giovedì 26 aprile 2018

HERE AND NOW: la nuova serie di Alan Ball


Alan Ball è tornato e, anche se la critica ha accolto in modo tiepido il suo nuovo “Here and now” (Qui e Ora) per la HBO, diventato “Una famiglia americana” in italiano (su Sky Atlantic), io l’ho trovato in forma smagliante e mi ha conquistato subito.

Siamo a Portland, in Oregon. Greg Boatwright (Tim Robbins) è un insegnante universitario di filosofia diventato celebre per un libro che porta il nome della serie. È in crisi di mezza età  e mette in dubbio i principi che lo hanno guidato finora davanti a una società che lo delude. Si sente spento interiormente e certa di trovar conforto fra le braccia di una prostituta. La moglie Audrey (Holly Hunter) è un’ex-terapeuta che lavora in un ambiente scolastico su progetti di empatia per insegnare agli studenti come comunicare meglio fra loro. Progressisti culturalmente e socialmente impegnati, hanno voluto una famiglia multirazziale e hanno tre figli adottivi, ormai adulti, e una figlia biologica adolescente. Ashley Collins (Jerrika Hinton), proveniente dalla Liberia, è sposata con una figlia e ha ideato e gestisce un sito web di acquisti di capi d’abbigliamento. Duc (Raymond Lee), adottato dal Vietnam quando aveva 5 anni, è un life coach di successo che ha grossi problemi irrisolti di sessualità: si mantiene casto perché tormentato dai ricordi della madre biologica che si prostituiva. Ramon (Daniel Zovatto), adottato da un orfanatrofio della Colombia, studia design dei videogiochi, la sua grande passione, e ha una relazione con un uomo che consoce ancora poco, Henry (Andy Bean). Comincia ad avere allucinazioni e a vedere ovunque il numero 11. La madre, che ha un fratello schizofrenico, pensa possa avere lo stesso problema e lo spinge a vedere uno psichiatra, il dottor Farid Shokrani (Peter Macdissi), di origine iraniana, con il quale Ramon stabilisce subito una connessione molto forte, legata anche al difficile passato dell’uomo. Kristen (Sosie Bacon), la sola figlia biologica, è al terzo anno di liceo e fa le sue prime scoperte di vita adulta. Stringe amicizia in particolare con il compagno di scuola Navid (Marwan Salama), figlio di Farid, che è gender-fluido e sebbene al mondo esterno si presenti come maschio, in casa preferisce vestirsi da donna.

Quello che viene messo in scena in questa serie è uno spaccato dell’America, con da un lato una realtà sempre più multietnica e portatrice di aspirazioni molto variegate, dall’altro un ambiente intollerante che si percepisce come una costante minaccia; c’è riflessione sul senso profondo della vita, sia come suo significato che su come andrebbe vissuta; c’è riflessione sull’empatia, in modo particolare come modo di superare le divisioni e su possibili alternative; c’è disillusione; c’è un meditazione sull’età e il diventare vecchi – il diverso stadio della vita in cui si trovano i vari personaggi si percepisce; c’è la percezione di come prospettive diverse facciano fare esperienza di realtà apparentemente identiche in modo diverso: penso a come vivono le due sorelle un loro arresto. Ashley, che è nera, deve sopportare il sospetto che la borsa che ha, solo perché costosa, sia rubata; quando la perquisiscono, la palpeggiano. Nei confronti di Kristen invece c’è molto rispetto. 
   
Le tematiche non emergono solo in via metaforica o obliqua, ma vengono anche verbalizzate in modo specifico. Penso che possa essere un valore aggiunto, e qui lo è sicuramente, perché certi argomenti si affrontano nella vita quotidiana anche a parole, e perché è bene sollevare certe discussioni esplicitamente e aggiungere “prospettive osservazionali” alla conversazione, con questo intendo la possibilità da parte dello spettatore di ascoltare alcune opinioni assistendo contemporaneamente agli scampoli di esperienza da cui nascono. Si ricompone la scollatura fra pensiero e vita, cosa che è coerente anche con il fatto che uno dei protagonisti è un docente universitario di filosofia, e si pongono alcune riflessioni anche sul ruolo di questa disciplina nella realtà contemporanea (la riunione di facoltà e la conversazione con la figlia in 1.05 ne sono un buon esempio).  

Mi ha molto colpito il modo in cui si è stati in grado di mettere in scena il contrasto fra i familiari e i professionisti di un paziente con problemi di natura psichiatrico-psicologica. Qui la madre, ex-terapeuta lei stessa e con un familiare che soffriva di schizofrenia, insiste per un intervento immediato farmacologico drastico. Lo psichiatra, di converso, pur prescrivendo poi anche dei farmaci, ci va più cauto e non vuole affibbiare troppo frettolosamente al proprio cliente una etichetta diagnostica. E c’è proprio uno scontro a parole con e fra i familiari, cosa veramente rarissima da vedere, con il professionista che dice di non essere un medico, ma un terapeuta. Che ci siano prospettive di questo tipo è rinfrescante. 

La serie prende una via onirico-sovrannaturale, metafisica e mistica, al di là anche di un certo realismo magico che poteva già caratterizzare “Six Feet Under”, e quella è di più difficile inquadramento, ma è un viaggio in cui ci si lascia trasportare fiduciosi della voce autoriale il cui obiettivo intende essere quello di sollevare quesiti lasciando che non vengano spiegati necessariamente, nella convinzione che i misteri nella vita siano molti, e non siamo in grado di coglierli intellettualmente tutti. “Stiamo vivendo una nuova realtà” dice la tagline dello show. Il tema centrale è davvero la crisi di identità personale e nazionale, e il senso di disorientamento che vi si accompagna. La serie sembra essa stessa un po’ confusa a momenti, su quello che vuole fare ed essere, e ha spazio per crescere e sviluppare i propri personaggi al di là dell’idea che ciascuno di loro rappresenta, ma in un certo senso sembra condividere la sorte dei personaggi che racconta.  

Mi auguro venga rinnovata per una seconda stagione. 

venerdì 13 aprile 2018

STAR TREK - DISCOVERY: la prima stagione



Premetto che ho un passato da Trekkie, anche se per me Star Trek è sempre stato la serie classica, non le altre incarnazioni: se la prima è stata quasi una religione, con le altre ho una familiarità solo superficiale. Star Trek: Discovery è stata in questa prospettiva un esperimento interessante. Credo che sia riuscito ad allargare la percezione dello spettatore di quello che questo mondo è e dovrebbe essere, in fondo in qualche caso (ma non in conclusione di stagione) anche tradendo lo spirito ultimo, ottimista e pacifico, che lo anima. Se con la “parodia” di The Orville, che ho stroncato ma poi in cuor mio rivalutato perché coglie in pieno la filosofia autentica della serie originaria, ho avuto una iniziale resistenza, qui ho avuto al contrario una reazione immediatamente positiva, pur sentendo che non si era pienamente in sintonia anche quando aderiva comunque al canone: ma va bene così. Ciascuno ha una propria idea di quello che Star Trek dovrebbe essere, ma sta bene essere trascinati fuori dalla propria “zona di conforto”. 

Ideata da Bryan Fuller (che ha lasciato presto, anche a causa dei suoi impegni con American Gods) e Alex Kurtzman per CBS All Access e disponibile sul mercato internazionale su Netflix, l’ultima nata del franchise è ambientata circa 10 anni prima della serie originaria e nel corso della prima stagione si esamina la guerra fra la Federazione e i Klingon, seguendo l’equipaggio della USS Discovery.   

Michael Burnham (Sonequa Martin-Green, The Walkind Dead, in un ruolo che incarna alla perfezione), la protagonista principale – Fuller ha il vezzo di chiamare con nomi maschili i suoi personaggi femminili, scelta che non posso dire mi faccia impazzire -,  è un ex-primo ufficiale della USS Shenzhou che, ammutinata contro il suo capitano, viene arruolata dal capitano Gabriel Lorca  (Jason Isaacs, Harry Potter) sulla sua nave. È una umana che, in seguito alla perdita dei genitori, è stata cresciuta secondo la cultura vulcaniana dal padre adottivo Sarek (James Frain, Orphan Black), cosa che la rende sorella adottiva di Spock. Si sente responsabile dello scoppio della guerra e si adopera perché vi abbia fine. I Kilingoniani, ispirati dal leader T’Kuvma, in un progetto in seguito portato avanti da Voq e L’Rell (Mary Chiefo), vogliono riunire il loro impero e sconfiggere la Federazione.  

Sulla Discovery lavora come primo ufficiale il primo kelpiano della flotta, Saru (Doug Jones) che ha sul retro della nuca dei gangli che si eccitano in caso di pericolo, caratteristica essenziale per lui che appartiene a una specie di predati: ammetto che è il mio preferito. Paul Stamets (Anthony Rapp) è l’ufficiale scientifico, esperto di astromicologia, che porta a scoprire un nuovo modo di navigazione che utilizza particele di micelio; è il primo personaggio apertamente gay nella storia di Star Trek e ha una storia con l’ufficiale medico Hugh  (Wilson Cruz). A diventare presto amica di Michael è Sylva Tilly (Mary Wiseman), una cadetta all’ultimo anno dell’accademia, mentre suo interesse sentimentale diventa il tenente Ash Tyler (Shazad Latif).

Con showrunner Grechen J Berg e Aaron Harberts, la narrazione, più dark di quanto siamo abituati e fortemente serializzata in un primo arco compatto, è molto ricca di azione e di colpi di sena, ben strutturati e calibrati, e da lasciare veramente con il fiato sospeso. Poi, in sintonia con la serialità più recente, si è poco sentimentali nei confronti della sorte dei protagonisti. Se serve meglio la narrazione la loro morte, non la si esclude. Il cast è forte. Di principio si sostengono gli ideali di diversità e giustizia e si mette in guardia contro l’arroganza culturale mostrando il rischio di fraintendimenti e la difficoltà a conoscersi e integrarsi, con una funzione di commento velato alla realtà contemporanea anche, e una riflessione sulle politiche di identità. Lungo la via ci si perde in più di un’occasione: vedere l’equipaggio assentire con soddisfazione per il fatto che si sono dimostrati bravi guerrieri in considerazione del fatto che sono in realtà scienziati fa alzare più di qualche sopracciglio: nella gioia di aver vinto, questo sarebbe contemporaneamente qualcosa di cui rammaricarsi; l’abbondante tempo trascorso in uno strip club / bordello nell’ultima puntata, le troppe scene con i klingon… Si chiude con un sottofinale un po’ troppo retorico e smaccato, che comunque ci sta, e una ultimissima scena è emozionante e toccante, con un homage che commuove. Nel complesso una serie che, almeno nella sua prima stagione, non è imperdibile, ma è godibile.   

mercoledì 4 aprile 2018

FOR THE PEOPLE: nulla di nuovo


La Corte Madre, ovvero la Corte Distrettuale Federale del distretto sud di New York, è il tribunale americano più importante insieme ala Corte Suprema: questo viene detto ai giovani avvocati che, per l’accusa e per la difesa, si prestano a fare giuramento in For the People, la serie della ABC ideata da Paul William Davies e prodotta da Shondaland (Grey’s Anatomy, Scandal, Le Regole del Delitto Perfetto) - e il marchio di fabbrica si vede.

Fra i difensori pubblici ci sono l’idealista Sandra (Britt Robertson, Life Unexpected, The Secret Circle, Girlboss); la sua migliore amica Allison (Jasmin Savoy Brown, The Leftovers); e Jay (Wesam Keesh), che viene da una famiglia di immigrati e aiuta occasionalmente i suoi nella tintoria di famiglia. Come pubblici ministeri, i loro avversari sono Kate (Susannah Flood), che ricorda una versione non umoristica di Paris Gellar in Gilmore Girls, iper-organizzata che dichiara di non aver dormito più di quattro ore per notte dalle elementari e di aver sempre pensato che in paragone a lei i suoi insegnanti fossero dei pigri; Seth (Ben Rappaport) che ha una storia d’amore con  Allison; e Leonard (Regé-Jean Page), figlio di una senatrice.

Tutti loro sono ambiziosi e determinati, fortemente focalizzati sulla carriera in un mondo dove non c‘è posto per i perdenti – la serie stessa trasmette quel genere di ansia. Cercano di essere degni del prestigioso impiego che ricoprono, e sentono fortemente la pressione nello svolgerlo, desiderosi anche di provarsi agli occhi dei loro capi e mentori, che non lesinano loro lezioni di vita: Jill Carlan (Hope Davis, Wayward Pines), per i difensori d’ufficio, che ha la passione per le metafore sul baseball; Roger Gunn (Ben Shenkman), dell’ufficio del procuratore, che non è un fan dell’umiltà nei suoi sottoposti e nella vita privata è amico di Jill; e Tina Krissman (Anna Devere Smith), rigorosa cancelliera. L’aspirazione per questi giovani è anche quella di fare la differenza e mettere la propria impronta sul mondo. E alle vite personali di mescolano brandelli di vite personali.

Dei casi, risolti nell’arco della singola puntata, autoconclusiva con rispetto ad essi, vengono enucleati gli elementi essenziali, e con velocità. Affrontano questioni spinose (terrorismo, traffico di esseri umani…) e lo fanno anche con delle soluzioni eleganti (penso alla difesa di un giovane nazista in 1.02). Si è lineari, puliti, essenziali, anche negli scambi umani. Con la sola eccezione forse di Jay, un po’ più caratterizzato, i personaggi in partenza sono sagome. Si è emozionalmente piatti, nella foga di raggiungere le tappe con cui le storie vengono snocciolate. Non si sfigura, ma non c’è nemmeno grande impatto. In grande misura, nulla di nuovo sotto il sole.       

lunedì 2 aprile 2018

Steven Bochco ci lascia a 74 anni: RIP

       Credit dell’immagine: Chris Pizzello/AP/Rex/Stutterstock – da Variety


Se ne va un gigante della TV, Steven Bochco. RIP.

Su di lui, si legga su Variety, sul New York Times, su The Hollywood Reporter.  
Per la sua autobiografia su Amazon si veda qui.