende personali dei first responders di Los Angeles, ovvero di pompieri, paramedici, poliziotti, e in generale di tutti coloro che lavorano nel primo soccorso raccogliendo per primi le richieste di aiuto più disparate. Viene in mente ER, viene in mente Third Watch.

Abby Clark (Connie Britton, Friday Night Lights, Nashville) è la centralinista del 911 che ha a casa la madre con l’Alzheimer avanzato; Bobby Nash (Peter Krause, Six Feet Under, Parenthood) è pompiere cattolico che ogni settimana confessa di aver avuto problemi di dipendenza con l’alcool per ricordarsi di non ricaderci; Athena Grant (Angela Bassett, American Horror Story) è la poliziotta in crisi con il marito Michael (Rockmond Dunbar, The Path) che le ha da poco confessato di esser gay; Evan “Buck” Buckley (Oliver Stark) è il giovane testa calda troppo irruento e irrispettoso dell’autorità; Howie “Chimney” Han (Kenneth Choi) e Genrietta “Hen Wilson” (Aisha Hinds) sono i pompieri/paramedici di cui dobbiamo ancora conoscere meglio le storie.

Si debutta con casi memorabili: un bebè intrappolato in una tubatura perché partorito e buttato nello scarico del water, e a seguire una ragazza quasi soffocata da un serpente e una bimba intrappolata in una casa dopo che sono entrati dei ladri.

La recitazione, come si comprende dal cast, è di primo’ordine e il ritmo è serrato, la narrazione chiara, decisa, dai contorni netti e le tinte forti. Non ci sono molte sottigliezze e c’è un tono da “eroi senza macchia e senza paura”, ma umani e vulnerabili, con un pizzico di potenziale predicozzo di vernice.  È un procedurale convenzionale con soluzioni veloci per in casi, solido, ma niente di cui entusiasmarsi.  

lunedì 28 settembre 2015

SCREAM QUEENS: morti e cattiverie gratuite


Delude fortemente la nuova serie antologica comico-horror-trash in 13 puntate firmata da Ryan Murphy (American Horror Story, Glee), Brad Falchuk  e Ian Brennan, Scream Queens. Ci troviamo nella fittizia Wallace Univesity dove l’associazione femminile più ambita di cui far parte è la Kappa Kappa Tau. Nel 1995 una ragazza che ne faceva parte era stata trovata morta in una vasca da bagno dopo aver dato luce a un bebè, ma la faccenda era stata insabbiata dal rettore di allora, Cathy Munsch (Jamie Lee Curtis), che ricopre ora lo stesso ruolo.
Interessate solo ad essere belle, ricche e popolari, le studentesse della  sorellanza, dopo la morte sospetta di un’altra ragazza, nel 2015 sono comandate con un pugno di ferro dalla “regina” Chanel Oberlin (una Emma Roberts in forma smagliante), giovane esasperatamente snob che delle sue tirapiedi non conosce il nome perché tanto le chiama con il proprio, seguito da un numero. C’è perciò un personaggio che si chiama ufficialmente Chanel n. 5  (Abigail Breslin). Tiranneggia e umilia chiunque le capiti a tiro, che sia la cameriera dei loro alloggi o il barista Pete Diller (Diego Boneta). L’intervento della presidente nazionale della sorority Gigi Caldwell (Nasim Pedrad) impedisce che la confraternita venga chiusa, ma sono obbligate ad accettare qualunque richiesta di iscrizione, ed è così che fanno domanda diverse indesiderate, fra cui Hester Ulrich (Lea Michelle, Glee), che porta un grande apparecchio al collo, Zayday Williams (Keke Palmer), voce della ragione del gruppo, e Skyler Samuel (Grace Gardner), dolce e ficcanaso (e se fosse la bimba venuta alla luce in quella vasca da bagno 20 anni prima?). Nella premiere che è una puntata doppia compaiono come guest star Ariana Grande, nel ruolo di Chanel n. 2 e Nick Jonas nel ruolo di Boone. Un uomo vestito da diavolo comincia ad ammazzare ragazze a destra e a manca. Si trattengono a stento panico e urla.
Un miscuglio di American Horror Story: Coven, Glee, Greek, Popular, Scream, Gossip Girl, Pretty Little Liars e Mean Girls, la serie preme l’acceleratore su tropi e cliché. Occasionalmente c’è qualche guizzo ben riuscito (come il caso della ragazza e l’assassino che, faccia a faccia, si parlano via sms sul cellulare) e ci sono venature di humor anche apprezzabili, ma l’eccesso caricaturale sfocia nella vignetta risibile, e la parodia della superficialità non si vede bene quanto parodia alla fin fine sia. Come sempre con questi autori, si è particolarmente efficaci sul versante dell’omofobia, ma per il resto si può ridurre tutto a qualche morto e una sfilza di cattiverie gratuite.

mercoledì 8 agosto 2012

GLEE: la terza stagione


Si è chiusa anche la terza stagione di Glee, la serie scolastico-musicale mandata sul satellite in semi-contemporanea con gli USA. La seconda stagione era stata criticata per avere troppe guest-star e “omaggi musicali” a scapito della storia, così gli autori,  Ryan Murphy, Brad Falchuk e Ian Brennan, dopo aver scritto ogni singolo episodio loro stessi, si sono decisi per questa tranche ad assumere uno staff di sceneggiatori, inclusa l’apprezzata Marti Noxon (Buffy, Angel). Il risultato generale è stato pessimo, in una serie che è sempre più inguardabile, scostante e con storie forzate sui personaggi (un esempio per tutte Quinn finita sulla sedia a rotelle, in seguito a 3.14).
Non che non ci siano state cose buone. Da sempre il telefilm ha voluto essere dalla parte dei “perdenti” e ha dimostrato coraggio nel trattare storie difficili: il tentato suicidio di Karofsky in seguito al bullismo, la violenza domestica contro l’allenatrice Beiste (3.18), l’introduzione del personaggio di Unique, le pressioni culturali di “la F asiatica” (3.03), il gioco di palla avvelenata usato per attaccare i compagni (3.06)… I numeri musicali spesso sono spettacolosi, o ci sono autentiche idee geniali  (la puntata natalizia - 3.09 - , Tina che batte la testa e vede tutti con i ruoli “scambiati”- 3.20), peccato che troppo spesso sembrino più un abbozzo appiccicato lì che non una vera e propria storia, pagliuzze setacciate da un filone poco d’oro.

mercoledì 19 ottobre 2011

AMERICAN HORROR STORY: un thriller psicosessuale


Gli autori Ryan Murphy e Brad Falchuck (entrambi di Glee e Nip/Tuck) lo avevano definito, già in occasione del primo promo, come un thriller psicosessuale, e ora che American Horror Story ha debuttato (sull’americana FX dallo scorso 5 ottobre, in Italia su Fox da novembre) la definizione sembra appropriata.
Ben (Dylan McDermott, The Practice) e Vivien (Connie Britton, Friday Night Lights) Harmon per superare un periodo difficile - hanno perso il bambino che aspettavano e lei ha trovato lui a letto con una studente – hanno deciso di trasferirsi da Boston a Los Angeles, insieme alla figlia Violet (Taissa Farmiga), un’adolescente che si autoferisce procurandosi dei tagli alle braccia. Acquistano una casa, dove sono avvenuti degli omicidi e che è infestata da varie presenze e apparizioni.
Fanno presto conoscenza con la governante Moira, ma mentre tutti la vedono come una signora anziana (Frances Conroy, Six Feet Under), Ben la vede come una giovane affamata di sesso (Alex Breckenridge) che cerca di sedurlo. E ricevono le visite inaspettate della ragazza con la sindrome di down Adelaide (Jamie Brewer) - che dice a tutti che in quella casa moriranno, cosa effettivamente avvenuta a due gemelli molti anni prima, e non solo a loro – e della madre di lei, la loro sinistra vicina di casa Constance (Jessica Lange), che chiama la figlia “mongoloide” e dice che se avesse saputo come sarebbe uscita avrebbe abortito – è in poche parole una versione drammatico-horror di Sue Sylverster di Glee, molto insultante e molto poco politically correct. Ben viene seguito da Larry (Danis O’Hare, True Blood), un uomo sfigurato da un incendio (ma potremmo scherzosamente dire dalla serie precedente, dove era un vampiro lasciato ustionare al sole) e il solo sopravvissuto a quella casa. Vivien, che non fa sesso con il marito da praticamente un anno, ha un incontro sessuale con un uomo in una tuta di lattice, che lei crede il marito (lo è o no?). La giovane Violet a scuola è oggetto di un feroce bullismo (un tema molto caro a Murphy e Falchuck) e fa amicizia con uno dei pazienti del padre, che è uno psicologo, il coetaneo Tate (Evan Peters) che ha molte fantasie omicide. 
American Horror Story: prendo una parola alla volta.
American. Troy Patterson su Slate scrive: “Per ora, American Horror Story non è la grande storia d’orrore americana ma piuttosto una nottata di spavento veramente buona. Il titolo porta più peso di quanto il suo contenuto possa reggere. Mi fa ricordare la recensione di Joyce Carol Oates di American Wife di Curtis Sittenfeld: ‘C’è un’esperienza distintamente americana? L’Americano, di Henry James; Una Tragedia Americana, di Theodore Dreiser; Un Americano Tranquillo, di Graham Greene; Il brutto americano, di William Lederer e Eugene Burdick; Pastorale Americana, di Philip Roth; e American Psycho di Bret Easton Ellis – ciascuno suggerisce, nel suo stesso titolo, una dimensione mitica in cui personaggi fittizi intendono rappresentare tipi o predilezioni… ‘Americano’ è una identità carica di ambiguità, e di quelle parabole allegoriche di Hawthorne in cui ‘bene’ e ‘male’ sono misteriosamente congiunte.’ Non preoccupatevi troppo di tutto questo. Questo cibo spazzatura gourmet vi dà puro male (…)”.

Horror. Non c’è stato alcunché che mi abbia provocato la più minima paura e la serie è più adeguatamente descritta come un thriller che non una vicenda dell’orrore. Mira a disturbare, ad inquietare, con la sigla (sotto) che ben trasmette il senso generale del programma. L’uso di immagini a flash e soprattutto un sapiente utilizzo del montaggio, che togliendo alcuni fotogrammi stacca di continuo scene che diversamente sarebbero lineari, sono quello che stilisticamente colpisce di più. Come riferimenti sono stati citati Psycho, Rosemary’s Baby, The Others, al cinema, e in tv mi ha fatto ripensare soprattutto a Twin Peaks, e alla soap gotica cult degli anni ’60 Dark Shadows – la prima immagine, della casa vittoriana che è il fulcro delle vicende, tanto protagonista quanto le persone in carne ed ossa, mi ha immediatamente richiamato alla memoria Collinwood. C’è anche una buona dose di kink, come c’è da aspettarsi coerentemente alla premessa, e non ricordo di averne mai visto in partenza di così esplicito, in TV. In qualche modo la memoria mi ha anche richiamato, in proposito, la puntata “Baba Yaga” della serie nostrana Valentina, ma dato che l’ho vista una sola volta nell’anno della messa in onda (il 1988) ed il ricordo è quello che è, non so quanto dar credito a questo parallelismo. Da subito in ogni caso risulta chiaro che il vero orrore non è tanto quello sovrannaturale, ma quello della vita quotidiana, dei demoni personali e relazionali, del mondo, un luogo che l’originale definisce filthy, lurido, sporco, perverso, turpe, schifoso. La vita è il vero orrore.  
Story. Il sopracitato critico di Slate ha osservato, in modo che ho trovato simpatico e azzeccato, che se questo telefilm fosse un libro sarebbe un incrocio fra un volume che raccoglie critiche cinematografiche, vista la pletora di horror da cui “ruba”, e il DSM-IV. Forte è anche la valenza meta testuale. Che cosa ci fa paura? Le storie sono modi in cui controlliamo la paura, dice Ben al suo paziente. È perciò una storia intesa come modo di mostrare, affrontare e controllare la paura? La TV non ha avuto molte serie vagamente definibili come horror – e finché sono come Harper’s Island, si capisce anche il perché. American Horror Story è un originale. Il pilot è stato convincente. Già la seconda puntata, ispirata a veri omicidi, ha avuto un calo e sono stati più i momenti che a me hanno procurato ilarità che non terrore. Murphy e Falchuck non sono noti per la sottigliezza, amano il gridato, le tinte forti. Credo che American Horror Story sia un programma da non perdere, uno di quelli a cui in futuro si farà spesso riferimento. Quanto buono sia però, lo dirà solo il tempo.

domenica 21 agosto 2011

Il primo promo di AMERICAN HORROR STORY




A giudicare da questo primo promo, promette bene la nuova serie American Horror Story, il cui debutto è previsto negli USA il 5 ottobre su FX. Ideata da Ryan Murphy e Brad Falchuk (entrambi di Glee) la serie viene definita un “thriller psicosessuale”. Se vi incuriosisce, sul canale di YouTube dedicato, si trovano diversi filmati flash con “indizi” di quel che sarà.