giovedì 25 febbraio 2016

ANGIE TRIBECA: gustosissima parodia poliziesca

 
Ideata da Steve Carell e Nancy Walls Carell,  Angie Tribeca è una gustosissima parodia di procedurali polizieschi andata in onda sull’americana TBS. Angie Tribeca  (interpretata da Rashida Jones) e il suo nuovo collega Jay Geils (Hayes MacArthur) sono agenti della RHCU, che sta per Really Henious Crime Unit (Unità di Crimini Davvero Odiosi) della polizia di Los Angeles. Investigano su ogni tipo di omicidio sotto la direzione del tenente Pritkin “Chet” Atkins (Jere Burns). Ad aiutarli ci sono il collega DJ Tanner (Deon Cole, già esilarante in Black-ish) col suo partner canino David Hoffman (Jagger), di cui capisce al volo ogni abbaiata – ed è reciproca; e ci sono due abili medici legali, il dottor Edelweiss (Alfred Molina) e la serissima dottoressa Monica Scholls (Andréè Vermuelen).  
Moltissime sono le guest star, da James Franco a Gary Cole, da Lisa Kudrow a Bill Murray, da Adam Scott a molti altri ancora in una girandola di ruoli che spremono gag visive e verbali in ogni possibile angolazione – la serie è spassosa da vedere e rivedere per poter cogliere tutto. Il tono, per chi la ricorda, è più quello della serie TV Police Squad! (diventata in italiano Quelli della Pallottola Spuntata)  che non di Brooklyn Nine-Nine che, pur umoristica, è meno demenziale e più workplace comedy.
Molto dell’umorismo è creato dalla caricatura di tropi o comunque vezzi classici del genere poliziesco, come ad esempio una lo è stata conversazione in cui tutti iniziavano la propria frase con “con il dovuto rispetto” (1.01) o l’inseguimento di criminale di turno che, da parte del poliziotto, è diventata una serie di esagerati esercizi ginnici inutili alla situazione (1.01); ci sono i tormentoni e liturgie che si rafforzano nell’umorismo a mano a mano che si rivedono, a partire dalla sigla -  che ha un audio di un urlo che, ad ogni inizio di puntata o quasi, viene ripreso da qualcuno che sta gridando per qualche ragione (in 1.03 ad esempio un agente si è schiacciato le dita in uno schedario)  -  e nelle varie situazioni (il collega che vomita ogni volta che arrivano sulla scena dell’omicidio, il patologo che entra in sena ogni volta con una invalidità diversa che poi risulta finta); c’è la resa letterale di espressioni che, legata all’inglese, difficilmente riuscirà altrettanto divertente in italiano; c’è nonsense.
Si va dal raffinato al casereccio. Tutto è lecito per far ridere, e ci si riesce bene. La recitazione non ha una sbavatura. Le puntate della prima stagione sono 10.

martedì 16 febbraio 2016

VINYL: sesso, droga e rock & roll negli anni '70

 
È la classica triade sesso, droga e rock & roll, infarcita di atmosfere mafiose, il piatto forte della nuova attesissima serie della HBO Vinyl, ambientata nel mondo discografico degli anni ’70 e ideata da, nell’ordine in cui appaiono nei credits finali: Mick Jagger – il cui figlio James, bravo attore, ha pure un ruolo nei panni di Kip Stevens, musicista ancora grezzo che spera di sfondare con la band The Nasty Bits; Martin Scorsese (Boardwalk Empire in TV) – regista del notevole pilot, ricco di emozionanti inquadrature e tagli originali; Rich Cohen e Terence Winter (Boardawalk Empire, The Sopranos).
Siamo nel 1973, in una New York livida e derelitta. Richie Finestra (Bobby Cannavale, Boardwalk Empire, Third Watch, in un ruolo che incarna alla perfezione, finalmente protagonista) è un italo-americano che non ha la stoffa per diventare un musicista lui stesso, ma ha gusto e orecchio da vendere. Negli anni ’50 scopre il talento di un cantante di blues, Lester Grimes (Ato Essandoh) e ne diventa il manager, salvo poi lasciarlo legato a un contratto che lo vincola a canzonette che non desidera cantare nonostante le promesse di portarlo con sé. Seguendo l’insegnamento di chi gli dice che gli artisti con cui ha a che fare non sono suoi amici ma semplici prodotti, si costruisce una compagnia discografica, la American Century, che ora è in cattive acque ed è alla disperata ricerca di nuove voci, se non altro per figurare come un’azienda valida da poter essere venduta per un profitto. Richie vuole che i suoi collaboratori e dipendenti vadano per la strada, per la città, in cerca di future star capaci di sfondare, e a capire che cosa intenda sembra essere solo Jamie Vine (Juno Temple), la Peggy Olson (di Mad Men) della situazione, una donna che comincia distribuendo panini, ma ha ambizioni di carriera serie. Sul lato professionale al suo fianco c’è l’amico-collega Zak Yankovich (un Ray Romano che si è già ampiamente provato in ruoli drammatici con Parenthood e ancora più con il rimpianto Men of a Certain Age). Sul lato personale c’è la moglie Devon (Olivia Wilde, House) che ha un passato come membro della Factory di Andy Wharhol.
La serie cerca di fare per una decade, gli anni ’70, quello che Treme ha fatto per un luogo, New Orleans, ovvero mettere al centro di tutto la musica. Con riferimenti colti e appassionati, impregna e satura le vicende. A questo si aggiunge la frenesia e il delirio che vi si accompagnano, senza rivestimenti zuccherini, ma carichi di stati alterati di coscienza, carburati da abbondanti droghe di ogni tipo. L’eccitazione sonora si può facilmente trasformare in rissa, o in orgia. L’eccesso all’inseguimento di una passione, alternato a momenti atmosferici e quasi lenti, da riflessione, costituisce la cifra stilistica più riuscita della narrazione, che è però minata nell’originalità del gusto da una “Soprano-izzazione” delle vicende, problema che già gravava Boardwalk Empire. C’è una costante atmosfera da mafia anche lì dove magari la mafia nemmeno c’è.
Ad un certo punto c’è pure un omicidio, nel corso della prima puntata, un evento superfluo, e inutilmente violento, che peraltro chiude una scena scritta in modo anacronistico. Il personaggio che poi verrà ucciso con fare di disprezzo verso il Connecticut (Stato dove vive il protagonista) commenta che è un luogo dove vivono solo “ciucciacazzi” (parola loro) che abitano nei boschi e persone con la malattia di Lyme. Siamo nel 1973 però, e l’epidemia, se così possiamo chiamarla, di borrelliosi che colpisce la cittadina di Lyme che poi dà il nome alla malattia è del 1975.
Vinyl manderà magari in brodo di giuggiole i veri appassionati di musica, ma quello che ha da dire sembra già consunto, e mostra l’ebbrezza e l’intossicazione dell’esperienza artistico-musicale, ma non riesce a trasmetterla allo spettatore, al di là dello squallore.  

martedì 9 febbraio 2016

MERCY STREET: la medicina ai tempi della Guerra di Secessione americana

 
Siamo nel 1862, durante la guerra di Secessione americana in Mercy Street, la nuova serie con una prima stagione di 6 puntate in onda sull’americana PBS. E siamo ad Alexandria, in Virgina, in una cittadina della Confederazione (quindi degli Stati sudisti e schiavisti) occupata dall’Unione (quindi dagli Stati nordisti abolizionisti).
Mary Phinney (una Mary Elizabeth Winstead che interpreta un personaggio realmente esistito che ha lasciato documentazione di sé in forma di diari) è una giovane vedova antischiavista che decide di prestarsi come infermiera. La sovrintendente Dorothea Dix (Cherry Jones), le ricorda che loro sono solo “strumenti di misericordia e speranza”, nient’altro, e la manda al Mansion House Hospital, un ex-albergo convertito in ospedale dove lavorano il dottor Jedediah Foster (Josh Radnor, How I Met Your Mother), che ha problemi di dipendenza da morfina, e il più sbrigativo medico militare James Green (Norbert Leo Butz, Bloodline), mentre a prendersi cura delle anime c’è il cappellano Henry Hopkins (Luke MacFarrlane, Brothers and Sisters).
 Essendo stata nominata capo-infermiera, si trova in conflitto con una delusa Anne Hastings (Tara Summers), che aveva lavorato un Florence Nightingale nella Guerra di Crimea, ma viene sostenuta da Samuel Diggs (McKinley Belcher III) un giovane nero libero, esperto in medicina perché cresciuto nella casa di un medico. Quest’ultimo è attratto da Aurelia (Shalita Grant, NCIS: New Orleans), che scappata dalla schiavitù cerca di costruirsi una vita da donna libera, ma viene molestata e violentata dall’uomo per cui lavora, Silas Bullen (Wade Williams). L’hotel ora convertito in nosocomio militare  è di proprietà della famiglia Green. James Green (Gary Cole), cerca di temporeggiare per tenere a galla gli affari e si ricicla come venditore di bare, mentre il figlio maggiore soffre al sentirsi un codardo per non essere andato in guerra, la figlia minore ha il suo promesso fra i feriti e la figlia maggiore Emma (Hannah James), innamorata di Frank Stringfellow, (Jack Falahee, How to Get Away with Murder),  si reca come volontaria per dare sollievo in particolare ai soldati della Confederazione, che vengono trascurati a favore di quelli dell’Unione. Sarà Mary a guidare Emma.
Ideata da Lisa Wolfinger e David Zabel, inzialmente questa serie voleva essere un docudrama sulla medicina durante la Guerra Civile americana, ma poi è stato trasformato in una fiction che è una mescolanza di The Knick (e condividono come consulente medico storico il dottor Stanley Burns), di Via Col Vento e dei prodotto cultural-filosofici dell’intellighenzia dell’epoca – la Winstead si è preparata leggendo fra l’altro Hospital Sketches di Louisa May Alcott, Radnor immergendosi nella Confessioni di un mangiatore d’oppio di Thomas De Quincey.  (Washington Post).
Le vicende si mantengono in un buon equilibrio fra accessibilità e accuratezza storica, con venature sentimentali, ma l’ambizione narrativa non raggiunge il livello a cui la si vede tendere. Le grandi tematiche su cui fa leva la storia, in particolare la condizione delle donne, quella dei neri, la rudimentalità della medicina, l’abuso di sostanze da parte della classe medica e l’aborto (1.02) sono le stesse affrontate dalla ben superiore The Knick, ambientata circa mezzo secolo più tardi, di cui sembra essere una fotocopia sbiadita.  Nondimeno si affronta intanto un periodo storico in fondo poco visitato dalla serialità americana –sorprendentemente visto che non manca generalmente oltreoceano una spiccata tendenza auto-celebrativa – e poi l’affrontare tematiche come gli echi della guerra e il costo psicologico che ha su chi la combatte; il suicidio (1.04); l’importanza dell’alimentazione , la scarsità e i criteri di allocazione delle risorse; le alleanze in tempo di guerra e i compromessi; la moralità e le priorità che si danno nelle cure in riferimento alla posizione ideologica o affettiva dei coinvolti;  la mascolinità; la schiavitù e quanto il passaggio alla libertà sia, pure agognato, tanto individualmente quanto socialmente difficile e a maturazione progressiva; il rapporto fra le donne e la modalità in cui gestiscono “sorellanza” e conflitti; tradizioni intellettuali e culturali.   
Per ora non è dato sapere se ci sarà una seconda stagione.

martedì 2 febbraio 2016

GALAVANT: la seconda stagione

 
Galavant ha appena chiuso una esilarante seconda stagione di amore, avventura, complotti, musica e canzoni. Si ride di gusto e si piange di commozione, non c’è un personaggio che non coinvolga, e i riferimenti metatestuali sono così brillanti e riusciti che c’è da emozionarsi anche solo per quelli. Il dialogo è affilato e non perde un colpo, e le storie sono solide. I numeri musicali li si vorrebbe sentire ancora e ancora. Mascherata da situazioni apparentemente e volontariamente stupide ci sono  emozioni reali presentate con l’abito della fiaba.
Incarna “la decostruzione del mito della principessa” Isabella (Karen David), per sua stessa ammissione (2.10), ma questo non le impedisce di avere amore e felicità, fra le altre cose, anzi. Questo arco è stato costruito sul tentativo di Galavant (Joshua Sasse) e Isabella di tornare finalmente insieme, nonostante un primo bacio non proprio entusiasmante, tecnologia poco-cooperativa anche quando ha alle spalle un pizzico di magia, una corona controlla-mente del wedding planner  e mago malvagio Chester Wormwood (Robert Lindsay), e la morte temporanea dell’eroe titolare infilzato da una spada per errore dal fido Sid (Luke Youngblood) . Il regno di Valencia ha fatto guerra a quello di Hortensia, e fra un esercito di zombie che si rianima alla parola “amore” e battaglie combattute con mestoli e padelle in mancanza di armi migliori, si è arrivati al lieto fine.   
Chef Vincenzo (Darren Evans) e Gwynne (Sophia McShera)  hanno avuto un ruolo più defilato, e  al contrario più rilievo ha avuto buffone di corte Steve (Ben Presley).  Ad emergere in quest’arco sono stati però Madalena (Mallory Jansen) e Gareth (Vinnie Jones), super-malvagi non poi così cattivi, che finiscono per innamorarsi l’uno dell’altra, e nel caso di lei si fanno sedurre dalle oscure forze del male (conosciute come D’Dew, Dark Evil Way).
E come una vera star però ha brillato soprattutto Re Richard (uno spettacolare Timothy Omundson), che ha avuto un meritato spazio più ampio. Seguito da un unicorno (attratto dai bambini a dagli uomini che non hanno perso la loro verginità) e con una fede incrollabile in Tad Cooper che lui ritiene un drago e tutti gli altri solo una lucertolona, quest’anno ha anche trovato l’amore in Roberta (Clare Foster) ed è stato riconosciuto come “il solo vero re che li unirà tutti", come recita la spada che solo lui riesce a estrarre senza fatica dalla roccia. Sono i momenti di ingenua tenerezza, senza vergogna, che hanno sempre reso il suo personaggio un po’ infantile e  terribilmente adorabile. E quello è rimasto, consentendo però anche una grande trasformazione del personaggio in un “vero uomo”.
Kyle Minogue, Matt Lucas, Robert Lindsey e Weird Al Yankovic sono state guest star.
La serie era stata data per cancellata alla fine della prima stagione, e invece è riuscita a tornare per una seconda. Speriamo che la magia si ripeta. Non tutte le puntate hanno convinto allo stesso modo, ma alcune sono state perfino sorprendentemente perfette. Galavant si può guardare e riguardare, e non si smette di ridere con gusto, leggerezza e un pizzico di follia.