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martedì 18 ottobre 2022

STRANGE NEW WORLDS: è davvero STAR TREK

Da adolescente per me Star Trek, l’originale, era praticamente una religione. Sono cresciuta con gli ideali della Federazione dei Pianeti Uniti: armonia, diversità, ricerca, scienza, esplorazione, senso del dovere, rispetto, humanism (nel senso in cui lo intende l’American Humanist Association)… Le più recenti incarnazioni del franchise non sono riuscite a cogliere l’autentico spirito di partenza, per me. ST: Discovery ha proposto intrecci interessanti, ma era proprio un’altra cosa, a dispetto del rispetto per il canone, e Picard, che pure ha avuto una solida affascinante prima stagione ha fatto uno scivolone con la seconda e, alla fine, ha avuto una sensibilità molto diversa. The Orville era più nello spirito di Star Trek di dare nuova vita alla creazione di Gene Roddenberry dei vari tentativi che ne portavano il nome. Con il nuovo arrivato, Star Trek: Strage New Worlds (Paramount+) è tutta un’altra storia. Si è forse narrativamente meno ambiziosi, affidandosi a puntate autoconclusive, ma si coglie la filosofia che animava la creazione originaria. Se la ruota funziona non è necessario reinventarla. Era l’epoca della fioritura delle Nazioni Unite e la Federazione dei Pianeti Uniti rappresentava un ideale di umanità e di civiltà. L’obiettivo primario era la ricerca scientifica, l’esplorazione di nuove civiltà, e questo finalmente ce lo si è ricordati.

Strange New Worlds ha anche tenuto alcune ingenuità dell’antenato: qualche battaglia, ma non troppe, e l’equipaggio della nave che, colpita, si aggrappa alle rispettive sedie inclinandosi a destra o a sinistra, qualche scazzottata di cui si potrebbe fare anche a meno… ma ci stanno bene anche quelle, non fosse per altro che per l’effetto nostalgia. C’è stato un momento in cui la divisa dell’ufficiale medico, pur diversa, mi ha fatto l’effetto della madeleine proustiana. È anche uno Star Trek più umano questo, meno militare e più di rilassato. Le relazioni interpersonali hanno più peso.

Visivamente c’è un upgrade notevole: ci sono un ottimo production design e una eccellente illuminazione, ma la tecnologia è giustamente coerente con il mondo che conoscevamo. Questa è l’Enterprise del capitano Christopher Pike (Anson Mount), meno una testa calda del suo successore Kirk, più posato e desideroso di creare consenso, dove possibile. Si è ben saputo recuperare le vicende che a lui erano capitate in Discovery, di cui questa serie è uno spin-off e dove lui ha avuto modo di vedere il proprio futuro, in cui sarà sfigurato e su una sedia a rotelle, con quelle della nave di Kirk, di cui questa serie è de facto un prequel. E parte della riflessione è proprio sul futuro, su quanto sia già stato scritto, su quanto le nostre azioni possono impattarlo. Primo ufficiale è Una Chin-Riley (Rebecca Romijn), che nasconde un segreto. Ritroviamo Spock (Ethan Peck), e si menziona anche la sorella che abbiamo conosciuto in Discovery. È ufficiale scientifico, ed è promesso sposo della vulcaniana T’Pring (Gia Sandhu). Nyota Uhura (Celia Rose Gooding) qui è solo una cadetta, specializzata in linguistica, e ne si costruisce e ne impariamo la backstory. Dei personaggi storici, chi risulta trasformata in qualcuna di più peperina e dinamica - e va benissimo così - è Christine Chapel (Jess Bush), l’infermiera del dottor Bones. Quest’ultimo è sempre stato il mio preferito, e non c’è, ma ha senso. Al suo posto un ufficiale medico originario del Kenya, Joseph M’Bega (Babs Olusanmokun), che pure faceva parte del canone. Compare anche un Kirk, ma non il James T. che abbiamo imparato a conoscere, ma un certo Samuel, antropologo. Il popolare capitano però è comparso in chiusura e lo rivedremo nella seconda stagione, con il volo di Paul Wesley (The Vampire Diaries). Per il poco che lo abbiamo visto, mi ha convinto. 

Ci sono anche personaggi nuovi di zecca, in questa creazione di  Akiva Goldsman, Alex Kurtzman, and Jenny Lumet, e in particolare: La’an Noonien-Sing (Christina Chong), addetta alla sicurezza e discendente del “cattivo” Kahn; Erica Ortega (Melissa Navia), timoniera; e come ingegnere capo, Hemmer (Bruce Horak), un Aenar, ovvero una Andoriano albino quasi cieco e con capacità telepatiche. Insomma, alla fine c’è un giusto mix fra nuovo e vecchio: si omaggia il passato e ne si onora la tradizione valoriale aggiornandola.

Un applauso va al casting, su più livelli. Ha fatto un re-casting dei personaggi noti molto oculato e riuscito probabilmente il più difficile di tutti era l’iconico Spock e quest’attore ereditato da Discovery ha fatto suo il ruolo senza tradire quello portato al successo da Leonard Nimoy. Strage New Worlds ha saputo essere inclusivo nel vero spirito della serie, anche nei personaggi minori. Sono rimasta favorevolmente impressionata che per interpretare Aspen, una pirata nella puntata “The Serene Squall” (1.07), abbiano scelto Jesse James Keitel (Queer As Folk). Che bella idea scegliere un’attrice non binaria per dire a Spock, in crisi fra l’essere umano e vulcaniano, che si tratta di un falso dilemma, che non importa che cosa sei, importa chi sei. Con una simile interprete il messaggio è passato due volte: tanto di cappello alla serie perché così mette in pratica quello che predica.  

In conclusione, Strange New Worlds è una visione facile, e poco serializzata per cui ci si può saltar dentro in ogni momento senza timore di non capire. Non è probabilmente quella che uno oggi chiamerebbe televisione imperdibile, ma è davvero Star Trek.

venerdì 13 aprile 2018

STAR TREK - DISCOVERY: la prima stagione



Premetto che ho un passato da Trekkie, anche se per me Star Trek è sempre stato la serie classica, non le altre incarnazioni: se la prima è stata quasi una religione, con le altre ho una familiarità solo superficiale. Star Trek: Discovery è stata in questa prospettiva un esperimento interessante. Credo che sia riuscito ad allargare la percezione dello spettatore di quello che questo mondo è e dovrebbe essere, in fondo in qualche caso (ma non in conclusione di stagione) anche tradendo lo spirito ultimo, ottimista e pacifico, che lo anima. Se con la “parodia” di The Orville, che ho stroncato ma poi in cuor mio rivalutato perché coglie in pieno la filosofia autentica della serie originaria, ho avuto una iniziale resistenza, qui ho avuto al contrario una reazione immediatamente positiva, pur sentendo che non si era pienamente in sintonia anche quando aderiva comunque al canone: ma va bene così. Ciascuno ha una propria idea di quello che Star Trek dovrebbe essere, ma sta bene essere trascinati fuori dalla propria “zona di conforto”. 

Ideata da Bryan Fuller (che ha lasciato presto, anche a causa dei suoi impegni con American Gods) e Alex Kurtzman per CBS All Access e disponibile sul mercato internazionale su Netflix, l’ultima nata del franchise è ambientata circa 10 anni prima della serie originaria e nel corso della prima stagione si esamina la guerra fra la Federazione e i Klingon, seguendo l’equipaggio della USS Discovery.   

Michael Burnham (Sonequa Martin-Green, The Walkind Dead, in un ruolo che incarna alla perfezione), la protagonista principale – Fuller ha il vezzo di chiamare con nomi maschili i suoi personaggi femminili, scelta che non posso dire mi faccia impazzire -,  è un ex-primo ufficiale della USS Shenzhou che, ammutinata contro il suo capitano, viene arruolata dal capitano Gabriel Lorca  (Jason Isaacs, Harry Potter) sulla sua nave. È una umana che, in seguito alla perdita dei genitori, è stata cresciuta secondo la cultura vulcaniana dal padre adottivo Sarek (James Frain, Orphan Black), cosa che la rende sorella adottiva di Spock. Si sente responsabile dello scoppio della guerra e si adopera perché vi abbia fine. I Kilingoniani, ispirati dal leader T’Kuvma, in un progetto in seguito portato avanti da Voq e L’Rell (Mary Chiefo), vogliono riunire il loro impero e sconfiggere la Federazione.  

Sulla Discovery lavora come primo ufficiale il primo kelpiano della flotta, Saru (Doug Jones) che ha sul retro della nuca dei gangli che si eccitano in caso di pericolo, caratteristica essenziale per lui che appartiene a una specie di predati: ammetto che è il mio preferito. Paul Stamets (Anthony Rapp) è l’ufficiale scientifico, esperto di astromicologia, che porta a scoprire un nuovo modo di navigazione che utilizza particele di micelio; è il primo personaggio apertamente gay nella storia di Star Trek e ha una storia con l’ufficiale medico Hugh  (Wilson Cruz). A diventare presto amica di Michael è Sylva Tilly (Mary Wiseman), una cadetta all’ultimo anno dell’accademia, mentre suo interesse sentimentale diventa il tenente Ash Tyler (Shazad Latif).

Con showrunner Grechen J Berg e Aaron Harberts, la narrazione, più dark di quanto siamo abituati e fortemente serializzata in un primo arco compatto, è molto ricca di azione e di colpi di sena, ben strutturati e calibrati, e da lasciare veramente con il fiato sospeso. Poi, in sintonia con la serialità più recente, si è poco sentimentali nei confronti della sorte dei protagonisti. Se serve meglio la narrazione la loro morte, non la si esclude. Il cast è forte. Di principio si sostengono gli ideali di diversità e giustizia e si mette in guardia contro l’arroganza culturale mostrando il rischio di fraintendimenti e la difficoltà a conoscersi e integrarsi, con una funzione di commento velato alla realtà contemporanea anche, e una riflessione sulle politiche di identità. Lungo la via ci si perde in più di un’occasione: vedere l’equipaggio assentire con soddisfazione per il fatto che si sono dimostrati bravi guerrieri in considerazione del fatto che sono in realtà scienziati fa alzare più di qualche sopracciglio: nella gioia di aver vinto, questo sarebbe contemporaneamente qualcosa di cui rammaricarsi; l’abbondante tempo trascorso in uno strip club / bordello nell’ultima puntata, le troppe scene con i klingon… Si chiude con un sottofinale un po’ troppo retorico e smaccato, che comunque ci sta, e una ultimissima scena è emozionante e toccante, con un homage che commuove. Nel complesso una serie che, almeno nella sua prima stagione, non è imperdibile, ma è godibile.