mercoledì 27 giugno 2018

UPFRONTS 2018-2019: FOX



La Fox  agli upfronts ha presentato i seguenti programmi:

The cool kids. Ideata da Charlie Day (It’s Always Sunny in Philadelphia), è una sit-com multi-camera che segue le vicende di un gruppo di anziani di una casa di riposo che hanno formato dei gruppetti un po’ come se fossero al liceo. Qui il promo.


Rel. Lil Rel Howery (Get Out, The Carmichael Show) interpreta un alter ego di se stesso. Dopo che ha scoperto che la moglie lo tradisce con il barbiere, cerca di ricostruirsi una nuova vita da padre single a Chicago. E deve trovarsi un nuovo barbiere! Sinbad interpreta il padre. Showrunner è Mike Scully (I Simpson, Parks and Recreation). Qui il promo.


Last Man Standing. È il revival della nota sit-com andata in onda per sei stagioni sulla ABC e ora passata a Fox. Qui il promo.  


E per midseason sono previsti:

The Passage. La serie è basata sulla trilogia libraria scritta da Justin Cronin e adatta per la TV da Liz Heldens. L’agente federale Brad Wolgast (Mark-Paul Gosselaar) si ritrova a fare da padre surrogato a una ragazzina di 10 anni che è il soggetto cavia di un esperimento governativo segreto che ha il potenziale di eliminare tutte le malattie, ma anche di distruggere l’intera razza umana. I libri hanno un taglio sovrannaturale e non è chiaro in che misura sarà così per la serie: si menziona una “pericolosa nuova razza di esseri” simil-vampiro, però. Fra i produttori c’è Ridley Scott. Qui il promo.


Proven Innocent. È un procedurale legale ideato da David Elliot, ambientato in uno studio che rappresenta clienti accusati ingiustamente. Nel cast ci sono Rachelle Lefevre (Under the Dome) e Vincent Kartheiser (Mad Med). La serie è prodotta da Danny Strong. Qui il promo.

mercoledì 20 giugno 2018

UPFRONTS 2018 - 2019: NBC



La NBC agli upfronts ha presentato i seguenti programmi:

I feel bad. È una commedia scritta da Aseem Batra, sulla base di un libro di Orli Auslander, e prodotta da Amy Poehler. Protagonista è una donna – mamma, moglie, amica, figlia, capo – che si ritrova spesso a dispiacersi per la varie situazioni della vita. Qui il promo.   

Manifest. È stato definito una sorta di Lost al contrario. Un aereo ricompare dopo essere misteriosamente scomparso senza alcuna traccia cinque anni prima. Per i passeggeri però si è trattato di un istante. La serie segue le vite di alcuni di loro dal momento del loro ritorno a casa dove, nel frattempo, le cose sono cambiate. La serie, scritta da Jeff Rake (The Tomorrow People), è prodotta da Robert Zemeckis. Qui il promo.

New Amsterdam. Si tratta di un procedurale medico ambientato in un centro d’elite modellato su un centro realmente esistente, il Bellevue di New York, il più vecchio ospedale pubblico del Paese. La serie è anche ispirata dal memoir di un medico che vi lavorava, Eric Manheimer, che è produttore. Qui il promo.

Per mid-season sono invece in palinsesto:

Abby’s. Ideata da Josh Malmuth (Superstore, New Girl) e prodotto da Mike Schur (Parks and Recreation, The Good Place), si tratta di una sit-com multi-camera ambientata, alla Cheers, in un bar di San Diego, dove si ritrovano clienti abituali e dove sono banditi i cellulari.   

The Enemy Within. Un’agente della CIA diventata una traditrice (Jennifer Carpenter, Dexter) viene liberata dalla prigione di massima sicurezza dove sta scontando l’ergastolo da un’agente dell’FBI che la vuole come assistente nel catturare un pericoloso criminale. La serie è ideata da Ken Woodruff (Gotham).  

The InBetween. In questo procedurale, una giovane donna non solo vede i morti, ma riesce pure a comunicare con loro e aiuta la polizia di Los Angeles a risolvere i crimini più svariati grazie al suo dono. La serie è ideata da Moira Kirland (Madam Secretary).   

The Village. Questa serie, un po’ alla This is us, segue le vite di un gruppo i persone che vivono nello stesso complesso di appartamenti a Brooklyn. Ci sono una madre single che cresce una figlia adolescente incinta, un veterano di guerra ferito, uno studente in legge che vive con una persona molto più vecchia, un immigrato illegale… La serie è ideata da Mike Daniels (Sons of Anarchy, Shades of Blue).  


Per il 2019 è poi prevista:

The Gilded Age. Ordinata direttamente a serie senza neanche un pilot, è ideata da Julian Fellowes ed è descritta come la versione americana di Downton Abbey ambientata nella New York del 19° secolo. Si seguono le vicende di una ricca famiglia di un magnate delle ferrovie. Le puntate saranno 10. 

domenica 10 giugno 2018

Addio a ANTHONY BOURDAIN: appunti sulla quinta stagione di NO RESERVATIONS


Photo credit: CNN

Si rincorrono i tributi alla memoria dello chef-narratore e personalità televisiva Anthony Bourdain, che si è tolto la vita nei giorni scorsi. Mi piaceva molto e mi ha rattristato la sua scomparsa. Mi sono resa conto che “avevo nel cassetto” alcuni “appunti”, scritti ancora nel 2011, sulla quinta stagione di No Reservations with Anthony Bourdain. Non li avevo mai pubblicati perché mi mancavano delle puntate da vedere. Non importa, lo faccio ora anche così. È il mio piccolo modo di rendergli omaggio.

Ogni città ha uno stile e un’atmosfera tutta sua e Bourdain ne tiene conto nel modo con cui la racconta. Scrive, viaggia, mangia… e parla con le persone, famose al grande pubblico e famose per coloro per cui cucinano ogni giorno, fosse anche solo per i propri familiari. Le relazioni fra le persone sono importanti tanto quanto il cibo, si costruiscono attraverso di esso e rendono l’esperienza del suo consumo più ricca e intensa. E lui vi si sofferma, chiedendo spiegazioni, accomodandosi intorno al tavolo delle case che la gente apre per lui mettendosi così a sua disposizione. Un misto di vita sociale e di esperienze gustative casalinghe. In un mondo globale si mostra l’eccezionalità dei luoghi singoli, dove permangono tradizioni conservate spesso da tempi immemorabili. Irripetibili. Il locale sopravvive su tutto con la sua ricchezza, particolarità, gusto.

Mexico (5.01). Prendersi il tempo di fare le cose per bene. Ore di lento sobbollire. Persone che ti parlano attraverso il cibo, ti dicono qualcosa su di sé, della propria famiglia, del loro Paese, della loro zona, della loro città, e alcuni dei venditori di cibo di strada più veloci del mondo. Guida è il suo amico-cuoco Martin, entrato negli Stati Uniti in modo illegale a 17 anni, per poi trovare successo dietro ai fornelli e riuscire a ottenere in seguito la cittadinanza. Dieci anni ci sono voluti perché tornasse nel suo Paese la prima volta. Un corrida, le tacos, bevande impronunciabili, l’isola delle bambole, dove bambole mostruose tengono lontani gli spiriti… Le mani del Messico: persone che fanno le cose a mano, tutto a mano, quello stesso giorno;  il passaggio del cibo da una mano all’altra. L’abile preparazione dei piatti, sapori, consistenze, colori, dice qualcosa di personale: da dove viene il cuoco, qui è dove sono stato, questa è la mia storia, questo è quello che amo.

Venezia (5.02). Un ritratto incantato fra calli e canali, fra gli echi del passato e le suggestioni del presente, fra palazzi, ristoranti e tavole di casa in giardino e trattorie e bacari. In Piazza San Marco, alla Giudecca, a Burano, a Marghera, al Lido… Si scopre la Venezia più tipica, dai cicchetti (che però sono bicchierini alcolici, non stuzzichini, nel solo piccolissimo fraintendimento in un abbondantissimo rincorrersi di specialità) alle ombre, dalle moleche  al fragolino, al fegato alla veneziana, alle sarde in saor, baccalà mantecato, bigoli in salsa, risotto Go e pasta: perché “senza la pasta la vita è un peccato contro Dio e tutto ciò che c’è di buono e decente a questo mondo”. Veneziani come artisti, in cucina e fuori, con passione, pazienza, e la piccola presunzione di essere migliori degli altri. È catturata nella sua essenza e scoperta di nuovo anche per chi la conosce bene, con osservazioni pregnanti e un sapiente uso di filtri che trasmette il senso della storia e della civiltà che si condensa sulle superfici di Venezia. Una lettura colta e golosa.

Washington DC (5.03). Città visibile e invisibile, di potere e di impotenza, città dove ci sono bellissimi monumenti a rappresentare bellissime idee: così la descrive Bourdain dopo un inizio in cui le interruzioni di aerei, elicotteri, macchine, sirene, bambini hanno bloccato qualunque ripresa. Dal locale di chili esistente dai tempi di Martin Luther King, all’apparente banale tipico hamburger vicino al “museo delle spie” sulla cui “arte” impara qualche trucco, alla conversazione con George Pelecanos, al pollo di cui tutti parlano, al megacentro di specialità vietnamite fra cui uno dei tanti locali tipici prepara carne cruda molto lunga da masticare accanto a formaggio fatto in casa, da raccogliere con un pane spugnoso e immergere in una salsa fatta fermentare perfino con la coca-cola, agli artistici assaggini di un raffinato mini bar, all’ex-galeotto che lavora in una cucina che non solo aiuta gli affamati, ma insegna un mestiere ai fornelli e offre un futuro a persone che non ne avrebbero uno diversamente… La capitale non è solo potere e politica, ma gente comune, con passati talvolta difficili, che lavora duramente.

Le Azzorre (5.04). Il verde, l’Oceano, la natura rude, i “buchi” nella terra che odorano come se le terra scoreggiasse, le isole sperdute dove si mangiano frutti di mare, la terra incontaminata e i sapori che mescolano oceano e Mediterraneo, staccandosi da quest’ultimo e dal vicino Portogallo in modo deciso, nella percezione di una identità autonoma.

Chicago (5.05). La sola altra metropoli degli Stati Uniti, secondo il conduttore, a parte New York. I migliori hot-dog del mondo e il miglior panino, una bomba chiamata “i tre porcellini”, e una quantità di cibi da strada “cattivi” in senso buono e cibi iper-raffinati di pesce e frutti di mare, o di cucina “terroristica”, dove anche il menù è commestibile. Una metropoli, ma rilassata.

Food Porn (5.06). Cibo e pornografia usano un “linguaggio visuale” simile e in questo parallelo tracciato da Bourdain è facile vedere fino a che punto: dalle inquadrature dei dettagli, ai mugugnii di piacere, al money shot dei programmi televisivi. Ma pornografia è anche piacere di guardare senza poi di fatto fare, e quello è anche il senso di “pornografia del cibo” in questa puntata: i cuochi più diversi preparano per Bourdain (mentre lui li guarda da una sala cinematografica) quello che è per loro il non plus ultra del cibo, siano capelli d’angelo in una salsa di ricci di mare e una copertura di caviale o sia un uovo basotto ricoperto da una fonduta di formaggio e scaglie di tartufo nero. Giapponese, coreano, francese e italiano che trovano unità creativa sotto lo stesso menù al Momofuku per un originalissimo pantagruelico pasto che vede il cuoco dichiarare che pane e burro sono per lui la pornografa del cibo. Il maiale usato in tutte le sue parti, dalla coda ripiena al naso, da una impossibile ghiottoneria all’altra appoggiate, una volta cotte, in modo da  ricostruire l’animale su un tagliere che ne riproduce l’immagine, pezzo per pezzo: sono la specialità di un gruppo di cuochi che se lo consumano mezzi nudi. Cioccolata trattata in modo tale da sembrare gioielli. Il porno personale di Bournain: pho vietnamita, una zuppa di pasta lunga, carne, verdure e ingredienti vari – calda, gustosa, “slurp”osa. E si vuole una versione culinaria di qualche feticcio? Basta andare magari in Corea o in qualche altra parte del mondo dove i piatti qui guardati sono comunemente apprezzati – insetti compresi. Piacere, voluttà, peccato. A volte viene in forma semplice, altre volte in vesti sofisticate. Un’orgia di cibo di proporzioni epiche.

Filippine (5.07). Polpettine di pollo fritte immerse in salse e mangiate da un lungo stuzzicadenti, tofu con sciroppo di tapioca bevuto da un bicchierino di plastica, “pansit” (tagliolini di pasta di riso conditi in modo vario)… Un giro in una “dampa”, mezzo mercato, mezzo locale dove ti cucinano a piacimento ciò che hai comprato. Un vero melting pot in cui è difficile indicare le influenze culinarie e in cui il cibo nazionale è l’adobo (ovvero qualunque combinazione di cibo passata con aglio, cipolla, peperoncini piccanti, salsa di soia). Tanto latte di cocco. Sisig.

La Manhattan che sta sparendo (5.08), lo Sri Lanka (5.09)

Vietnam (5.10). Un viaggio fra passato e presente, un Paese dove la guerra del Vietnam è chiamata “la Guerra americana”, dove marito e moglie subito dopo sposati hanno dovuto combattere uno contro l’altro negli scontri fra Vietnam del Nord e del Sud. Un Paese brulicante di gente dove Bourdain pensa di magari trasferirsi un anno con la famiglia e dove dice addio a una cuoca che  si è presa cura di lui e di cui incontra la famiglia e alle cui ceneri rende omaggio.  Un Paese dove la gente vive ancora in gran parte come un secolo fa e dove il tempo si ferma il lasso di una deliziosa minestra calda, un Paese che sembra immune alla globalizzazione salvo poi scoprire nel centro boutique di Dolce & Gabbana, Luis Vuitton, Gucci. Le campagne delle risaie, il locale dove si cucina illegalmente che si nasconde per il tempo di un passaggio della polizia per poi riprendere alacremente, le baguette farcite di ogni ghiottoneria…

Chile (5.11), Australia (5.12), la Rust Belt (5.13), Cibo di strada (5.14), San Francisco (5.15), la Tailandia (5.16), Montana (5.17), Domande Scottanti (5.18), Quartieri Esterni di New York (5.19).

Sardegna (5.20). Casa. È quella la sensazione che dà a Bourdain la Sardegna, e per una ragione molto specifica. Sua moglie Ottavia è italiana e i suoi familiari abitano in Sardegna. È perciò tutta la famiglia quella che lui ha reclutato per portarci in provincia di Nuoro, ad Oristano e in altre località dell’isola. Pane Carasau con pecorino, salumi e vino rosso; malloreddus; pasta con la bottarga che gli mette la scintilla negli occhi; ricotta fresca ricoperta con un filo di miele; carne d’asino. Di specialità ne assaggia molte, come sempre, gira per le strade, ammira i graffiti sui muri, conversa infilando qui e lì una parola di italiano. E coglie al volo il fatto che per molti italiani, con una cucina così, uscire a mangiare al ristorante è quasi un “character flaw”, un difetto del carattere. Come è vero!

Come sempre, anche per la quinta stagione, di 20 puntate, tanti luoghi, tante ghiottonerie e tanta cultura.

mercoledì 6 giugno 2018

POSE: trans, ballroom culture, famiglia


Il debutto di Pose (sulla rete americana FX) ha convinto molto di più di quanto non ci si aspettasse perché, confezionato in una narrazione molto tradizionale, apre a un mondo totalmente sconosciuto ai più. Il senso di anticipazione per la nuova serie firmata da Ryan Murphy, che l’ha ideata insieme a Brad Falchuck e Steven Canals, già era alta: fa la storia della televisione per avere il più grande numero di attori trans come protagonisti e il più ampio cast di interpreti LGBTQ di qualunque serie di narrativa. L’Huffington Post riporta anche (qui) che tutti i proventi andranno in beneficienza a sfondo “arcobaleno” e in particolare focalizzata su gruppi transgender. 

Siamo a New York alla fine degli anni ’80 e si guarda alla “ball culture” e alla sua comunità, e al “house system” che, come spiega wikipedia e come illustra già il pilot della serie in modo molto efficace senza essere didascalico, indica una subcultura underground LGBT negli Stati Uniti, in cui le persone “sfilano” (“walk” in inglese), ovvero competono, in alcuni eventi chiamati “balls” (balli) davanti a una giuria e a un pubblico per vincere dei trofei. Alcuni si sfidano proprio nel ballo, nella house dance chiamata “voguing” (resa popolare da Vogue di Madonna e dal documentario Paris is Burning), altri nel travestimento drag, ma ricevono voti anche per i costumi, l’aspetto e l’atteggiamento. Quelli che si sfidano appartengono a “houses” (case) che sono una specie di famiglie alternative formate prevalentemente da giovani omosessuali neri e ispanici che trovano accoglienza. Queste case sono guidate da “madri” o “padri” che seguono e aiutano i “figli” della casa. Chi fra le case guadagna più trofei e riconoscimenti diventa “leggendario”.   

L’incipit della serie vede proprio i membri della House of Abundance che rubano da un museo degli abiti regali per vincere a basi basse nella gara (ve ne sono diverse) che richiede loro di vestirsi da reali –  “La categoria è…” annuncia il presentatore Pray Tell (Billy Porter) per ognuna. Questo è il biglietto da visita dello sfolgorante, scintillante mondo che stiamo per imparare a conoscere. Presto capiamo che è un costume variopinto sotto cui batte il cuore di un family drama di inclusione e accettazione. Subito dopo, con una situazione che è fin uno stereotipo per quanto tragicamente comune era - e magari è, anche se mi illudo sempre meno -, ci viene presentato Damon (Ryan Jamaal Swain): ha diciassette anni e adora ballare; quando confessa al padre, che si vergogna di lui, che è gay, questi lo sbatte fuori di casa dicendogli “per me sei morto”, e la madre rincara la dose ammonendolo sul fatto che Dio lo punirà dandogli “quella malattia”, e che si tratti dell’HIV/AIDS pre-possibilità-di-cure non è nemmeno necessario dirlo. Ad avere la certezza di essere sieropositiva è la transessuale Blanca (MJ Rodriguez) che decide di lasciare la House of Abundance guidata dalla “madre” Elektra (Dominique Jackson) per fondare, nel tempo che le rimane, una casa sua, la House of Evangelista (in onore della modella Linda Evangelista). Blanca invita Damon, che di tutta questa cultura è digiuno, a entrare a far parte della sua casa. E a lei si unisce anche Angel (Indya Moore), che inizia una storia con Stan Bowes (Evan Petters). Nell’era reaganina che permette l’ascesa dell’impero Trump e di una vita di lusso ed eccesso, Stan lavora per il magnate, assunto da Matt (James Van De Beek, Dawson’s Creek) e la sera torna a casa dalla moglie Patty (Kate Mara, House of Cards) e dai figli, ma non riesce ad arginare l’attrazione per Angel, che sa bene non essere socialmente accettabile.  

La recitazione è impeccabile e Pose intelligentemente, forse perché sa quanto inusuali sono questo genere di soggetto e di casting, usa di proposito una narrazione e uno stile molto tradizionale e “confortante”: si mostrano persone che, come tutti (generalizzo, ma passatemela), vogliono essere accettate per se stesse, per la verità di quello che sono intimamente, amate e circondate da una famiglia che tiene a loro - Angel sogna il principe azzurro, Blanca pretende che i suoi “figli” tengano all’istruzione perché è il solo modo di andare avanti nella vita e definisce e si comporta da madre spingendo perché Damon entri in una scuola di danza… 

La società potrà emarginare certi gruppi, ma rimangono persone la cui umanità qui viene celebrata. Murphy e i suoi adottano l’approccio più sconcertantemente “già visto” a cui siamo abituati – con espliciti riferimenti a classici degli anni ’80 come Flashdance o Saranno Famosi, e abbondanti tracce musicali di quegli anni – quasi proprio a far capire a quelli di noi che non fanno parte di quella realtà che nonostante l’apparenza non sono poi così distanti da quello che conosciamo, e a mostrare a chi invece ne fa parte che vengono visti e riconosciuti e apprezzati. Una scelta che mi ha sorpreso perché è sensata, elegante, intelligente e coinvolgente. In effetti questi personaggi, anche solo dal pilot, sanno già di famiglia.