mercoledì 30 settembre 2015

ROSEWOOD: candidato a peggior nuovo debutto



Si candida a peggior nuovo debutto dell’autunno 2015 Rosewood, ideata da Todd Harthan, nonostante un’interpretazione piena di grinta e simpatia di Morris Chestnut che dà il volto al personaggio del titolo.
Beaumont “Rosie” Rosewood Jr è un medico legale di Miami, ricco, famoso e affascinante nonostante sia saccente e molto pieno di sè. Ha fin da piccolo un serio problema cardiaco che potrebbe stecchirlo da un momento all’altro e questo lo spinge a correre ogni rischio necessario per assicurare alla giustizia dei criminali, imponendo il proprio aiuto non richiesto alla riluttante detective Annalise Villa (Jaina Lee Ortis), rimasta di recente vedova.
Come procedurale è piuttosto scadente. Le storie sono giusto imbastite lì perché non si sfaldino. Le esperte professionali che affiancano Rose sono due segnaposto. La poliziotta tosta scade nel ridicolo nella modalità in cui nel pilot pesta un “cattivo della situazione”. Le backstory dei personaggi  hanno il sapore della patetica farsa. Chestnut ha sicuramente la stoffa del leading man, ma c’è da augurarsi che trovi presto un nuovo ruolo.  

lunedì 28 settembre 2015

SCREAM QUEENS: morti e cattiverie gratuite


Delude fortemente la nuova serie antologica comico-horror-trash in 13 puntate firmata da Ryan Murphy (American Horror Story, Glee), Brad Falchuk  e Ian Brennan, Scream Queens. Ci troviamo nella fittizia Wallace Univesity dove l’associazione femminile più ambita di cui far parte è la Kappa Kappa Tau. Nel 1995 una ragazza che ne faceva parte era stata trovata morta in una vasca da bagno dopo aver dato luce a un bebè, ma la faccenda era stata insabbiata dal rettore di allora, Cathy Munsch (Jamie Lee Curtis), che ricopre ora lo stesso ruolo.
Interessate solo ad essere belle, ricche e popolari, le studentesse della  sorellanza, dopo la morte sospetta di un’altra ragazza, nel 2015 sono comandate con un pugno di ferro dalla “regina” Chanel Oberlin (una Emma Roberts in forma smagliante), giovane esasperatamente snob che delle sue tirapiedi non conosce il nome perché tanto le chiama con il proprio, seguito da un numero. C’è perciò un personaggio che si chiama ufficialmente Chanel n. 5  (Abigail Breslin). Tiranneggia e umilia chiunque le capiti a tiro, che sia la cameriera dei loro alloggi o il barista Pete Diller (Diego Boneta). L’intervento della presidente nazionale della sorority Gigi Caldwell (Nasim Pedrad) impedisce che la confraternita venga chiusa, ma sono obbligate ad accettare qualunque richiesta di iscrizione, ed è così che fanno domanda diverse indesiderate, fra cui Hester Ulrich (Lea Michelle, Glee), che porta un grande apparecchio al collo, Zayday Williams (Keke Palmer), voce della ragione del gruppo, e Skyler Samuel (Grace Gardner), dolce e ficcanaso (e se fosse la bimba venuta alla luce in quella vasca da bagno 20 anni prima?). Nella premiere che è una puntata doppia compaiono come guest star Ariana Grande, nel ruolo di Chanel n. 2 e Nick Jonas nel ruolo di Boone. Un uomo vestito da diavolo comincia ad ammazzare ragazze a destra e a manca. Si trattengono a stento panico e urla.
Un miscuglio di American Horror Story: Coven, Glee, Greek, Popular, Scream, Gossip Girl, Pretty Little Liars e Mean Girls, la serie preme l’acceleratore su tropi e cliché. Occasionalmente c’è qualche guizzo ben riuscito (come il caso della ragazza e l’assassino che, faccia a faccia, si parlano via sms sul cellulare) e ci sono venature di humor anche apprezzabili, ma l’eccesso caricaturale sfocia nella vignetta risibile, e la parodia della superficialità non si vede bene quanto parodia alla fin fine sia. Come sempre con questi autori, si è particolarmente efficaci sul versante dell’omofobia, ma per il resto si può ridurre tutto a qualche morto e una sfilza di cattiverie gratuite.

sabato 26 settembre 2015

LIMITLESS: la pillolina magica non funziona

 
Bradley Cooper fa un cameo nel pilot di Limitless, di cui è produttore esecutivo oltre che occasione star ospite. Si tratta dell’ennesima serie di quest’anno tratta da una pre-esistente pellicola, in questo caso quella omonima che lo vedeva come protagonista e che era a sua volta basata su un libro di Alan Glynn, The Dark Fields.
Un musicista di scarso successo che non riesce a dare una direzione alla propria vita, Brian Finch (Jake McDorman), espande le proprie capacità mentali grazie a una droga chiamata NZT – nel giro di un pomeriggio scopre di che rara condizione soffre il padre (Ron Rofkin), la cui diagnosi non chiara rischiava di portarlo alla tomba, e riesce poi a fargli avere un trapianto di fegato. L’amico che gli passa le pillole viene trovato morto e questo allerta la polizia. Chiarita la questione che si tratta di una sostanza sperimentale a loro nota, accantonata per le sgradite conseguenze a lungo termine,  l’agente dell’FBI Rebecca Harris (Jennifer Carpenter, Dexter), con il riluttante benestare del suo capo, “Naz” Pouran (Mary Elisabeth Mastrantonio), gli propone di lavorare insieme per risolvere numerosi crimini grazie all’aiuto del suo potenziato quoziente intellettivo. Allo stesso tempo, in via segretissima, il senatore con aspirazioni presidenziali Eddie Morra (Cooper), gli offre delle iniezioni che gli permettono di utilizzare la droga senza effetti collaterali, per fini propri ancora da chiarire.
Al di là della correttezza politica di ideare una serie in cui pillole stupefacenti aumentano le capacità umane – trappola che per anni il piccolo schermo ha cercato di inculcarci essere la via migliore verso la tossicodipendenza – la storia non va al di là dello stratagemma della pillolina magica che risolve i problemi. E cerca di infilare inutilmente nel plot motivazioni altre: la Harris si fida di Brian perché ha visto nel suo sguardo la stessa luce che c’era negli occhi di suo padre l’ultima volta che lo ha incontrato in vita. Aveva un passato di dipendenza da sostanze, ma aveva deciso di cambiare quando è stato ritrovato morto una settimana dopo. Ora lei crede potesse aver usato la NZT. Ma per piacere!
Nonostante tutti recitino in modo più che adeguato, e il confezionamento non sia sgradevole, il risultato del pilot complessivamente è mediocre e sciocco, e non serve la NZT per capirlo.  

giovedì 24 settembre 2015

MINORITY REPORT: visioni e tecnologia futuristica


Minority Report, basata su un racconto di Philip Dick, riprende 10 anni dopo quanto narrato dal film con Tom Cruise dallo stesso titolo. Siamo a Washington nel 2065 e tre ragazzi detti precog per la loro capacità di precognizione di crimini futuri – Dash (Stark Sands), Arthur (Nick Zano) e Agatha (Laura Regan) - che all’epoca erano poco più che bimbi, sono cresciuti in isolamento dopo che è stato dismesso il programma che utilizzava a fini investigativi le loro capacità. Ora adulto, Dash che percepisce anche il dolore delle vittime che vede, vuole tornare alla civiltà per risolvere almeno qualcuno di quei crimini le cui visioni lo tormentano, sebbene senza l’aiuto degli altri due il quadro non riesca mai ad essere completo. Per quel che riesce dà indizi alla detective della omicidi Lara Vega (Meagan Good), che cerca di tenere nascosto l’aiuto di un precog al suo capo Will Blake (Wilmer Valderrama) perché la pratica è ora illegale. Lei la ritiene utile e crede che se ci fosse stata questa possibilità si sarebbe potuta scongiurare la morte di suo padre.
La storia del pilot è abbastanza innocua per non dire insulsa -  grazie alle visioni del futuro da parte di Dash si riesce a evitare la morte della moglie di un candidato politico – e la gran parte della critica è rimasta tiepida nei confronti della serie, giudicata pedestre in comparazione al film. Non è migliore o peggiore di tante altre, ma a me ha convinto più che alla maggioranza per tre ragioni: la scomparsa di Arthur penso possa carburare storie abbastanza coinvolgenti nelle puntate a seguire – promettono sarà un antieroe che, a differenza del gemello, vuole usare i propri poteri per fini egositici; l’innocenza di Dash, a lungo allontanato dalla vita civile e dalle interazioni sociali, è dolce e crea una dinamica di leggerissimo umorismo con Lara; la tecnologia futuristica impiegata è una vera goduria. Non sorprende scoprire che i responsabili del programma abbiano consultato un team di futurologi del MIT per realizzare gadget che è realistico possano esserci fra 50 anni, come il braccialetto della studentessa che si apre diventando un piccolo drone pronto a scattare dei selfie. Ce ne sono a profusione e la geek che è in me vuole vederne ancora e ancora.
Se trova una direzione narrativa, questo progetto sviluppato per la TV da Max Borenstein  che ha debuttato sull’americana Fox il 21 settembre potrebbe anche farcela.   

martedì 22 settembre 2015

BLINDSPOT: tanta azione

 
In Blindspot, che ha debuttato ieri sera negli USA sulla NBC, una donna che non ricorda nessun dettaglio della propria identità, Jane Doe (Jaimie Alexander), viene ritrovata completamente nuda in un borsone nel mezzo di Time Square a New York. Il suo corpo è interamente ricoperto di tatuaggi, che, si scoprirà dopo, sono ciascuno legato ad un crimine da risolvere. Sulla schiena uno di questi scrive il nome di Kurt Weller (Sullivan Stapleton), il locale agente dell’FBI che non la conosce minimamente.  Presto si scopre che la donna in questione ha comunque conservato una memoria di tipo funzionale e ha competenze inaspettate, parla il cinese in modo fluente ed è grande esperta di arti marziali. Alcuni flashback rivelano che è stata lei a volersi far iniettare una sostanza che le cancella la memoria per una missione di cui non si conoscono le ragioni.
L’inizio di questo progetto ideato da Martin Gero e Greg Berlanti ha intrigato molti, ma non me. Una donna nuda, spaurita, ricoperta di segni che non conosce, messa in una sacca e “priva di identità” la vedo come la quintessenza della oggettificazione. E anche se poi è lei l’eroina, quest’immagine si rifiuta di suscitare in me il fascino che vedo ha colto molti critici. L’attrice riesce a rendere bene la vulnerabilità e il senso di svilimento del personaggio. Le azioni in cui è coinvolta però, ispirate alla pellicola coreana del 2013 The Suspect e ai film del ciclo di The Bourne Identity, non vanno al di là di  esplosioni, salti in stile parkour e coreografiche acrobazie – l’attrice è stata allenata in varie tecniche di combattimento come jujitsu, judo, krav maga e preparata a utilizzare armi di ogni genere. Per quel che mi riguarda, ben poco di cui entusiasmarsi.   

lunedì 21 settembre 2015

EMMY AWARDS 2015: i vincitori

 
Sono stati consegnati questa scorsa notte gli Emmy Awards, in una cerimonia presentata da Andy Samberg (Brooklyn Nine-Nine) che Rai4 ha trasmesso in diretta e replicherà in differita stasera in seconda serata. Per le mie considerazioni su chi avrebbe dovuto vincere e si chi avrebbe vinto, si veda qui.
Sotto, la lista dei vincitori. Grandi premiati Il Trono di Spade, Veep e Olive Kitteridge.
 
Miglior drama
 
Game of Thrones
 
 
Miglior attore in un drama
 
Jon Hamm, Mad Men 
 
 
Miglior attrice in un drama
 
Viola Davis, How to Get Away With Murde
 
 
Miglior attore non protagonista in un drama

Peter Dinklage, Game of Thrones
 

Miglior attrice non protagonista in un drama

Uzo Aduba, Orange is the New Black
 

Miglior Sceneggiatura per un drama

David Benioff e DB Weiss, episodio “Mother’s Mercy” (5.10), Game of Thrones – su questo episodio si veda che cosa avevo scritto qui.
 

Miglior Regia per un drama

David Nutter, episodio “Mother’s Mercy” (5.10), Game of Thrones
 
 
 
 
Miglior comedy
Veep
 
 
Miglior attore in una comedy
 
Jeffrey Tambor, Transparent
 
 
Miglior attrice in una comedy
 
Julia Louis-Dreyfus, Veep
 
 
Miglior attore non protagonista in una comedy
 
Tony Hale, Veep
 
 
Miglior attrice non protagonista in una comedy
 
Allison Janney, Mom
 
 
Miglior sceneggiatura per una comedy
 
Simon Blackwell, Armando Iannucci e Tony Roche, episodio Election Night (4.10), Veep
 
 
Miglior regia per una comedy
 
Jill Soloway, episodio “Best New Girl” (1.08),  Transparent
 
 
 
 
Miglior  miniserie o film per la TV
 
Olive Kitteridge
 
 
Miglior attore in una miniserie o film per la TV
 
Richard Jenkins, Olive Kitteridge
 
 
Miglior attrice in una miniserie o film per la tV
 
Frances McDormand, Olive Kitteridge
 
 
Miglior attore non protagonista in una miniserie o film per la TV

Bill Murray, Olive Kitteridge

 
Miglior attrice non protagonista in una miniserie o film per la TV

Regina King, American Crime

 
Miglior sceneggiatura per una miniserie o film per la TV

Jane Anderson, Olive Kitteridge
 
 
Miglior regia per una miniserie o film per la TV

Lisa Cholodenko, Olive Kitteridge
 
 
 
Miglior serie di varietà – sketch
 
Inside Amy Schumer
 

Miglior serie di varietà -  talk
 
The Daily Show with Jon Stewart
(che ha vinto anche per scrittura e regia in questa categoria)
 
 

venerdì 18 settembre 2015

HAND OF GOD: fede, truffa, follia


Il figlio di un anziano potente giudice, PJ (Johnny Ferro), ha cercato di togliersi la vita finendo in coma irreversibile, dopo che è stato costretto a guardare mentre un criminale violentava la moglie Jocelyn (Alona Tal, Veronica Mars). Il giudice suo padre, Pernell Harris (Ron Perlman, Sons of Anarchy), vero protagonista di Hand of God (Mano di Dio), presumibilmente per lo stress causato da questi eventi, comincia ad avere un comportamento erratico, a sentire voci e ad avere visioni, che interpreta e segue come fossero messaggi di Dio, con conseguenze anche criminose. Come “born again Christian”, cristiano rinato nella fede, dice che intende rinunciare ai suoi regolari incontri con una prostituta, Tessie (Emayatzy Corinealdi), e comincia dispensare quella che considera la giustizia divina, con l’aiuto di un criminale violento e sociopatico con fissazioni religiose, KD (Garret Dillahunt). A fomentare questa sua convinzione di fede è un sedicente religioso, con un passato di attore di soap opera, specificatamente Febbre d’Amore, Paul Curtis (Julian Morris, Pretty Little Liars, che non mi risulta abbia nella realtà mai partecipato alla suddetta soap), a cui il giudice ha regalato molti soldi che lui e la sua compagna di imbrogli Alicia (Elizabeth McLaughlin) usano apparentemente per fondare una nuova congregazione. La moglie Crystal (Dana Delany, Body of Proof), così come i professionisti con cui viene a contatto nel suo lavoro, come il sindaco Robert Boston (Andre Royo, The Wire), sono preoccupati.  

Così parte la nuova serie di 10 puntate targata Amazon ideata da Ben Watkins, con una premessa simile a quella di American Crime (i genitori hanno a che vedere con le conseguenze di un crimine violento nei confronti dei propri figli) e di Boss (una figura autorevole della comunità comincia a “dare di matto”). Il temi maggiori sembrano essere nei quello delle truffe travestite da religione che puntano senza scrupoli esclusivamente al denaro, alle spalle di gente vulnerabile, disperata e facilmente circuibile e quello delle follie a cui conduce una fede cieca. Il pilot ha avuto qualche momento di impatto, come la combinata umiliazione di un poliziotto e della nuora avvenuta nel tentativo di scoprire il colpevole seguendo le indicazioni di una allucinazione di Pernell. La serie però ha raccolto soprattutto recensioni negative, per la mancanza di sottigliezza e per ostentare lordura, squallore e turpitudine senza una contropartita umana rivelatoria, nonostante l’apprezzabile recitazione. 

giovedì 17 settembre 2015

THE BASTARD EXECUTIONER: un esordio brutale


“Galles, all’alba del 14° secolo. Il cattolicesimo romano domina il panorama religioso. I gallesi, combattendo ferocemente per l’indipendenza, sono stati schiacciati da Edward Longshanks, re Edoardo I di Inghilterra. Dopo la morte di Longshanks, il suo impulsivo figlio, Edoardo II, prende il trono. Cresce la tensione nei turbolenti terreni paludosi fra Galles e Inghilterra. Temendo la ribellione, i baroni inglesi comandano i loro territori feudali con inflessibile brutalità. Mentre i contadini di queste province si aggrappano disperatamente alla speranza che un Dio amorevole vegli su di loro”. Così recita l’incipit di The Bastard Executioner, l’attesa nuova serie di Kurt Sutter (Sons of Anarchy), che in una bellissima sigla (sotto) fa una carrellata di strumenti di tortura e di morte.
Dopo due truculente carneficine che avrebbero reso fiero George RR Martin, il protagonista principale, Wilkin Brattle (un Lee Jones  prima facie poco carismatico, ma forse solo un po’ verde), un ex soldato che aveva lasciato la spada per una vita da contadino accanto alla moglie Petra (Elen Rhys), nella fittizia provincia del Ventrishire, decide di farsi coinvolgere nella ribellione contro il locale feudatario, il barone Erik Ventris (Brain F. O’Byrne) che ha innalzato le tasse, e il suo ciambellano Milus Corbett (Stephen Moyers, True Blood), uomo senza scrupoli sempre pronto a complottare, che non esita a schierasi contro il suo stesso fratello, Leonn Tell (Alec Newman). Nel doppio pilot (1.01-1.02) facciamo anche la conoscenza di uno dei leader della rivolta, Gruffudd y Blaidd, che si traduce più o meno come Griffith il Lupo, interpretato da Matthew Rhys (il protagonista maschile di The Americans, che è un attore gallese), in un momento che qui è apparentemente insignificante, ma che promettono sarà carico di conseguenze nello svolgimento futuro della storia (TV Guide, 14 Sept, 2015)
Wilkin attraverso una serie di vicissitudini si appropria della vita di un altro uomo, il boia itinerante sadico, violento e autolesionista Gawain Maddox (Felix Scott), con un imbroglio che è uno dei più coinvolgenti colpi di scena – e che Sutter dice di aver preso in prestito dal film del 1982 con Gerard Depardieu The Return of Martin Guerre. (cfr. Entertainment Weekly). Diventa così lui il Bastard Executioner del titolo, il Boia Bastardo, tenuto a torturare e a provvedere alle esecuzioni capitali dei fuorilegge, un mestiere moralmente complesso in un mondo in cui cristianesimo e misticismo pagano si intersecano e mescolano. È anche guidato da spiriti che gli appaiono in sogni e visioni e dall’incontro di una strega/guaritrice dall’accento slavo che gli preannuncia un destino particolare. Si tratta di Annora, interpretata dall’attrice Katey Sagal, con un look dai lunghi capelli striati di bianco, già star di Sons of Anarchy nonché moglie nella vita dell’ideatore, che ha ritagliato anche per sé un piccolo ruolo in cui è praticamente irriconoscibile perché truccato come se fosse interamente ustionato, il Dark Mute. Wilkin presterà i suoi servigi, accompagnato dal suo braccio destro Toran Pritchard (Sam Spruell),  presso Castello Ventris dove risiede baronessa Lady Love Ventris (Flora Spencer-Longhurst), che farà da ago della bilancia fra lui e Milus.
Un misto di Game of Thrones, Vikings, Outlander e Braveheart, The Bastard Executioner, è fedele alla reputazione del suo autore. Al di là di qualche fugace momento umoristico, assicurato da Ash (Darren Evans), pastore con un particolare attaccamento per la propria pecora Miriam, non mancano squartamenti, sgozzamenti, corpi trafitti secondo ogni possibile angolazione e violenza a profusione. Forse è vero che, come si affretta a chiarire Sutter, i soprusi accadono in modo organico, non sono gratuiti ma hanno un loro significato e soprattutto non sono privi di conseguenze, ma hanno ramificazioni emotive o narrative (The Hollywood Reporter), ma per il momento le varie battaglie e scontri sono risultati piuttosto piatti e mono-tono. La sensazione è che si sia solo assistito a una non troppo convinta lunga premessa per arrivare, dopo le prime due puntate unite insieme, al vero inizio della storia. Molti dei personaggi introdotti hanno già fatto una brutta fine e forse solo ora si avrà il tempo di esplorare quello di cui si vorrebbe parlare ovvero di fratellanza, lealtà, responsabilità verso gli altri membri di una comunità e dei rapporto uomo-donna.
Non sono rimasta troppo ben impressionata dall’inizio, ma nemmeno delusa. Nonostante manchi un vero stimolo trascinante, e non si sia riusciti a compartecipare nelle battaglie alla carica emotiva che avrebbe dovuto animarle, non mi sono mai impantanata nella noia. I personaggi erano forse poco tridimensionali, ma avranno tempo di svilupparsi. Trattandosi di Kurt Sutter sono disposta a concedergli il beneficio del dubbio che sappia dove ci sta conducendo. Mi aspetto possa valerne la pena anche se di una cosa possiamo essere certi: sarà brutale.

domenica 13 settembre 2015

MR. ROBOT: la serie rivelazione dell'estate


Mr. Robot è la serie rivelazione dell’estate. Ideata da Sam Esmail, al suo esordio in TV, era pensata in origine come un film, tanto che la prima stagione è da considerarsi, dicono, come il primo atto di quell’ipotetica pellicola. Con una voce autoriale distintiva e un approccio estetico assolutamente originale, Mr. Robot è stata salutata come la prossima Breaking Bad, o Mad Men, e accostata a Taxi Driver e Fight Club, di cui per qualcuno è l’erede spirituale. Negli Stati Uniti è in onda su USA Network, una rete che nel tempo ha presentato più volte idee fresche, ma nessuna che sul serio abbia saputo distinguerla come una canale che presentava programmi di qualità alla maniera in cui è successo alle varie HBO, AMC, Showtime, nonostante programmi di un certo successo come Suits e Psych. Questa potrebbe essere l’occasione della svolta.  

La premessa è apparentemente molto più lineare di quanto non sia poi invece complicata la costruzione successiva del mondo che mette in scena e stratifica. E il narratore non è sempre attendibile, o almeno questa è la percezione. Protagonista è Elliot Alderson (l’attore di origine egiziana Rami Malek), un hacker dipendente dalla morfina, asociale, paranoico, che soffre di ansia, depressione, allucinazioni e solitudine e non ama essere toccato. Lavora come ingegnere per una compagnia di sicurezza informatica, la AllSafe, e nel tempo libero spia costantemente la vita digitale delle persone che lo circondano, compresa la sua psicoterapeuta, la dottoressa Krista Gordon (Gloria Reuben), e cerca di “punire i cattivi” e proteggere quelle che giudica brave persone agendo un po’ come un vigilante – e qui possiamo pensare a un leggero parallelismo con Dexter: lì dove quest’ultimo conservava delle piastrine con una goccia del sangue delle sue vittime, Elliot conserva dei CD per ciascuno dei suoi “osservati”, registrati con titoli di dischi. Il misterioso Mr Robot del titolo (un Christian Slater che finora è stato il bacio della morte per ogni soggetto televisivo a cui ha partecipato e che finalmente ha trovato un progetto degno del suo talento) lo recluta nella sua fsociety, un gruppo anarchico o silmil-tale che punta a fare una rivoluzione e creare una società più giusta azzerando i debiti delle persone. Loro principale bersaglio è la corporazione E-Corp che finisce per essere definita Evil-Corporation, dove Evil in inglese è il Male, comandata da Terry Colby (Bruce Altman). In realtà il logo è quello della Enron, un reale conglomerato andato in bancarotta nel 2001 e accusato di condotta fraudolenta.

Eliott, seppure con molte titubanze e riserve, accetta e si trova a lavorare con Darlene (Carly Chaikin) e un gruppo di altri superesperti di computer, Romero (Ron Cephas Jones),  Trenton (Sunita Mani) e Mobley (Azhar Khan), che si incontrano in una dismessa arcade di videogame – la stessa title card del programma ricorda nella grafia i giochi Atari. Elliot ritiene la E-Corp responsabile della morte del padre, così come fa la sua amica d’infanzia e collega Angela (Partia Doubleday), che pure lei in altra forma lavora per fermarli perché li ritiene colpevoli del decesso prematuro della madre. Per quella corporazione lavora anche l’ambizioso, frustrato arrivista Tyrell Wellick (l’attore svedese Martin Wallstrӧm), che qualcuno ha avvicinato ad American Psycho, e a me continua a ricordare i personaggi dei grandi romanzi russi ottocenteschi, per qualche ragione, sottomesso alla temibile moglie Joanna (Stephanie Cornelliussen) – un personaggio che promettono avrà un rilievo maggiore nella prossima stagione e che è stata avvicinata a Lady MacBeth.   

Una delle cose più affascinanti di Mr. Robot è il suo modo di inquadrare, unico e molto distintivo. I fotogrammi non sono centrati o tagliati nel modo in cui ti aspetteresti. Un esempio: due personaggi stanno conversando e vengono inquadrati separatamente; il primo si troverà nell’angolo in basso a sinistra dello schermo, il secondo verrà inquadrato poi nell’angolo a destra. Lo spazio negativo dell’inquadratura ne costituisce la grande totalità e non trovi la figura che parla rivolta a sinistra situata sulla destra, come accade di regola. È una estetica visuale reiterata che potenzia l’atmosfera alienata, snervante, delirante e punk che è un po’ il gusto di sottofondo della storia. “L’arresto di Terry Colby è nella mente di tutti – sugli schermi – potrebbe ben essere la stessa cosa oggigiorno” (1.02), commenta Elliot con un’affermazione che ti fa prestare attenzione al framing dell’immagine una volta in più. La musica è anche usata in modo molto efficace.

Le puntate sono in bilico fra realtà e illusione, la cui dialettica è uno dei grandi temi affrontati. Puntate successive e la continuazione delle vicende dalla premessa che ho enucleato sopra – su cui non mi addentro per evitare spoiler – rendono molto forte quest’idea, che è a momenti anche allucinatoria, come ben rende l’episodio “eps1.3_da3m0ns.mp4” (1.04). E si noti come è scritto il titolo della puntata: sono  tutte realizzate così, come finti file digitali. Il tono ipnotico di Rami Malek quasi reinventa il senso del voice-over. È un attore perfetto per la parte, molto contenuto nella sua espressività fisica, e vivacissimo nell’uso dello sguardo, in cui vengono accentuati gli occhi sporgenti incorniciati dal cappuccio che indossa sempre e che è diventato iconico del programma. Tutto il casting è impeccabile – e per una volta è fantastico vedere che attori non bianchi sono utilizzati in modo indipendente dalla propria etnicità, per così dire. Si può osservare però che il mondo là fuori è di ogni gender e colore,  quello dei cattivi è quasi uniformemente di maschi bianchi.

Ormai peraltro da un punto di vista narrativo è davvero difficile sorprendersi, ma qui è capitato più volte e penso in particolare alla fine di 1.02, nella ormai celebre (almeno fra i fan) scena della ringhiera, ma anche a un numerosi momenti con Tyrell e in particolare all’apertura di 1.03 e al suo successivo incontro in camera da letto con la moglie, ma anche in tanti altri, come a cena e poi in bagno dal suo capo. Se il sottofinale (1.09) era prevedibile, molto meno lo è stata in fondo la puntata finale (1.10). E le vicende hanno una pregnanza rispetto all’attualità sorprendentemente rilevante, anche, in qualche caso.

C’è un’idea di fondo: la rivoluzione. Io sono una persona che ritiene che il concetto di rivoluzione, così come storicamente e un po’ romanticamente inteso, sia un’idea molto ingenua, per non dire risibile, nella società attuale. Questo non significa che le rivoluzioni non accadano, ma l’idea di un manipolo di persone che si mette a “fare la rivoluzione” lo trovo poco credibile. O auspicabile. E nonostante i protagonisti abbiamo proprio questo proposito, non sono poi così sicura che l’idea di fondo del programma sia a favore di questo genere di rivoluzione (il tempo lo dirà). Anche politicamente, devo dire, non sono così sicura di che posizione abbia il programma. C’è stata una battuta esplicita contro la politica del lavoro di Obama, ad esempio, in una delle prime puntate. E nell’ultima puntata - la cui messa in onda è stata posticipata a causa degli echi che si potevano percepire con una sparatoria in Virginia avvenuta quest’estate, in segno di rispetto delle vittime della tragedia nella vita reale - un personaggio che si toglie la vita in diretta porta il cognome di Plouffe. Non ho potuto non notarlo, sapendo che Plouffe è uno stratega politico americano che era il direttore della campagna elettorale di Obama. Magari è solo un caso, chissà, ma appunto ci ho fatto caso. Di fatto si rimane ambigui, cosa che aumenta l’appeal del programma.

Alla fine il senso proprio e vero delle rivoluzioni, un senso in cui io mi riconosco, e che mi fa ripensare anche a David Foster Wallace, è in fondo per me quello che esprime Elliot alla fine di “eps1.4_3xpl0its.wmv” (1.05), in un momento in cui il loro progetto va temporaneamente in fumo: “Mio padre è venuto a prendermi a scuola un giorno e abbiamo marinato e siamo andati in spiaggia. Era troppo freddo per entrare in acqua e così ci siamo seduti su una coperta e abbiamo mangiato la pizza. Quando sono arrivato a casa le mie scarpe da ginnastica erano piene di sabbia e l’ho scossa sul pavimento della mia camera. Non sapevo la differenza, avevo sei anni. Mia mamma mi ha urlato per il casino, ma lui non era arrabbiato. Ha detto che miliardi di anni fa lo spostamento del mondo e il movimento dell’oceano hanno portato quella sabbia in quel punto della spiaggia e poi io l’ho portata via. Ogni giorno, ha detto, cambiamo il mondo. Cosa che è un bel pensiero finché non penso di quanti giorni e vite avrei bisogno per portare a casa una scarpa piena di sabbia finché non ci fosse più spiaggia. Finché facesse la differenza per qualcuno. Ogni giorno cambiamo il mondo. Ma per cambiare il mondo in un modo che significhi davvero qualcosa, quello richiede più tempo di quanto le persone abbiano. Non accade mai tutto in un colpo. È lento. È metodico. È sfiancante. Non tutti ne abbiamo lo stomaco”. (Le traduzioni delle citazioni sono mie).

Un thriller psicologico inquietante e imperdibile. Fra le migliori serie dell’anno, se non la migliore in assoluto.  

mercoledì 9 settembre 2015

TOGETHERNESS: una serie sul malessere della vita


In Togetherness, Brett (Mark Duplass) e Michelle Pierson (Melanie Lynskey) sono una coppia di Los Angeles sposata con figli che sta attraversando un periodo di crisi, dentro e fuori il letto coniugale. Accolgono temporaneamente in casa la sorella di lei, Tina (Amanda Peet), single preoccupata di restare tale per tutta la vita, e il miglior amico di lui, Alex (Steve Zissis) attore pelato e sovrappeso che, anche per questo, si percepisce ormai in declino senza aver mai veramente sfondato.
Ideata dai fratelli Mark e Jay Duplass (il primo parte del cast, il secondo noto per interpretare il figlio del protagonista in Transparent) e dallo Steve Zissis di cui sopra, questa comedy della HBO più che umoristica è ironico-meditativa, alla Girls per intenderci, con un gusto un po’ indie. L’idea di base da cui sono partiti (cfr. TV Guide, 5 gennaio 2015)  è che non è vero che l’erba del vicino, ovvero l’essere sposati o l’essere single, è sempre più verde; l’erba è verde occasionalmente, ma la percentuale dei momenti magici è davvero piccola, e che per gran parte la vita è noioso e inappagante  tran tran, qualunque sia la tua situazione. Il tono riflette questa idea, e anche la riuscita della serie, potremmo dire, ne viene condizionata.
L’insoddisfazione personale di Michelle, la frustrazione umana di Brett, la disperazione e la solitudine di Tina e il tormento per il potenziale non realizzato di Alex sono sempre sotto la superficie apparentemente leggera. La forza dello show sta nel modo in cui fa emergere la scontentezza della vita quotidiana e gli stratagemmi che mettiamo in atto per combatterla. Controllo, quanto avere o quando rinunciarci,  amore, amicizia, realizzazione personale… sono tutti temi affrontati. Per i protagonisti il contesto è quello di Hollywood e il periodo della vita quando ci si avvicina la mezza età.
Togetherness brilla in alcuni momenti e non convince completamente in altri, ma dalla prima stagione si afferma come una serie lucida sul malessere della vita.