sabato 30 aprile 2011

UN PASSO DAL CIELO: troppo pedagogico-didascalico



In Un passo dal cielo (Rai1, domenica, prima serata) Terence Hill interpreta Pietro, il capo di una squadra del Corpo Forestale di stanza a San Candido, un paesino delle Dolomiti, in alta Val Pusteria (in Trentino Alto Adige) – le prime immagini della nuova serie prodotta da Lux Vide e RaiFiction sono proprio quelle di una carrellata dall’alto di montagne e boschi. È anche un campione di alpinismo, è vedovo e ha perso la moglie durante una scalata insieme a lui. L’hanno trovata in fondo a un crepaccio e lui è pure stato sotto processo per questo, ma (almeno all’inizio) non ricorda come sia avvenuto l’incidente e continua ad avere incubi in proposito. Come in passato per altri personaggi interpretati dall’attore, è un po’ il punto di riferimento per tutta la comunità, un brav’uomo pacato e affidabile che con cautela e perizia, e una buona conoscenza del territorio dove vive, arriva alla verità delle indagini in cui si trova coinvolto: un omicidio, un rapimento...
Purtroppo, così come la serie tutta, tende a essere anche un po’ troppo smaccatamente pedagogico-didascalico, un vezzo che si poteva accettare nei vari Lessie, Rin tin tin e Furia di anni addietro, ma che oggidì suona paternalistico, a meno di non essere specificatamente pensato per un pubblico di bambini. L’eroe che raggiunge il bracconiere che ha appena sparato a un cervo e gli tira un pugno, e che commenta la propria azione dicendo che così ora sa come si sente l’animale, che la riserva è di tutti, anche sua, e che in Africa è permesso sparare alle persone come lui – cosa avvenuta nella prima puntata, quando si è presentato il personaggio – suona un po’ da risibile spacconata, anche nobile nel contenuto, ma patetica da un punto di vista della sceneggiatura. Lo stesso accade nella spiegazioncina finale a chiusura dei casi, nei quali un primo piano è riservato ai temi dell’ambiente, degli animali e dell’ecologia.
Accettata questa premessa, è anche gradevole, con quel solito leggero umorismo all’italiana, assicurato qui in particolare dal il commissario Vincenzo Nappi (Enrico Ianniello), un poliziotto in trasferta da Napoli, a cui manca la sua città e la sua ragazza, Marcella (Valentina D’Agostino), con cui si tiene in contatto in videochiamate via Internet, e che si trova bizzarramente catapultato in una realtà completamente diversa dalla sua e inaspettata e oppone un po’ di resistenza all’apparente cameratismo (dividono anche il quartier generale) fra quelli della polizia e della forestale. Virate a un delicato umorismo sono da subito proprio le sue interazioni con un assistente della polizia, Huber (Gianmarco Pozzoli), che cita strane massime (meglio un uovo in pace che una gallina in guerra) e che non si formalizza, e con la veterinaria della forestale, la dottoressa Silvia Bussolati (Gaia Bermani Amaral) che lui crede una dottoressa per esseri umani in prima battuta (con il prevedibile equivoco di credere una mucca una paziente umana, da nome) e che se la vede comparire con al seguito un asino con il collare elisabettiano, se lo richiedono le necessità dell’animale (1.01). L’ex-boscaiolo “Roccia” (Francesco Salvi), che ha una figlia cieca, Chiara (Claudia Gaffuri), fa da braccio destro di Pietro, e sua sorella Assunta (Katia Ricciarelli), “Radio Assunta” come la chiama il fratello, è un modello di virtù domestiche che impiega come proprietaria di una malga ed è bonariamente impicciona. Pietro prende sotto la propria ala protettiva il nipote ribelle e sempre nei guai Giorgio (Gabriele Rossi, Tutti Pazzi per Amore 2) che viene messo al lavoro per essere “riformato”. Il paesaggio, calmante e lussureggiante, pure è da considerarsi un personaggio.
Forse sono stata mal disposta io, perché la recitazione mi è sembrata mediocre, sebbene accettabile, e genericamente più solida per i comprimari. La serie, ideata da Salvatore Basile, ha 12 puntate.

venerdì 29 aprile 2011

LE NOZZE DI WILLIAM E KATE: una vera favola


Non mi importava nulla di seguire le nozze di William e Kate, eppure le ho trovate emozionanti e commuoventi. La scenografia c’era tutta: sposi giovani e belli, abiti sfarzosi – con lui in alta uniforme dalla giacca rossa e lei con un abito stretto in vita e la parte delle spalle e delle braccia in pizzo, sobria e raffinata, in vago stile rinascimentale – la tiara, le carrozze… proprio da favola, nel senso più tradizionale del termine. Scommetto che da qualche parte c’era anche qualche topolino a brindare e a ballare.

Quello che per me l’ha resa autenticamente una favola però è il loro atteggiamento. Nonostante alcuni segni esterni tutt’ora resistenti e per me assai sgradevoli: la mano di lei che viene passata da un uomo che la dà in moglie a un uomo che la prende in moglie, passando attraverso quella dell’arcivescovo (se non è un simbolo retaggio della proprietà patriarcale sulla donna quello non so quale lo sia); il fatto di dichiarali “man and wife” (uomo e moglie) anziché “husband and wife” (marito e moglie), come disgustosamente prevede talvolta, come in questo caso, il rito anglosassone; il fatto che solo lei abbia ricevuto l’anello nuziale, perché lui non ne vuole sapere di portare la fede, si dice – io credo che la reciprocità sia la cosa più romantica e che lui poteva ben accettarla per il tempo della cerimonia e togliersi la fede nella vita quotidiana, se tanto gli dava fastidio… nonostante alcuni segni sgradevoli dicevo, compensati da altri di modernizzazione (niente “obbedienza” a lui per lei, come già per Diana; il fatto che lei non sia di “sangue nobile”;  il fatto che abbiano convissuto prima; la presenza di una coppia gay sposata fra gli invitati), è stato l’atteggiamento dei nubendi a renderla davvero una favola.

Sono stati la felicità che si leggeva sui loro volti, l’evidente amore l’uno per l’altra e il loro senso di complicità a rendere questa una favola. Non è stata la finta favola di un matrimonio combinato dove lui era piegato alla volontà di qualcun altro e lei era inesperta e timorata. È stata la decisione matura di due persone che si sono scelte e che si conoscono bene. Regali entrambi, e sicuri di sé entrambi. Persone che hanno preso una decisione consapevole e reciproca. Non c’è niente di più romantico, per quel che mi riguarda.

Ho seguicchiato solo Rai1 e Canale5.
Canale5 ha puntato più sul gossip, con Cesara Buonamici a fare bene da timone per Signorini, e una Parodi in trasferta molto adeguata nelle sue osservazioni. Mi è piaciuto che abbia sottolineato che Kate è una donna determinata che sa quello che fa, non una ragazzina timida, ma che questo appunto non rende la sua di meno una favola – sempre che avere un favola sia desiderabile -  semmai, aggiungo io, la sgancia da quello che una favola dovrebbe essere. Per una volta la Parodi, che tende solitamente a essere abbastanza sessista, ha saputo un po’ rispondere per le rime a Signorini per cui non ci sarebbe stata favola per il fatto che la sposa non tradiva sufficiente emozione, secondo lui. Le emozioni che avrei avuto interesse a indagare io, per quel che mi riguarda, sono quelle di Carlo. Chissà che cosa è stato per lui questo momento.
Rai1 è stata più ufficiale, e un po’ più soporifera, scegliendo di parlare anche in momenti inadeguati (avrei voluto sentire il benvenuto del decano che parlava del significato delle nozze).
Canale5 ha optato per i sottotitoli (meglio), Rai1 per una traduzione che mi ha lasciato interrogare se i traduttori avessero mai sentito una versione decente della formula nuziale, una cosa piuttosto standard, invece di quella improbabile, in certi passaggi, con cui hanno deciso di renderla.

Una bella cerimonia, che non avevo interesse a seguire nei dettagli, probabilmente eccessivi, che la copertura mediatica ha assicurato, ma che ha una ragione d’essere: per una volta è una notizia positiva, di festa, di gioia, di un uomo e di una donna che sembrano amarsi autenticamente.

Non a tutti è stato gradito, come si può notare da una impagabile foto, ma da “Today”, ecco il momento del bacio, il vero “money shot” come lo ha chiamato Meredith Viera senza troppe cerimonie:


giovedì 28 aprile 2011

TREME è tornata sulla HBO per una seconda stagione




Sull’americana HBO il 24 aprile è tornata, per la sua seconda stagione, la serie-gemma per ora inedita da noi, ideata da David Simon (The Wire) ed Eric Overmyer, Treme, ambientata nell’omonimo quartiere della New Orleans post-Katrina.

Si è ripreso, con una puntata intitolata “Accentuate the Positive”, dal primo novembre 2006, nel giorno di Ognissanti, a quattordici mesi dall’uragano e a circa sette mesi dagli eventi che hanno concluso la prima stagione, e il nucleo forte e l’estetica del programma non sono cambiati. I numerosi personaggi protagonisti sono legati da quello che costituisce l’identità del posto: la sua intensa scena musicale, la sua cucina, le sue tradizioni culturali - nella prima stagione, ad esempio, ci si è concentrati sul Mardi Gras e sulla “second line”, una caratteristica delle bande degli ottoni della città dove i musicisti sono affiancati da persone che ballano (anche con parasoli e fazzoletti) durante i cortei funebri. Gli eventi narrati sono minimi, spesso apparentemente insignificanti, quasi sbriciolati, con lunghi pezzi in cui a parlare è solo la musica. Dettagli e atmosfera, intensamente definiti. A volte sembra che non accada nulla, ma con l’accumulo delle puntate il senso degli eventi e delle vite è molto forte, e ti assorbe.

È una lettera d’amore alla città, e  ritornano i temi che sono stati cari al programma in passato: l’uragano non è stato solamente un danno causato dalle forze della natura, ma anche dall’uomo, e New Orleans è una città indispensabile, la cui ricostruzione è necessaria ed essenziale, a meno di non rischiare di perdere qualcosa di inestimabile. E questo aspetto, e il senso di scoperta di qualcosa di unico, è incarnato da subito da un nuovo personaggio, Nelson Hidalgo (Jon Seda), un costruttore che vuole cominciare a fare affari qui e che viene subito affascinato dei luoghi.

Da quest’anno a scrivere le storie del telefilm partecipa anche Anthony Bourdain e il suo approccio alla cucina e al cibo si è notato da subito nelle scene con Jeanette Desautel (Kim Dickens), la cuoca che aveva dovuto chiudere il suo ristorante e lasciare la città perché ormai era in bolletta, e che si ritrova ora alle dipendenze di un esigente e mercuriale chef in un ristorante di New York.

Il momento più intenso della puntata d’apertura di questa seconda stagione, uno che confesso mi ha commossa, è stato quello della giovanissima Sofia che sembra aver ripreso il videoblog del padre, scomparso nella scorsa stagione (in quello che per me è stato uno degli eventi televisivamente più dolorosi e veri dello scorso anno) e di cui in questo modo tiene viva la rabbia e il ricordo. La madre, l’avvocato Toni Bernette (Melissa Leo) pure deve fare i conti con la perdita del marito, ed è preoccupata per la figlia, tanto da non volersi caricare di eccessivo lavoro, che comunque continuiamo a seguire. Il tenente Terry Colson (David Morse), già apparso brevemente lo scorso anno, pure torna e verrà sviluppato maggiormente. I brevi scambi fra lui e Toni sono stati preziosi e lasciano sperare in un approfondimento. 

La violinista Annie (Lucia Micarelli) ora frequenta il DJ Davis McAlary (Steve Zahn), sempre uno dei personaggi più spassosi e divertenti della serie: le scene qui in cui fa le pulizie di casa per il ritorno di Annie che è stata in tour, buttando via i piatti sporchi e soffiando sul tavolo per togliere la polvere accumulata,  sono davvero la sua quintessenza. Sonny (Michiel Huisman), l’ex-di Annie, c’è ancora, e sono curiosa di vedere come sviluppano la loro relazione. La moglie di Antoine Batiste (Wendell Pierce), il cuore jazz del programma, continua a pressarlo perché si trovi un vero lavoro e la sua ex LaDonna (Khandi Alexander) ha sempre l’attività del suo locale nonostante apparentemente non ci sia nulla a trattenerla a quei luoghi. Il “capo indiano” Albert Lambreaux (Clarke Peters) all’improvviso si ritrova senza un luogo dove vivere, mentre suo figlio Delmond (Rob Brown) riscopre le sue radici legate alla città proprio attraverso la musica che suona come trombettista.

La Treme che abbiamo imparato ad amare insomma c’è tutta e l’incipit del nuovo segmento non delude. Rinnovata è anche la sigla, che mantiene la magnifica canzone, ma cambia in numerose  immagini.

Sopra, un promo.


mercoledì 27 aprile 2011

Tre in competizione per LA TORTA DI NOZZE PERFETTA



In The Great Cake Bake (Wedding TV), tradotto “La torta di nozze perfetta”, uno di quei programmi che tengono udibile la traccia sonora originale su cui parla la traduttrice, si chiede a una futura sposa di descrivere la sua torta di matrimonio ideale e poi si lancia una competizione fra 3 diversi pasticceri - di cui non viene detto solo il nome, ma anche una piccola biografia professionale - che raccontano come vogliono realizzare il progetto e perché lo interpretano in un certo modo, spiegano parte dei passaggi necessari e in conclusione presentano il lavoro finito.

Delle tre torte, messe una accanto all’altra, la sposa deve scegliere quella che la convince di più, e non è una scelta facile perché sono tutte di solito talmente spettacolose che le si vorrebbero tutte. È una formula asciutta, ma convincente, presentata da Sian Lloyd, gallese, nota nel Regno Unito soprattutto come apprezzata (e premiata) meteorologa.

martedì 26 aprile 2011

DESTINATION WEDDINGS: matrimoni di miele



Destination Weddings (su Wedding TV, canale 426 del satellite) ha il difetto di sembrare uno lungo spot promozionale, ma le visite ai resort per luna di miele nei paradisi tropicali di Giamaica, Antigua, St.Lucia e Turks e Caikos, ma anche in posti come Cipro, Santorini o Montecarlo sono sicuri di lasciare a bocca aperta chiunque. Uno dei luoghi, tanto per far capire il genere di ambienti che si descrive (con interviste dei responsabili e di coloro che ci lavorano), è una struttura di 22 ettari con parco acquatico, 3 diversi villaggi, 16 ristoranti, una convenzione con Martha Stewart e con il programma Sesame Street per apposite attività ricreative per i bambini. Non è solo pensata per evitarsi lo stress di trattare direttamente con i 43 fornitori di servizi che dicono essere il numero medio con cui si deve aver a che fare per l’organizzazione, ma per avere proprio un “matrimonio di miele”. Per chi ha il portafoglio adeguato è un suggerimento, per gli altri un modo per sognare location mozzafiato.

venerdì 22 aprile 2011

OUR AMERICA with Lisa Ling: serie documentaristica di pregio



È davvero una buona notizia che abbiano rinnovato per una seconda stagione Our America with Lisa Ling, perché è una serie documentaristica davvero pregevole. Da poco andata in onda negli USA su OWN TV, il canale di Oprah Winfrey, tratta argomenti difficili e controversi e lo fa con tatto ed empatia. Spero arrivi prima o poi anche in Italia perché merita davvero.

“L’America, può essere di ispirazione e bellissima, ma anche oscura e brutta. È così tante cose, ma è nostra. È la nostra America”: dice così la sigla del programma che guarda a realtà marginali e spesso dolorose, e mette a fuoco le situazioni dando loro il volto di gente comune, rendendo personali e vissuti i problemi. Nella prima stagione si è guardato alla realtà dei “faith healers” (1.01) i guaritori per mezzo della fede cioè, alle persone transgender (1.02), agli abusanti sessuali (1.03), a quelli che aspirano a “guarire dall’omosessualità” attraverso la preghiera (1.04), alle mogli trovate via catalogo (1.05), a persone che hanno avuto la vita stravolta dall’eroina (1.06).

Lisa Ling non giudica, ma cerca di capire, cerca di cogliere la prospettiva delle persone coinvolte, anche quando cerca di sfidarne le posizioni - “che cosa risponde alle persone che dicono la tal e tal altra cosa?”, sentiamo spesso la giornalista chiedere - e anche quando non è facile mantenersi neutrali e rispettosi. Parlare con un trentenne che ha obbligato due bimbe, una di 6 e una di 10, a fare sesso orale su di lui e, per quanto si sia pentito, cercare di capire il suo punto di vista, non è sicuramente facile. E lo è ancor meno essere la donna che lo ha sposato e che gli sta accanto e che già aveva una bimba di due anni, e con cui ha deciso di avere un altro figlio. Eppure, vederne la prospettiva è umanamente interessante.

Il programma non nasconde i problemi e ci mostra che non dobbiamo nasconderci noi. Capire queste cose, aiuta anche a superare paure, talvolta infondate, ed eventualmente ad affrontarle con maggiori cognizioni di causa. Parlare con una donna che non ha il soldi per pagarsi il trattamento contro il cancro alla vulva e che al posto si affida alla preghiera di un guaritore, o vedere la speranza spezzata per l’ennesima volta di un uomo che, sulla sedia a rotelle, ha sognato che si sarebbe alzato e avrebbe camminato se la sua fede fosse stata assoluta, è emotivamente coinvolgente e la Ling mantiene un distacco tale da permetterle di svolgere bene il proprio lavoro, ma non è un automa, si lascia coinvolgere e ne viene emotivamente provata. Lo lascia trasparire.

La prospettiva è anche spesso multipla: per un abusante, si mostra anche la prospettiva di una abusata; nel raccogliere la testimonianza di persone transgender si parla con donne che vogliono diventare uomini e con uomini che vogliono diventare donne, con bimbi e persone mature, con persone che hanno appena iniziato un percorso di trasformazione e altre che sono già avanti; per un uomo che dice di essere guarito dalla omosessualità attraverso la preghiera si mostra un ragazzo che viene spinto dalla propria fede ad accettare la propria omosessualità – e questa nello specifico è una tematica che è stata ulteriormente approfondita attraverso il sito web, non credendo Lisa Ling, chiaramente che l’omosessualità sia qualcosa da dover curare.

Our America è una visita ai margini della società che, per il modo in cui è realizzata, dilata la comprensione di che cosa significa essere degli esseri umani.




giovedì 21 aprile 2011

Le 100 persone più influenti secondo il TIME



Il Time ha stilato la sua annuale lista delle cento persone più influenti: artisti, attivisti, ricercatori, capi di stato, capitani d’industria, riformatori…

Rispetto al piccolo schermo sono stati inclusi: Amy Poehler, comica e attrice di Parks and Recreation; Matthew Weiner, l’ideatore di Mad Man, che Elisabeth Moss (Peggy in Mad Men) definisce “un vero artista, un ricercatore della verità. Ha messo uno specchio non solo davanti a un periodo storico, ma davanti a noi e ci ha domandato di guardarci (sia che fossimo belli o brutti, buoni o cattivi), di guardare alle nostre debolezze e, cosa più importante, di guardare a quello che ci rende grandi. Essenzialmente a ciò che ci rende umani”; Saad Mohseni, descritto come la figura più influente dei media afgani: non ha avuto paura di far sì che in TV ci fossero donne, oltre che uomini, una pratica non ammessa dai talebani, e con programmi come il talent-show Afghan Star è andato contro le convenzioni con un impatto positivo sulla vita di molte donne; Joe Scarborough, presentatore del Morning Joe, un programma mattutino; Blake Lively, l’attrice che interpreta Serena in Gossip Girl; Oprah Winfrey, la conduttrice di talk show e pioniera della televisione; Rain,  pop star e attore coreano; Mia Wasikowska, che al cinema conosciamo per aver dato il volto alla più recente versione di Alice nel Paese delle Meraviglie, ma che abbiamo prima conosciuto sul piccolo schermo con In Treatment; Chris Colfer, l’attore che interpreta Kurt in Glee; Rebecca Eaton, produttrice televisiva (Masterpiece della PBS); Ayman Mohyeldin giornalista televisivo egiziano. Anche se sono cantanti, li conosciamo molto anche attraverso i video e la televisione in generale, per cui forse una menzione in questo contesto meritano anche Justin Bieber, Bruno Mars e Sting.

Foto: Matthew Weiner fotografato da Justin Stephens per il  Time.

mercoledì 20 aprile 2011

BEAUTIFUL: la nuova sigla




Noi per vederla dobbiamo aspettare ancora qualche mese, ma negli USA ha debuttato a febbraio la nuova sigla di "Beautiful". A me convince: c'era bisogno di un rinnovamento.

lunedì 18 aprile 2011

FIORI COLORI E DECORI: laboratorio del fai da te



Fiori colori e decori è il laboratorio di Silviadeifiori (al secolo Silvia Lora Ronco) che, dietro a una tavolo, su Wedding TV (Canale 426), insegna a creare con appunto fiori delle decorazioni per la festa (che sia un centrotavola o un cuscino delle fedi o quant’altro).

Sono perplessa all’idea di realizzare con il fai da te certi addobbi per occasioni così importanti, perché a meno di non essere veramente abili, il rischio è che ne esca qualcosa di approssimativo con gran spesa. Lei è brava però e i risultati, almeno in TV, sono notevoli.

Sentirlo è stato un divertimento gratis, ma eviterei di dare, senza ironia, indicazioni come quella di andare a rubare delle foglie di aspidistra dalle portinerie dei condomini approfittando del “favore delle tenebre” (parole sue), per realizzare i propri progetti.

giovedì 14 aprile 2011

AMC e OLTL cancellate!



Devo ammetterlo, sono scioccata, e dispiaciuta: è appena stata diffusa la notizia che la ABC ha cancellato tanto All My Childeren (La Valle dei Pini), quanto One Life To Live (Una Vita da Vivere). AMC ha debuttato il 5 gennaio del 1970 e terminerà nel settembre del 2011; OLTL ha esordito il 15 luglio del 1968 e chiuderà i battenti nel gennaio del 2012. La sola soap a rimanere nel line-up della ABC è ora General Hospital.

A sostituire le due soap storiche, entrambe ideate da Agnes Nixon, saranno The Chew, un talk show sul cibo in tutti i suoi aspetti, e The Revolution, una competizione sul perdere peso. Su Daytime Confidential trovate il comunicato stampa intero, in cui si dice tra l’altro:

“‘All My Children’ ha ruotato intorno alle vite dei residenti di Pine Valley, una città di finzione che assomiglia da vicino alla Main Line di Philadelphia. ‘All My Childen’ ha portato a casa il Premio Emmy come Miglior Serie del Daytime nel 1998, la terza volta che il programma ha ricevuto il massimo onore, avendolo anche conseguito nel 1994 e nel 1992. ‘All My Children’ ha ricevuto più di 30 Emmy Awards e si è distinta con costanza nel campo dei daytime drama. Lo show storicamente si è impegnato e è stato spesso il primo a trattare questioni sociali, focalizzandosi su argomenti come l’AIDS, l’aborto, gli impianti cocleari, l’alcolismo degli adolescenti, i pregiudizi razziali, lo stupro da parte di conoscenti, l’abuso da parte del coniuge, l’omosessualità, la sindrome di Reyes, i Dispersi In Azione del Vietnam, l’abuso di droghe, i rischi della maternità dopo i 40 anni, il sesso sicuro, la pet therapy e la donazione degli organi, fra le altre cose. Lo show ha fatto la storia della televisione mandando in onda il primo bacio fra persone dello stesso sesso nella televisione del daytime fra due personaggi lesbici, così come il primo matrimonio fra persone dello stesso sesso fra due donne nella televisione del daytime. È stato il primo a fare la cronaca del coming out di una donna transgender e a inserire nel cast un veterano della Guerra in Iraq nella vita vera la cui storia rifletteva le sue reali esperienze nella vita reale e le ferite che ha subito in combattimento.”

“‘One Life to Live’ è stata lodata per la sua esplorazione senza precedenti di questioni sociali, per il canovaccio vario, per interpretazioni che sono state premiate e storytelling innovativo. Insieme alla settimana di programmazione live nel maggio 2002 che ha fatto storia, ‘One Life To Live’ è responsabile per molte ‘prime volte’ della televisione del daytime, incluse storie di amore interrazziale, analfabetismo, diagnosi mediche sbagliate, pregiudizio razziale, violenza delle gang e gravidanze di adolescenti. Il programma ha ricevuto il plauso critico di massa per la sua storia sull’omofobia del 1992, che ha catturato i titoli di testa nazionali quando ha introdotto il personaggio di un adolescente gay (interpretato dall’allora sconosciuto Ryan Phillippe) e ha culminato con la commovente esposizione  della Names Project AIDS Memorial Quilt. ‘One Life to Live’ è stata onorata dalla Gay and Lesbian Alliance Against Defamation (GLAAD) con il Premio per il Miglior Drama del Daytime nel 1993, e di nuovo nel 2005 e 2010.”

Che giorno triste per le soap opera e per tutti quelli che amano questo genere. 


 

mercoledì 13 aprile 2011

LIP SERVICE: lesbiche a Glasgow



Lip Service è una serie inglese (BBC3), in onda da venerdì 15 aprile anche in Italia in prima TV su FoxLife (ore 22.45), che ha come protagoniste un gruppo di lesbiche che vivono nella piovosa Glasgow, in Scozia. È la prima creazione fatta appositamente per il piccolo schermo del Regno Unito che abbia come protagonista il mondo saffico—tratta da un romanzo c’era stata altrimenti Tipping the Velvet, nel 2002—ed è stata voluta proprio anche per colmare una lacuna nella rappresentatività. Come riporta il Guardian, infatti, uno studio sui programmi della BBC ha mostrato che “alle lesbiche erano dati solo due minuti di trasmissione in una selezione casuale di 39 ore di programmazione”. L’ideatrice Harriet Braun è naturalmente consapevole dell’eredità tanto di The L Word, la prima serie lesbica in assoluto, americana, quanto di Queer As Folk, la prima serie gay britannica, di cui sentono gli echi più volte.

Le protagoniste principali sono tre. C’è Francesca “Frankie” (Ruta Getmintas), una fotografa, che come tipo richiama subito alla mente Shane di The L Word, per il taglio di capelli, per l’aspetto un po’ androgino, per il modo di usare il sesso: Frankie ha sul polso un tatuaggio che significa “lust”, lussuria. Parte delle vicende, che iniziano con lei che torna da New York dopo due anni di assenza, la vedono scavare nel suo passato alla ricerca della sua identità, dopo che la morte della zia le fa venire dei dubbi sulle sue origini. Cat (Laura Fraser) è la ex di Francesca. È un’architetto, e sul lavoro comincia a subire le pressioni del capo, quando questi si rende conto che a lei piacciono le donne. Cat instaura una relazione con una poliziotta, Sam (Heather Peace), ma fra lei e Frankie c’è ancora dell’irrisolto. Tess (Fiona Button) infine è un’attrice che, in attesa del gran colpo professionale, si divide fra lavoretti qui e là e audizioni. In amore è sfortunata.

Pur mostrando frequenti scene di sesso molto esplicito, Lip Service si concentra prevalentemente sulle relazioni. Evita di affrontare grandi “tematiche lesbiche”, presenta donne nella vita di tutti i giorni, con alti e bassi, quasi nella monotonia. È la sua forza, ma anche il suo difetto, e se ha ricevuto critiche negative è proprio perché è stata “tediosa da essere disabilitante per lo spirito”, come l’ha messa l’Indipendent che l’ha accusata duramente perché le storie di queste donne importerebbero “puramente a causa delle loro preferenze sessuali. Questo è immaturo, condiscendente e irrealistico”. All’inizio in particolare è proprio così, ci si annoia, ci si chiede che senso abbia seguire storie in fondo inutili. C’è qualche momento in cui la serie brilla, e penso alla scena in cui Frankie vede per la strada Cat che bacia Sam (1.03), o al bel finale della festa di compleanno a sorpresa per Tess (1.05), che per altro non può non far ricordare quello di Queer As Folk, ma sono di più le volte in cui si ha la sensazione che il grigiore del clima si sia trasferito sulla pagina scritta. Il dialogo e gli intrecci sembrano piatti. A mano a mano che ci si avvicina alla fine della prima stagione però (in un totale di soli 6 episodi), tutto si gusta di più perché, come è sempre nel caso di programmi fortemente concentrati sulle relazioni umane, si conoscono i personaggi e anche gli scambi apparentemente banali hanno una pregnanza maggiore.

Qualcuno si è lamentato dell’assenza di lesbiche butch, notoriamente sottorappresentate a favore delle più etero-friendly lipstick lesbians, ma in realtà sono stati molto attenti a mostrare donne che non fossero troppo “tirate” e patinate, ma che sembrassero persone comuni, e mi pare che ci siano riusciti. Ugualmente si è valutato negativamente il fatto che ad un certo punto nella storia Frankie vada a letto con un uomo (1.04), il suo amico Jay (Emun Elliott), perché è stato giudicato come se si volesse far passare il messaggio che le lesbiche sono tali solo finché non arriva qualcosa di meglio (un uomo) e un modo per accattivarsi le simpatie del pubblico maschile eterosessuale. In realtà io non ho avuto questa impressione. Mi è parso coerente con la storia. Frankie era emotivamente in un momento molto cupo della propria vita, aveva appena contemplato la possibilità di togliersi la vita, e c’era di mezzo dell’alcool. Lei e Jay sono stati mostrati come amici molto intimi da subito e quel momento è stato solo un aggrapparsi l’uno all’altra come esseri umani, né di più né di meno, per come l’ho vista io. Un elemento che è stato introdotto con consapevolezza e che è molto ben riuscito, e che non ho mai visto prima, è proprio l’amicizia fra donne gay e uomini etero. A questo proposito spicca in particolare l’amicizia fra Tess e Ed, il fratello di Cat, uno scrittore, un ragazzo molto dolce che di Tess è segretamente (almeno all’inizio) innamorato.  

La recitazione è buona. Il titolo, applicato qui, devo ammettere che proprio non lo capisco. “Lip Service” significa baciare, ma in inglese ha anche il significato di essere d’accordo con qualcosa solo a parole, di fare promesse vuote, ma la serie mi sembra che non faccia solo lip service al mondo saffico, tutt’altro. In definitiva una serie altalenante: non eccellente, ma nemmeno da evitare.

 

domenica 10 aprile 2011

CAPRICA: una space opera riuscita



Caprica, in onda su Steel (lunedì, ore 22.40), è il prequel di Battlestar Galactica, ambientato 58 anni prima: le dodici colonie sono in pace, e i cyloni (robot sofisticatissimi che finiranno per ribellarsi agli umani) ancora non sono stati inventati. A farlo sarà Daniel Graystone (Eric Stoltz), grazie anche alla figlia Zoe (Alessandra Torresani) che prima di morire in un attentato terroristico aveva realizzato una copia virtuale di se stessa. Joseph Adamo (Adama in originale), padre di quello che sarà il comandante William Adamo, è un avvocato.

Mi piacciono le storie, costruite in modo forte e asciutto in un arco. La serie è ideata da Ronald D. Moore, Remi Aubuchon, David Eick, ma si coglie anche l’influenza di Jane Espenson (soprattutto in come si sviluppano i personaggi che diventano a poco a poco padroni di se stessi - penso a Tamara), e si vede che lei è una “alunna” di Whedon. È Galactica con una spruzzata di Max Headroom e de I Soprano. Galactica è post-apocalittico, Caprica è una civiltà nel suo picco massimo che pianta semi per il suo futuro distopico. Funziona bene come space opera, con elementi di fantascienza mischiati con relazioni familiari (fra genitori e figli in particolare), intrighi e commento sociale e politico (esplicitamente l’11 settembre e il terrorismo, ma anche il ruolo della tecnologia, il successo, la comunicazione, le relazioni di potere, la religione, l’educazione dei giovani).

Il look anni ’40-’50-’60 (che amo), intrecciato agli elementi futuristici (come oggetti del futuro, non elementi del movimento del Futurismo, chiaramente) è piuttosto appropriato nel senso sia che pur essendo ambientato nel futuro dà la sensazione di passato rispetto ad un futuro ulteriore che è quello di Galactica appunto, sia perché la serie evoca temi che sono distintivi dell’America di quegli anni: un certo senso di reale o immaginata innocenza, il vago rendere romantico del gangster, le tensioni razziali e culturali e i movimenti per i diritti civili… e allo stesso tempo dà per scontati e come non-conflittuali altre realtà sociali, come le relazioni gay o i matrimoni plurimi.

Come tutta la miglior fantascienza riesce al meglio come allegoria e metafora. Il tema principale è quello dell’identità: uomo vs. macchina, virtuale vs, reale, di Tuaron vs. di Caprica… che cos’è che ci rende umani e come definiamo l’essere umano? Il corpo, la mente, l’anima, originali e copie, tradizioni e rituali… tutti argomenti filosofici.

Mi piace molto anche il fatto che a poco a poco emerge una mitologia ben sviluppata. Il programma è godibile di suo, ma in più, considerato che sappiamo che cosa viene dopo, nel futuro che è quello che accade in Battlestar Galactica, riusciamo ad aggiungere agli eventi un’altra dimensione e vediamo come specifiche azioni porteranno a determinate conseguenze (la distruzione delle 12 colonie, la ribellione dei cyloni, Adamo) che a questo punto non sono ancora prevedibili.

Occasionalmente la scrittura è piuttosto ingenua, per non dire cattiva, e la cinematografia è povera – o almeno potrebbe essere meglio – non nel complesso vengo molto intrattenuta e genuinamente stimolata a riflettere su questi temi. E la parte geek di me ama molto anche i gadget che i personaggi hanno. Sono così pronta ad averli anch’io!


venerdì 8 aprile 2011

SEX THERAPY: terapie sessuali di coppia



Il sesso in TV è un po’ ovunque, ma quando si tratta di affrontarlo seriamente, fuori da MTV praticamente tutti si defilano. Anche per questo è apprezzabile Sex Therapy (Cielo, mercoledì, ore 23.00) che parla con delicatezza e rigore di problemi e insoddisfazioni legati alla sfera sessuale.

Ogni puntata è dedicata a una coppia diversa che si rivolge al programma per recuperare o migliorare l’intesa grazie all’aiuto di due esperti: Barbara Florenzano, psicologa, sessuologa e docente di sessuologia, e Fabrizio Quattrini, psicoterapeuta, sessuologo e presidente dell’Istituto Italiano di Sessuologia Scientifica. Lei tratta con le donne e lui con gli uomini – che io abbia visto fin’ora si è trattato solo di coppie eterosessuali -, e poi ci sono momenti in cui danno i propri suggerimenti professionali come squadra ad entrambi. Tutti e due in pantaloni e giacca neri e camicia bianca, arrivano a piedi camminando uno accanto all’altra come una “squadra intervento”. Fanno brevi colloqui, anche esplicativi per chi è a casa, e danno “compiti per casa”, a tappe, seguendone i risultati. Un terzo esperto, in materia diversa (che potrebbe essere la ginnastica o la cucina, per esempio), pure dà qualche consiglio. E i due psicologi – che da profana mi paiono bravi - commentano anche il percorso esperienziale che riavvicina i due amanti con la conduttrice Barbara Gubellini, mentre in sovrimpressione si danno pertinenti informazioni di tipo statistico o genericamente scientifico.

Immancabilmente ho pensato che la gente si risparmierebbe molti problemi con un po’ di fantasia e spirito ludico in più, ma è vero che è facile dirlo con la vita degli altri. Le telecamere in camera da letto sono al buio e anche quando ci sono corpi nudi non si cade mai nella pornografia. Mai pure mi sono parsi inappropriati nei confronti dello spettatore, né si rischia di sentirsi dei guardoni. Fossi io, non mi importerebbe degli estranei, ma avrei pudore all’idea che mi vedesse chi conosco. Trovo perciò coraggiose in fondo queste coppie disponibili a esporsi così, fungendo un po’ da modello per altri che potrebbero trovarsi nella stessa situazione.

mercoledì 6 aprile 2011

REALITY in una domanda di ammissione al college: è polemica



Recentemente c’è stata una polemica, negli Stati Uniti, perché nel test di ammissione al college, il SAT, realizzato dallo stimato College Board, che raccoglie 5600 istituzioni accademiche, è stata inserita una domanda relativa ai reality. Subito sono nate battute e accuse di abbassamento del livello culturale del test e si è fatto sentire lo scontento di quei genitori che ritengono deleterio per i propri figli non solo i reality, ma la televisione in generale. Il College Board ha difeso la propria posizione.

Una parte del test consiste sempre nello svolgimento di un tema. Il titolo del tema da svolgere contestato era:

 
I programmi reality, che hanno come protagonisti persone vere impegnate in vere attività piuttosto che attori professionisti che interpretano scene da un copione, sono sempre più popolari. Questi programmi ritraggono persone ordinarie che competono in tutto, da cantare a ballare a perdere peso, o semplicemente mentre vivono la propria vita quotidiana. La maggior parte delle persone crede che la realtà che viene rappresentata in questi programmi sia autentica, ma vengono tratte in inganno. Quanto autentici possono essere questi programmi quando i produttori progettano le sfide per i partecipanti e poi gli editor alterano le scene filmate? La gente trae beneficio dalle forme di intrattenimento che mostrano la così-detta realtà, o tali forme di intrattenimento sono dannose?
Laurence Bunin, vice presidente senior del College Board, ne ha difeso la posizione dicendo che quello che era necessario per rispondere bene era saper scrivere e argomentare la propria tesi, e che non era necessario guardare i reality per avere una posizione da difendere, allo stesso modo in cui uno studente chiamato a scrivere su una scalata in montagna, e a dire se siano maggiori i rischi nel farlo o la ricompensa di raggiungere la cima, non deve necessariamente aver scalato la montagna per fare delle riflessioni sull’argomento. Si rendono conto che non tutti gli studenti guardano i reality, né vogliono incoraggiarli a farlo, ma ritengono che la maggior parte sia in grado di cogliere il senso della domanda e sia interessata agli argomenti di sottofondo: “gli effetti della televisione sulla società; il desiderio di fama e celebrità da parte di ‘persone ordinarie’; e l’autenticità e il valore delle varie rappresentazioni ‘realistiche’—un tema centrale nello studio della pittura, del cinema, del teatro e della letteratura”.

Altri hanno difeso la traccia del tema, ma con argomentazioni ben diverse da quelle di Laurence Bunin. In sintesi: certo che era necessario aver visto i reality per difendere la propria argomentazione, ma questo non è necessariamente una cosa negativa. Kyle Spencer, in un articolo del Daily Beast, scrive: “(l)a televisione è la forma di espressione culturale più dominante nel nostro Paese, e batte il cinema, le pubblicazioni della stampa, e i libri, secondo una ricerca della Compagnia Nielsen. Più di 280 milioni di persone giovani e vecchie si sintonizzano quotidianamente”, e continua, “sebbene le cifre della Nielsen come questa—che l’Americano o l’Americana medio/a trascorre il 20 per cento della sua giornata guardando la televisione—possano sembrare allarmanti, l’esistenza sempre-presente della televisione nelle nostre vite è un fatto. E non può più essere ignorato.” Naturalmente nessuno ritiene che bambini e ragazzi (o adulti di per sé) debbano passare uno sproposito di ore davanti al piccolo schermo, e non aprire mai un libro, ma è importante che guardino anche la TV se vogliono essere in grado di relazionarsi al mondo circostante, e con quello che guida, influenza e connette molte delle persone intorno a loro. L’atteggiamento compiaciuto del genitore che dice che il proprio figlio non guarda la TV non è da approvare, perché “crescere un figlio che non sarebbe stato in grado di rispondere a quella domanda del SAT è crescere un isolato luddista che troverà difficile contribuire alla democrazia in cui viviamo”.

Nell’articolo sopraccitato, si portano a sostegno della propria tesi—che io peraltro condivido, così come quelle che seguono—alcune autorevoli voci. Robert Thompson, direttore del Bleier Center for Television and Popular Culture della Syracuse University, concorda, dicendo che non si può essere cittadini impegnati senza aver a che fare con questi aspetti della cultura. Tessa Jolls del Center for Media Literacy (Centro per la Alfabetizzazione sui Media), ritiene che la stessa questione “TV o non TV” sia ormai superata. Quello che è necessario è insegnare ai ragazzi a consumare la televisione in modo intelligente, con la consapevolezza che c’è qualcuno che costruisce quello che stanno guardando e decide che cosa mostrare e che cosa no. L’alfabetizzazione sui media è una assoluta necessità, e non dare ai ragazzi gli strumenti critici necessari significa lasciarli in una situazione di svantaggio. Lynne Joyrich, professore associato del Dipartimento di Cultura Moderna e Media della Brown University, sostiene che è doveroso cercare di capire la televisione, perché è la lente attraverso cui gli americani vedono il mondo. Per come la vede lei, i reality nello specifico potranno sembrare frivoli, ma affrontando questioni complesse come la competizione, l’ambizione, l’essere motivati, come affrontare pericoli, come cooperare e negoziare e mettono lo spettatore di fronte a temi che normalmente non affronterebbero. Hanno a che fare in definitiva con le modalità con cui si è parte del mondo e non chiedere ai ragazzi di decostruire quello di cui fanno esperienza guardando la TV rischia di renderli ingenui e vulnerabili, cosa pericolosa vista l’ubiquitarietà del piccolo schermo.

Non posso che vedermi d’accordo, e, mutatis mutandis, le stesse osservazioni ritengo siano applicabili alla realtà italiana.

Fonte: The Daily Beast; Foto: Corbis; MTV; Fox.


martedì 5 aprile 2011

GAME OF THRONES: un assaggino in anteprima




Domenica 17 aprile, sulla HBO debutta il cinematografico Game of Thrones, basato su un ciclo di romanzi epico-fantasy di George R.R. Martin, le Cronache del ghiaccio e del fuoco (in Italia per Mondatori). La scorsa domenica intanto, nel tentativo si creare maggiore aspettativa, è stato dato un assaggino della serie, che si può vedere sopra.


lunedì 4 aprile 2011

UOMINI CHE STUDIANO LE DONNE: un quiz umoristico


È stato il titolo Uomini che studiano le donne (DeejayTV, dal lunedì al venerdì alle ore 19.00, e il ‘best of’ la domenica alle ore 21.30), che chiaramente è derivato dal successo editoriale firmato da Stieg Larsson “Uomini che odiano le donne”, a incuriosirmi per primo. Si tratta di un quiz che in realtà è solo la scusa per un talk show con venature molto umoristiche. Andrea Marchesi e Michele Mainardi, entrambi già conduttori radiofonici ed entrambi classe 1973, il primo laureato in filosofia, il secondo in architettura, esordiscono ogni puntata con una specie di finto telegiornale comico su notizie che riguardano le donne, o i rapporti uomo-donna. Fra una fase del quiz e l’altra riprendono questa modalità da finti giornalisti e alcune battute sono riuscite, altre sono un po’ più trite. Come comici sono dignitosi, ma non di più, in questa fase “precostruita”; dove diventano davvero brillanti ed esilaranti, tanto da causare fragorose risate è quando improvvisano e reagiscono alle conversazioni che nascono sul momento, specie Mainardi.

Il quiz vede scontrarsi due squadre di sole donne, tre per parte, capitanate una dalla americana Christie Peruso, che ha un’incredibile somiglianza con Lea Michele di Glee, e l’altra dalla modella tedesca Nora Mogalle. Devono rispondere su argomenti diversi (moda e stile, relazioni, costume e società, sesso), indovinando quella giusta fra più opzioni di risposte o l’ordine delle risposte sulla base di quello che secondo i sondaggi hanno detto le donne italiane. La modalità del quiz perciò è vista e rivista, quello che lo rende originale è il taglio al femminile e quello che lo rende meritevole è il fatto di essere esilarante. La scenografia, che è giocata su giallo e oro brillantinato, sembra riciclata da qualche vecchio set degli anni Ottanta e li penalizza.

domenica 3 aprile 2011

JONATHAN FRANZEN si dà alla televisione



Un articolo de Il Sole 24 Ore, che porta la firma di Gianluigi Ricuperati, riferisce una notizia che mi riempie di gioia: il venerato romanziere americano Jonathan Franzen (Le Correzioni, Libertà) sta lavorando a un progetto televisivo, una serie di quattro stagioni basata su Le Correzioni. L’autore, che cita fra i cuoi programmi TV preferiti, The Wire e Breaking Bad, sarà anche produttore esecutivo.

Sotto una citazione, tratta dall’articolo:


Non credo che le serie tv abbiano ovviamente preso il posto del romanzo, le ritengo piuttosto un sottogenere della forma-romanzo, ecco. Quello che stanno rimpiazzando è il bisogno che veniva soddisfatto da un certo tipo di realismo da Diciannovesimo secolo. Quando leggi Dickens ottieni gli stessi effetti narrativi che ti danno le serie televisive, ma senza quel gioco di cambi di prospettiva e di giochi verbali sull'interiorità che solo il romanzo moderno può generare. Se si traduce l'esperienza – Dickens nell'esperienza di fruizione delle serie-tv –, si perde poco. Non faranno mai una serie da Proust, perché si tratta di qualcosa di puramente letterario.
Potrà puntare su un aspetto dell'opera di Proust, non so, quello sociale, per esempio, ma perderebbe tutti gli altri, che sono con ogni evidenza centrali. Il problema è proprio nel portare in televisione l'esperienza romanzesca del tempo, che si avvale di mezzi intraducibili. Ecco, il modo in cui un romanzo moderno fa scivolare i punti di vista di una narrazione è assolutamente non-riproducibile in una serie. Ciò che accade con naturalezza in un solo paragrafo, in un romanzo, richiederebbe sforzi enormi in un racconto tv. Le serie hanno principalmente un mezzo per convogliare il mondo interiore dei personaggi: le espressioni facciali. Ed è così poco, se lo compariamo con la ricchezza di possibilità che esiste nella costruzione retorica romanzesca.

Non credo di concordare sul fatto che le serie TV abbiano come mezzo per convogliare il mondo interiore dei personaggi principalmente le espressioni facciali, ma sono elettrizzata all’idea che Franzen possa scoprire altre dimensioni della scrittura che si traducono sullo schermo e già non vedo l’ora di sapere che scoperte fa in questa sua esperienza, sulla narrazione e sul medium televisivo.

Mi ha sorpreso leggere che la trasposizione televisiva del libro che ha vinto il National Book Award nel 2001 sarà porzionata in quattro anni. Ne posso immaginare una possibile divisione: un anno per i genitori e un anno per ciascuno dei tre figli. Ammetto però che sono curiosa di vedere se sarà così o che taglio daranno. Mi sarei aspettata più comunemente una miniserie, come è accaduto per Empire Falls (HBO), tratto dall’omonimo romanzo di Richard Russo pubblicato in italiano con il titolo de Il declino dell’impero Whiting, per The Crimson Petal and the White (BBC) ovvero Il petalo cremisi e il bianco di Michel Faber, o per Cloudstreet (Showcase) dal classico romanzo di Tim Winton.

Sono anche curiosa di capire il tipo di sensibilità che avrà la serie. La lettura del più recente Libertà non mi ha fatto pensare specificatamente a nessuna serie TV, ma quando ho letto Le Correzioni, pur essendo il libro qualitativamente su un altro piano, ricordo specificatamente che non riuscivo a non collegarlo a Judging AmyGiudice Amy. In particolare, il personaggio di Chip nel libro lo associavo a Vincent Grey (interpretato da Dan Frutterman), e quello di Gary al personaggio di Peter Gray (interpretato da Marcus Giamatti).

sabato 2 aprile 2011

MANIFESTO PER L'UTILIZZO RESPONSABILE DELL'IMMAGINE FEMMINILE: la conferenza stampa




Recentemente si è parlato molto dell’immagine che si dà della donna in TV e sui media genericamente intesi, condannandoli per una rappresentazione che sarebbe lesiva della dignità. Il comitato “Pari o Dispare” ha pensato di “passare al contrattacco” con un’iniziativa concreta: la presentazione di un “Manifesto per l’utilizzo responsabile dell’immagine femminile”, a cui hanno aderito, sottoscrivendolo, diverse aziende. Sono già una ventina, anche molto importanti (come Accenture, Johnson & Johnson, Kroll, L'Oréal, Microsoft, Unilever/Dove, Vodafone…),  e altre se ne stanno aggiungendo. La campagna durerà tutto l’anno. Il Manifesto è stato presentato lo scorso 21 marzo, a Milano, in una conferenza stampa che trovate sopra nella sua interezza. Sotto avete una sintesi, quasi una trascrizione, in alcuni passaggi, di quanto hanno detto i vari relatori. Ai diversi interventi sono stati alternati dei video pubblicitari, analizzati, come un vero e proprio “aiuto a guardare”, a cura di Non Chiederci la Parola. Tra parentesi, Pari o Dispare (PoD) ha anche creato un  gruppo su Facebook per chiedere alla RAI un osservatorio contro gli stereotipi di genere.

CRISTINA MOLINARI, presidente di PoD, ha esordito spiegando che il nome nasce dalla convinzione che in Italia le donne nascono “pari” ma poi tendono a crescere “dispare”. In Italia, rispetto alla posizione della donna siamo i penultimi nei Paesi Europei, cosa che limita il Paese, economicamente, culturalmente e socialmente. L’impegno di PoD è legato a due filoni: lavoro (qualitativamente e quantitativamente) e gli stereotipi dei media (stampa televisione, pubblicità). Questi ultimi sono anche visti come causa ed effetto del modo in cui è poi trattata la donna nel mondo del lavoro. In questa sede si parla di stereotipi nella pubblicità, nello specifico, perché questa ci bombarda costantemente e ha un influsso costante (per la strada, coi cartelloni, alla radio, al cinema, quando guardiamo la tv), e anche se non ce ne rendiamo conto in modo esplicito, ci influenza. Le donne il più delle volte vengono rappresentate come “cretine o come animali d’ornamento”. Alla fine ci sembra normale, ma non lo è. Il mondo delle donne è più ricco. E, al di là dell’aspetto valoriale, anche per le aziende non è nemmeno conveniente dare questo genere di immagine, visto che le donne sono persone con grande potere d’acquisto. Per questo hanno deciso di “scrivere un manifesto sull’utilizzo responsabile della figura femminile e chiedere alle aziende di sottoscriverlo e di  impegnarsi a non abusare né del corpo né del cervello delle donne e neanche a proporre in modo ossessivo degli stereotipi estetici che stanno spingendo generazioni di adolescenti o verso l’anoressia o verso il lettino del chirurgo estetico a 16 anni”.
In questo modo, si vogliono dimostrare tre cose:
  1. Ci sono aziende che non vogliono associare il proprio marchio a immagini irrispettose o semplicemente stereotipate di metà della cittadinanza italiana.
  2. Esiste una crescente quota di mercato pubblicitario che non si accontenta di campagne banali.
  3. È ora di avere direttori marketing e agenzie pubblicitarie più creative e che si rendono conto che il mondo è cambiato.

ANTONIO TOVARELLI, responsabile del controllo pubblicità di Agos Ducato, azienda che ha partecipato anche a Miss Italia, ha ribadito l’impegno dell’azienda a mostrare la donna in contesti quotidiani o reali, seguendo principi di dignità e non discriminazione. Per questo hanno aderito all’iniziativa.

GAD LERNER è stato invitato come conduttore che, nelle sue trasmissioni, sia affronta temi femminili, sia invita le donne come esperte. Per lui non sono sessualità e seduttività a sconvolgere. Piuttosto c’è il problema opposto, che per lui è quello focale: non ci si accorge di come è degenerata una forma di comunicazione intorno alla figura femminile. Sono pochi quelli consapevoli, quelli che viaggiano all’estero e vedono che altrove non è così. E non ci paragoniamo a Paesi con cultura oscurantista. Il meccanismo di replica che si sente in Italia è quello del “così fan tutti”, ma si scontra con i dati di fatto: altrove sono nicchie quelle della comunicazione degradata, qui sembra essere il modello dominante. Si tratta di una battaglia culturale, e ci si scontra con la mentalità della classe dirigente italiana. Non intende politicizzare il problema, perché l’intesa deve oltrepassare gli schieramenti politici, ma non può non notare la misoginia della classe dirigente e il fatto che è redditizio ostentarla. Quello del Manifesto lo considera un risultato importante proprio anche perché è giocato sul piano della convenienza: non è più redditizio promuoversi su ideali estetici basati sulla finzione. A questo ha aggiunto che vede come un risultato il fatto che Antonio Ricci non farà Veline, quest’estate.

MARINA SACCAPANI MISSONI sottolinea che l’azienda di famiglia (da tre generazioni) vuole catturare l’attenzione lavorando sull’immagine. Quella della donna bellissima non sortiva più il suo effetto essendo stata usata e abusata. La ricerca esasperata della perfezione è ora uno schema, una scatola, da cui uscire. La loro punta ad essere una pubblicità transgenerazionale e multiculturale.

BIBIANA FERRARI, managing director di Relight, azienda che si occupa di riciclo dei nuovi rifiuti, ammette che l’impatto ambientale non è declinato al femminile, ma ha una storia molto maschile. Trovare uno spazio non è stato facile. Ma sono un’azienda “al femminile”. Aderiscono all’iniziativa come dovere morale e come gesto concreto.

FILLIPPO DE CATERINA, direttore della comunicazione e marketing di L’Oreal Italia, prende la palla al balzo dalla presidente—che ricorda quanto sia irritante vedere pubblicità con donne giovanissime che parlano della propria pelle matura e di come L’Oreal sia in controtendenza in questo perché ha il coraggio di usare anche donne effettivamente mature—ricordando  che già negli anni ’70 loro hanno usato Jane Fonda, nelle loro pubblicità. Il tema dell’immagine femminile lo sentono come una responsabilità forte perché sono leader mondiale nella cosmetica. In Italia, i secondi, terzi e quarti loro concorrenti messi insieme, non arrivano alla loro quota. Sono presenti in 140 Paesi del mondo e devono interpretare la bellezza di tutto il mondo. Questa infatti cambia da Paese a Paese, dipende da caratteristiche fisiche, ma anche culturali. Loro interpretano l’aspetto culturale da punto di vista dei canoni produttivi. Per loro essere attenti alla politica di genere fa parte del quotidiano, per il mercato a cui si rivolgono (una clientela soprattutto femminile). Hanno rispetto di tutte le età, diversamente non sarebbe produttivo anche prima che sbagliato da un punto di vista etico-valoriale. Credono profondamente che il rispetto della donna faccia parte fondamentale di porsi davanti al business. Con L’Oreals Paris, hanno proposto ormai da molti anni “Perché io valgo”, traduzione dell’americano “Because I’m worth it”. Questo slogan ha  accompagnato la crescita della condizione femminile: da una donna che doveva essere bella per compiacere il mondo maschile in senso generale, a una donna che prendeva consapevolezza di se stessa e voleva essere bella perché lei se lo meritava. Cambia in questo modo la visione del modo di fare comunicazione. Al suo interno poi L’Oreal è donna per una quota che va da 60 al 70%; lo è il 50% del comitato di direzione italiano e il 35% a livello centrale. Sono numeri di rilievo, ma stanno ancora crescendo. Non vogliono fare solo presenza, ma la volontà è quella di fare una testimonianza, passare da ruolo di persone che lavorano su questi temi a persone che si sono impegnate attivamente. Lo fanno anche su altri fronti. Dal 1998, ad esempio, hanno promosso “For Women in Science”, un premio realizzato insieme con l’UNESCO, che riconosce le donne scienziato a livello mondiale per favorirne la carriera. È diventato  una specie di nobel al femminile. Si sono create altre 50 iniziative a livello locale, come stimolo sinergico.

ROBERTA COCCO da vent’anni lavora alla Microsoft (in Italia vi lavorano 850 persone), ma non presenzia solo in veste di  direttore marketing, ma anche come responsabile di “Futuro @l femminile”. Ricorda che quando faceva un master le hanno detto “Se non avete idee, usate un bambino o una donna”, e le è rimasto in mente. Il problema è come si fa, però. Non ci sarebbe tutta questa attenzione verso lo stereotipo, se non mancassero modelli al positivo. Ci sono, moltissimi, ma sembrano trasparenti. Bill Gates si dedica molto al sociale e quando chiedono fondi alla corporation per progetti di questo tipo possono averli, ma devono documentare il tipo di impatto che avrebbe la campagna che propongono e deve caratterizzare il Paese a cui è rivolta. Per l’Italia non hanno mai avuto ostacoli nel ricevere fondi a favore delle donne. “Futuro @l femminile” è un progetto di responsabilità sociale di Microsoft e molte altre aziende per promuovere la tecnologia a servizio delle donne, sia nella sfera personale che professionale. Hanno fatto soprattutto moltissima formazione, fino a corsi per l’imprenditoria femminile. Un tema in cui sono impegnati è quello dell’autostima delle giovanissime. Loro si sono voluti occupare in particolare delle preadolescenti (dai 9 ai 14 anni), per vedere come la tecnologia impattasse nella formazione dell’autostima e valutare come l’utilizzo della tecnologia porti a un percorso positivo. In una prima fase hanno raccolto le risposte a un questionario per un’indagine realizzata attraverso il proprio portale. Per avere peso scientifico servivano 500-600quetionari: ne hanno ricevuti 3500. Alcune risposte li hanno colpiti e l’ideatrice del progetto, una fotografa, ha poi contattato le ragazze e ha fatto scatti tutt’ora in mostra alla triennale, che presentano modelli positivi. (Viene mostrato un vido di due minuti in proposito).

ALESSANDRA PERRAZZELLI, presidente di Valore D, associazione che raccoglie aziende e personale femminile che vuole migliorare la capacità di affermazione professionale delle donne, la presenta dicendo che è nata due anni fa. Ora sono più di 45 aziende, di vario tipo  che hanno un  tema comune: come portare più donne in posizione di rilievo. Si sono chiesti se e come la pubblicità avesse un impatto su quello che fanno, e nell’aderire al Manifesto hanno lasciato le aziende libere di firmare o meno. Quello che notano è che il modello proposto, della donna bella e stupida e fortemente sessuata, crea fortissimo impatto sul percepito, questo perché crea una polarizzazione fra donne bellissime e donne che sono donne-uomo, ovvero come reazione alla iperfenmminilità si crea come risposta la donna coi baffi, una leadership maschile. Idealmente invece, come contro-offensiva, si vuole una leadership che si esprime come femminile. Diversamente le donne vengono private di quello che sanno esprimere. Quanto alla possibilità di fare carriera, è molto rischioso quando il modello è solo uno. Riporta un aneddoto in cui lei stessa è andata a un colloquio di lavoro e la persona che doveva assumerla aveva sulla scrivania una rivista con donna carponi. In quella situazione  si è sentita di dover superare “detti e non detti” che mettevano in secondo piano studi ed esperienze. Quell’incontro le ha fatto decidere, all’epoca, di non rientrare in Italia, ma di rimanere all’estero.

EMMA BONINO, vicepresidente del Senato e presidente onoraria di Pari o Dispare, ricorda che questo è un filone che sta cercando di portare avanti da molto tempo ed è contenta che poi ci si aggreghi. Già quando era Ministro, nella nota di Lisbona, sulla situazione del nostro Paese e dello stereotipo con cui vengono presentate le donne, richiamarono i pubblicitari. Quello che si vede è sintomo di pigrizia mentale. E ci si impoverisce sempre più. Non è una campagna per coprire il corpo della donna, ma è culturalmente importante svolgerla perché le immagini stereotipate sono pervasive, entrano in milioni di case di italiani via Rai, Mediaset… Sono di impatto su ragazzine e ragazzini: le ragazze hanno un solo modello da raggiungere e per i ragazzini la ragazza o donna da desiderare deve essere di quel modello. È quindi necessario operare un cambiamento  per le nuove generazioni, “oltre che francamente [per il fatto che ] non è simpatico viaggiare dall’autostrada, rientrando a Roma, con un cartello 12x32, con una signorina bellissima, improbabile, in autoreggente nero che striscia su un pannello solare dal sobrio titolo ‘Montami’”, non è proprio il massimo del Made in Italy. Il degrado è meglio arginarlo. L’iniziativa è di incitazione perciò. Il brutto può diventare di moda, ma anche il bello lo può, può esserci una china a rovescio. C’è il comitato della ministra Carfagna che viene usato per togliere queste pubblicità. Sono utili gli strumenti di correzione delle istituzioni, ma serve anche rovesciare la tendenza. Ha partecipato anni fa a  un convegno, in cui erano presenti anche Serena Dandini e la Cortellesi ,in cui si ironizzava sulla rappresentazione che si fa delle donne. Alla fine l’ironia è diventata greve.  La pubblicità è un grande strumento, usato da televisioni e carta stampata. Invertire la tendenza è fare un passo avanti. Non vogliamo essere vittoriani e mettere la gonna alle gambe del tavolo, né vogliamo il proibizionismo, ma la situazione è anche un po’ patetica. La “potenzialità del valore al femminile nel nostro Paese è e continua ad essere sottovalutata”. Poi è normale che le donne trovino in campo professionale “il soffitto di cemento”. Deve cambiare la politica, e non è una politica degli ultimi anni, viene da lontano ed è solo stata ora accelerata. Il fatto che l’intero Welfare del nostro paese è sulle spalle delle donne è perché fa comodo a molti, non è un destino cinico e baro. Va rimessa in discussone questa politica, e insieme a questa, per renderla più efficace, bisogna lavorare di pari passo sul fronte della rappresentazione. Non è vero che le donne sono tutte brave, tutte intelligenti… non siamo una categoria, né un sindacato. Non tutte la pensano allo stesso modo ed è bene: siamo persone che vogliono essere valutate ed apprezzate per quanto valgono. A volte dobbiamo anche avere il coraggio di non aspettare di essere co-optate, stando in un angolo sperando che qualcuno si accorga di te. Bisogna dire “io voglio quel posto lì”. Spera che tutte le iniziative facciamo venir voglia di lottare. Una giusta rappresentazione rende il Paese migliore per tutti, più equilibrato, anche umanamente, e lo rende un luogo in cui per tutti è più piacevole vivere.