domenica 31 ottobre 2010

ALL STARS: una sit-com polverosa


Un po’ crudelmente son tentata di dire che l’elemento che più mi ha colpito nella sit-com All Stars (Italia1, venerdì, ore 22.15) è il fatto che all’inizio delle puntate, sull’angolo in basso a sinistra del televisore, appare un bollino che avverte che è un programma con inserimento di fini commerciali. Non me ne sarei accorta, se non me lo avessero detto. Anzi, non me ne sono accorta nemmeno dopo che lo ho letto. Non so se sia un bene (lo hanno fatto in modo da non intralciare gli eventi), o un male (lo fanno in modo così ingegnoso da propinarmi quello che vogliono senza che io me ne accorga). Non che sia stata a cercarle con il lumicino. La serie in sé, di Fatma Ruffini su format olandese, provoca anche qualche sonora risata, e la recitazione è di prim’ordine. Non sempre il cast di “tutte stelle” (che in questo caso per la maggior parte mantengono per il personaggio il proprio nome di battesimo) è una garanzia, di per sé. Qui però Diego Abatantuono, Fabio De Luigi, Bebo Storti, Giulio Alberti, Paolo Hendel, Antonio Conrnacchione e tutti gli altri, danno il meglio di sé. L’unica che non mi ha convinta è la altrove brava Ambra Angiolini (che interpreta Anita), esagerata e un po’ rigida nel ruolo. Non basta in ogni caso una buona recitazione a salvare una serie in molti passaggi mal scritta e peggio girata, con un look polveroso. L’inizio è stato un po’ confuso, nonostante la premessa fosse sufficientemente chiara: un gruppo di amici ormai maturi di incontrano regolarmente per giocare a calcetto. C’è l’avvocato, il vivaista, il cassaintegrato, il massaggiatore, il DJ. Sono amici, si sentono al telefono, si incontrano sul campo con la maglia della “Biagetti e figli” (“ma quali figli lui, non ce li ha mica i figli lui”, commentano però), e vivono insieme le piccole e grandi esperienze della vita. Nel pilot, ad esempio, Anita dà alla luce il bebè suo e di Fabio circondata da tutti. Nonostante la gradevole premessa, ha un’aria sporca: passatemi un piumetto che lo spolvero.  

giovedì 28 ottobre 2010

Barack Obama al DAILY SHOW: Yes, we can, ma...


Mercoledì 27 ottobre, meno di una settimana prima delle elezioni del 2 novembre al Congresso americano, il presidente degli Stati Uniti Barack Obama ha partecipato a una puntata del Daily Show, con Jon Stewart (su Comedy Central negli USA e online). Sebbene Obama vi abbia già fatto delle comparse durante le elezioni presidenziali, e abbia anche già partecipato a dei talk show una volta insediatosi alla Casa Bianca (a The View e al Tonight Show) questa è la prima volta che un presidente in carica partecipa al popolarissimo programma comico-satirico. Si è parlato di quello che si è fatto (sanità e stabilizzazione dell’economia), di come funziona la politica a Washington e in misura minore di quello che rimane da fare (energia, lavoro, istruzione).

In collegamento da Washington, e in uno studio dalla scenografia molto istituzionale, la scaletta è stata rivoluzionata per dedicare l’intera puntata al Presidente, verso cui Jon Stewart è sembrato avere un certo timore reverenziale – sembrava quasi agitato - pur non risparmiandogli qualche critica, in particolare una certa “tiepidezza” nell’operato e l’abbandono di quella “audacia” promessa in campagna elettorale. “Yes, we can, ma… ”, ha dichiarato Obama interrotto da una sonora risata del conduttore e del pubblico, “ma non accadrà da un giorno all’atro”.

Nel suo Borowitz Report, il comico Andy Borowitz, ha scherzato:  “In una straordinaria edizione del Daily Show, che è garantito dominerà i titoli dei giornali per giorni, il più potente uomo d’America si è incontrato ieri sera con Barack Obama”. Jon Stewart, pur essendo un comico, ha una forte credibilità e sono molti, specie fra i giovani, che lo considerano una fonte primaria e attendibile di informazione politica. In un sondaggio di qualche anno fa, che chiedeva agli americani di nominare il giornalista che più ammiravano, Stewart si era piazzato al quarto posto, con non poche polemiche a seguire. Per il 30 ottobre il Daily Show, insieme al Colbert Report,  ha anche organizzato una manifestazione a Washington, il “Rally to Restore Sanity and/or Fear”.

venerdì 22 ottobre 2010

LIFE UNEXPECTED: provare a essere una famiglia



In Life Unexpected (Rai2, sabato, ore 15.30), ideato da Liz Tigelaar, Lux (Britt Robertson, Swingtown) appena nata è stata data via perché venisse data in adozione, ma per un problema al cuore nessuno l’ha presa e così ha trascorso la vita fra una famiglia affidataria e l’altra, scontenta in tutte e veramente amata in nessuna. È diventata tosta e ha imparato a far affidamento solo su se stessa. Alla vigilia del suo sedicesimo anno spera di riuscire a emanciparsi per vivere con quella che ha sempre considerato la sua famiglia, ovvero un’amica che ha fin dall’infanzia e i rispettivi ragazzi. Così si presenta inaspettatamente ai genitori biologici per chiedere loro la firma sul documento che dovrebbe consentirglielo. Nate “Baze” Bazile (Kristoffer Polaha) nemmeno sapeva di avere una figlia, perché credeva che la ragazza che aveva messo incinta quando erano entrambi liceali avesse preso provvedimenti diversamente: è un trentaduenne mai cresciuto che vive praticamente nel bar che gestisce in una palazzina datagli dal padre, ma passa più il tempo a giocare ai videogiochi che al lavoro.  Cate Cassidy (Shiri Appleby di Roswell) è una famosa conduttrice radiofonica, che Lux ha ascoltato tutta la vita senza sapere che fosse sua madre, che sta per sposarsi con il co-conduttore della sua trasmissione, Ryan (Kerr Smith di Dawson’s Creek). Nell’incontro con Lux però scatta la scintilla e “Baze” e Kate decidono di provare ad essere dei veri genitori per Lux, che viene loro affidata temporaneamente dal tribunale, e tutti insieme decidono di provare a essere una famiglia. La serie è stata accostata a Gilmore Girls – Una mamma per amica, per il fatto di avere figli e genitori così vicini per età, conflitti multi-generazionali e un potenziale triangolo amoroso, fra Cate, Ryan e Baze, ma non ne ha di certo la verve verbale né la qualità. Si incastona un po’ nel filone di Juno e Molto incinta nel ritratto di giovani costretti a crescere per prendersi cura di prole inaspettata. Talvolta è zuccherino e poco realistico, ma allo stesso tempo c’è una certa crudezza. Come ha scritto Cynthia Fuchs su Popmatters, “i legami sono improvvisi, le relazioni superficiali, il dialogo poco sincero”, ma allo stesso tempo questo è ciò che i protagonisti cercano di superare e la serie riesce a conquistarti almeno un po’. Gli ascolti non sono stati fin’ora dei migliori, in madre patria, e per questo si è progettato un cross-over con One Tree Hill. La canzone della sigla, che potete sopra, è Beautiful Tree, di Rain Perry.

mercoledì 20 ottobre 2010

UNDERCOVERS: "sesspionaggio" alla J.J. Abrams


Le clip che la NBC aveva fatto vedere di Undercovers prima della messa in onda non hanno reso giustizia alla serie. Sembrava decisamente inguardabile. La firma però è quella di J.J. Abrams (Felicity, Alias, Fringe), qui ideatore insieme a Josh Reims, e co-sceneggiatore e regista del pilot. Era doveroso darci almeno un’opportunità. C’è ben poco al di là dell’aspetto ludico, ma come piacere colpevole funziona anche, più di quanto non ci si aspettasse. Steven e Samantha Bloom (gli impassibilmente belli Boris Kodjoe e Gugu Mbatha-Raw) sono due ex-agenti della CIA che hanno deciso qualche anno prima di ritirarsi per sposarsi e avere la possibilità di una vita felice insieme. Gestiscono una compagnia di catering, in cui lavora anche la sorella di lei, Lizzy Gilliam (Mekia Cox). Un giorno Leo Nash (Carter MacIntyre), un loro vecchio collega ed ex ragazzo di lei, sparisce nel nulla durante l’”operazione Cigno Nero”, il tentativo di trovare e catturare Slotsky, un killer terrorista criminale-di-guerra fra i più ricercati dell’Interpol, un apice di piatta cattiveria senza redenzione. Carlton Shaw (un Gerald McRaney in forma smagliante) con rassegnata riluttanza porta loro la proposta dei suoi superiori: la CIA li rivuole per ritrovare l’agente disperso. Viene loro affiancato Bill Hoyt (Ben Schwartz), fan di Steven, un personaggio che, con la sua smaccata ammirazione e un certo timore reverenziale, alleggerisce la tensione e incarna un po’ lo spettatore pieno di devozione per i propri eroi, di cui assiste alle gesta. A fine puntata raggiungono il loro obiettivo, ma la proposta è quella di rimanere a lavorare come spie. Loro naturalmente accettano, e già in corso di via si è accennato al fatto che in realtà li si è “riattivati” al servizio per altre, più oscure ragioni.

I due attori principali sono credibili come coppia e il fatto di avere degli attori neri nel ruolo di protagonisti principali in una serie che mescola azione e romanticismo è abbastanza inusuale da volersi applaudire. Mentirei se non ammettessi che ho pensato ad un “effetto Obama”. Un po’ è Alias, un po’ è Chuck, un po’ Mr. & Mrs. Smith. Ci sono le corse a perdifiato per scappare dalla situazione di pericolo o dal nemico di turno, le scazzottate sui tetti a rischio di precipizio, le torce accese, i database dei computer, i gadget alla James Bond. Steven usa dei gemelli che scattano foto e li trasmettono al computer di Bill, nel pilot, per esempio, Samantha non batte ciglio nel caricare e sparare con un bazuka (o quanto meno un’arma che a me inesperta è sembrata tale) mentre guida: questo è il genere di eventi che ci si può aspettare, e fra un quadro e l’altro, ci scappa che romanticamente si abbraccino in un giro nella sala da ballo del ricevimento in cui si sono infiltrati. Ci sono le location in giro per il mondo, raggiunto nel giro di un battito di ciglia senza sforzo, e ci sono le lingue corrispondenti pronunciate sempre come si fossero parlate fino al secondo prima (spagnolo, francese, russo…). Si può restare soddisfatti fintanto che ci si accontenta di facili avventure a perdifiato e un po’ di romanticismo, di “sesspionaggio” come ha ribattezzato la serie la mescolanza di sesso e spionaggio, e fintanto che non si viene irritati dal fatto che si cerca troppo di essere carini a tutti i costi. La battuta prefabbricata da film d’avventura ti fa ridere finché sei dodicenne, poi la trovi un po’ patetica. Alla fine, mi pare una sorta di Cuore e batticuore giorni nostri, in salsa spionaggio.

lunedì 18 ottobre 2010

HELLCATS: scadente con brio


È basato sul libro Cheer! Inside the Secret World of College Cheerleaders di Kate Torgovnick il nuovo telefilm (ha debuttato l’8 settembre 2010) della CW intitolato Hellcats. Marti (Aly Michalka), una ragazza che al liceo faceva la ginnasta, all’università si concentra completamente sullo studio della giurisprudenza perché vuole un futuro diverso. C’è la crisi, i soldi scarseggiano, le bollette si accumulano e la madre, che lavora come cameriera nel bar del campus e ha un passato dalla bottiglia facile non le è di aiuto – la sempre fantastica Gail O’Grady nel ruolo di Wanda Perkins, in una situazione che fa pensare a un Friday Night Lights dei poveri. Se non trova presto i soldi per pagarsi l’università viene buttata fuori. Per questa ragione fa un provino per entrare a far parte delle Hellcats del titolo, la squadra di cheerleader della sua scuola. Diventando una ragazza pom-pon infatti può ottenere una borsa di studio. Lo passa, anche grazie al voto positivo di Savannah (la Ashley Tisdale di High School Musical, al cui personaggio in originale si fa un rapido riferimento linguistico), leader del gruppo, con il quale ora Marti deve dividere anche camere e spogliatoi.

Sarà che le mie aspettative erano veramente molto, molto basse, ma non mi è dispiaciuto questo telefilm. Ci sono le solite appena passabili storielle di rivalità, amicizia adolescenziale e piccoli amori, ma non è più terrificante di tanti altri telefilm su questo principio (penso a Make it or break it, con un pizzico del ben più qualitativamente interessante Glee). E’ stato criticato il casting che mi pare magari non eccellente, ma dignitoso. E non mi pare nemmeno che le puntate siano solo balletti in stile video musicale, per quanto ne costituiscano una bella fetta, e tanto meno che abbiano ammiccamenti a toni da porno soft – la malizia forse in quel caso stava in chi ha fatto quell’osservazione. Anche pensando direttamente alla critica durante la visione, non l’ho condivisa. Anzi, ho apprezzato mostrassero un’eroina disposta a lavorar sodo per pagarsi gli studi e migliorare la propria vita. Il motto con cui si allenano anche è positivo: ‘energia, esecuzione, eccellenza’. Forse, nella valutazione della serie, è anche questione di aspettative appunto.

Memorabile, e quello sì mi ha fatto ridere di gusto, è stata la battuta-riferimento a Heroes nel pilot. La frase topica di Heroes era “Salva la cheerleader, salva il mondo”, qui è stata girata in “Salva le cheerleader, salva la borsa di studio”. In questo senso, anche quando il telefilm suona come una soap-opera scadente e ha passaggi di trama troppo smaccati, dimostra un certo gusto per il riferimento intertestuale pop, come la ragazza che per riferirsi all’amicizia fra due amici gli dice che erano “tutti Judd Apatow l’uno per l’altro” (1.03) o il professore di diritto (un Gale Harold in forma smagliante dopo il rovinoso incidente stradale che lo ha lungamente allettato mentre era nel cast di Desperate Housewives) che assegna un caso fittizio ai suoi studenti, il  Kobayashi Maru, che è un noto riferimento a Star Trek e a ciò che ha fatto il capitano Kirk per risolvere la situazione nel test che porta quel nome (1.03). Una parte del focus narrativo è concentrato nel ribadire la legittimità sportiva di un’attività fisica che molti sminuiscono, ricordando che ci sono stati nomi noti che si sono dedicati a questa attività (uno per tutti l’ex-presidente americano George W. Bush), mostrando questa necessità dello sforzo per il riconoscimento da parte della squadra, e utilizzando diciture che hanno una grande forza meta-testuale. Un esempio è la frase “La percezione è la realtà”, pronunciata dal suddetto professore di diritto. Lui la riferisce ai casi legali che gli studenti devono affrontare, ma è chiaro che può essere applicata alle vicende delle Hellcats che si trovano prive di fondi perché la squadra di pallavolo ha fatto causa alla scola per averli loro in quanto “ vero e proprio sport”, così come può essere applicata alla serie in quanto tentativo di “difendere la causa” delle cheerleader. Perché a conoscerlo bene, è chiaro che è uno sport. Non manca nemmeno un tropo del genere: l’atleta che sotto pressione, per motivi vari, in questo caso un infortunio, decide di ricorrere a un aiutino farmacologico. Scadente con brio.



venerdì 15 ottobre 2010

ANGEL: la quinta stagione


La quinta è stata l’ultima stagione di Angel – è appena andata in onda su Rai4 (ore 12.25), dove ora lo hanno ripreso dalla prima stagione (ore 9.20). La TV generalista dal canto suo ha semplicemente spesso di trasmetterlo. Complessivamente il telefilm non è mai all’altezza di Buffy, di cui è lo spin-off, ma è sempre efficace nel suo obiettivo primario: ridefinire il concetto e significato dell’essere un eroe, un paladino della giustizia, un champion, come dicono in inglese. A questo proposito la puntata 5.14 (intitolata “Smile Time”), in cui Angel (David Boreanaz) viene trasformato in un pupazzo, emerge come una delle più memorabili dell’intera serie e ci ricorda come la sceneggiatura di Joss Whedon sia in una classe a sé. Questa urgenza tematica si mescola alle tante che sono da sempre state care alla serie, come il significato e il confine fra bene e male, il senso di colpa, il sacrificio, l’espiazione, la redenzione, il perdono, il potere… Battaglie, amicizia e umorismo. La quarta stagione era terminata con un mirabile colpo di scena: Angel aveva accettato di dirigere la sede di Los Angeles della Wolfram & Hart, gli “avvocati del male”, a patto che si cancellasse in suo figlio ogni ricordo della sua vita passata e gli si desse una nuova vita e famiglia felice. Angel, con Wesley (Alexis Denisof), Charles (J. August Richards) e Fred (Amy Acker), pure loro dimentichi di quanto è accaduto nell’anno precedente, si trasferisce nella nuova sede, con ciò che comporta operare per il bene in un luogo tanto moralmente compromesso. Questa quinta stagione  - il cui tema di fondo nell’ottica dell’ultima puntata sembra essere il fatto che la vita è una guerra continua e non importa sconfiggere il mare, perché forse non ci si riuscirà mai, ma importa impegnarsi a combatterlo – è stata di alti e bassi, diseguale e priva di una visione a lungo termine. Il ritorno di Spike (James Masters), dapprima come fantasma, ha assicurato un po’ di umorismo, ma quello di Harmony (Mercedes McNab) è stato un po’ sprecato; i ritorni di Cordelia, Connor, Andrew, Darla, Drucilla, Lindsay, anche quando fugaci, sono state un bel tocco, ma il più delle volte sono stati fuochi di paglia; il flash di Buffy nella terz’ultima puntata ce l’ha mostrata a Roma, ma che pena vedere la rappresentazione del nostro paese bloccata a 50 anni fa; l’apparizione di Illyria (Amy Acker) ci ricorda che nulla mai si può dare per scontato e che questo è un telefilm che, se serve a creare una storia potente, non ha il timore di sacrificare i propri personaggi, cosa che accade fino all’ultimo. Ci sono momenti memorabili, ma la stagione delude e in chiusura si condivide la tristezza con cui esce di scena Lorne (lo scomparso Andy Hallett).

lunedì 11 ottobre 2010

Controversa sigla per I SIMPSON



Ieri sera, negli USA, I Simpson sono andati in onda con una sigla iniziale (la vedete sopra) più lunga del solito che ha creato molta controversia. Il primo mezzo minuto circa è quello di sempre, salvo alcune scritte in cui compare il nome “Banksy”, l’artista dei graffiti inglese che ha ideato la sigla di ieri sera. Poi ci si sposta nello scantinato di fabbriche in cui si sfrutta la manodopera mostrando operai trattati come schiavi per creare le immagini dei Simpson, magliette e gadget vari legati al cartone. C’è anche uno sfinito unicorno usato per fare il foro ai DVD. La ragione di questa rappresentazione è stata una reazione alle notizia che il programma realizza gran parte della sua animazione attraverso manodopera in Corea del Sud. Dietro le quinte ci sono stati molti contrasti in proposito e il dipartimento di animazione avrebbe anche minacciato di andarsene, riporta la BBC.  La sequenza mette in cattiva luce sia la Fox che gli stessi Simpson e Entertainment Weekly, da cui riportiamo la notizia, si chiede come si sia riusciti a fare andare in onda immagini del genere e se si suppone che ci ridiamo su.

MY GENERATION: una generazione sconfitta


È forse il senso di sconfitta che pervade il telefilm la ragione che non lo ha fatto decollare. Fra tutte le nuove serie al debutto quest’anno, My Generation era quella che come concetto mi intrigava di più: 9 ragazzi erano stati filmati da una troupe documentaristica nel 2000, l’anno del loro diploma. Questa stessa troupe, a 10 anni di distanza, entra di nuovo nelle loro vite per scoprire che cosa è successo nel frattempo e se i sogni e le aspirazioni che avevano ai tempi della scuola superiore si sono realizzati. Questa e la premessa. Peccato che anche questo atteso telefilm, come Lone Star, sia stato cancellato dopo solo due episodi. Sviluppato per la televisione americana da Noah Hawley, è basato sul primo episodio della serie Tv svedese Blomstertid, scritta da Peter Magnusson e Martin Persson. Nella versione d’oltreoceano i nove compagni di  liceo vengono etichettati così come è loro abitudine fare negli annuari: Dawn Barbuso (Kelli Garner) è la punk; Rolly Marks (Mehcad Brooks, che interpretava Eggs in True Blood) è lo sportivo; Kenneth Finley (Keir O'Donnell) è il nerd; Brenda Serrano (Daniella Alonso, vista in Friday Night Lights) è il cervello; Jackie Vachs (Jaime King, Kitchen Confidential) è la reginetta di bellezza; Ander Holt (Julian Morris, Pretty Little Liars, 24) è il ragazzo ricco; Caroline Chung (Anne Son) è la “wallflower”, la ragazza timida che fa sempre da tappezzeria; Steven Foster (Michael Stahl-David) è quello destinato al successo; Falcon (Sebastian Sozzi) è la rock star.

Il tempo è passato, e insieme ad esso le illusioni. C’era il boom economico  dell’era Clinton; ci sono stati l’11 settembre, Bush v. Gore, l’uragano Katrina, i conflitti nella zona Golfo, i reality (a cui la serie deve anche in parte la sua estetica), gli scandali del fallimento della Enron; ora c’è Obama, e le vite di quelli che un tempo erano ragazzi si sono trasformate insieme al Paese. Girato come fosse un vero documentario, la storia viene raccontata con passaggi fra passato e presente, a momenti c’è una voce fuori campo che commenta e spiega, i personaggi sono consapevoli della presenza di una telecamera e talvolta sono a disagio per questo, ci sono inquadrature in qualche caso rubate o mosse e piccole interviste… Dawn è ora incinta di Rolly che si è arruolato nell’esercito e combatte in Afghanistan. Viene aiutata da Kenneth, ora insegnante delle elementari, che, in assenza di Rolly e in mancanza di una famiglia propria, si presta a farlo. Jackie è sposata con Anders che non ha dimenticato Brenda. Nemmeno lei lo ha fatto, anche se non è diventata la scienziata che voleva, ma la decisione della Corte Suprema della decisione Gore v. Bush che ha scelto Bush come presidente le ha fatto intraprendere una carriera legale e ora lavora a Washington. Caroline, dopo tutti questi anni di silenzio, annuncia a Steven che ha avuto un figlio da lui. Lui, studente di Yale, la lasciato gli studi dopo l’arresto del padre per frode e fa il barista e si dedica al surf alle Hawaii. Originale e pieno di potenziale il telefilm vede la maggior parte di questi giovani adulti in qualche maniera sconfitti, disillusi. L’ho trovato realistico, anche se un po’ tirato dalla necessità di rendere ancora così collegate le reciproche vite. E un po’, devo ammetterlo, mi ha intristito. Penso sia stata una pecca non vedere almeno un po’ di gioia e successo anche in quelle che apparentemente sono sconfitte.

venerdì 8 ottobre 2010

Cancellato dopo solo due episodi il promettente LONE STAR


Prima del debutto era una delle serie della stagione 2010-2011 più apprezzate dai critici, ma Lone Star (sull’americana FOX), è stata la prima della nuova informata ad essere cancellata, dopo solo due episodi. Si era detto che aveva un ‘feeling da TV via cavo’, un complimento che è sinonimo di qualità e complessità psicologica di personaggi ricchi di chiaroscuri. I nomi fra i produttori esecutivi di Peter Horton e di Christopher Keyser ed Amy Lippman (Party of Five) erano una garanzia.

Sin da bambino è stato introdotto dal padre John (David Keith) ad una vita di crimine. Fa un colpo grosso e sparisce truffando la gente di migliaia, quando non milioni di dollari, fino a che non trova la sua vittima successiva. Robert Allen (James Wolk) – il miglior imbroglione dopo Sawyer di Lost secondo TV Guide, e con un fascino alla Grande Gatsby secondo Entertainment Weekly – è ora adulto e vuole una vita diversa, una vita reale. Vive in Texas ed è sposato con l’ereditiera Cat (la Adrienne Palicki di Friday Night Lights). Il padre di lei, Clint Thatcher (un brillantissimo, scaltro, vagamente minaccioso Jon Voight) gli ha appena affidato una posizione di rilievo nella sua azienda, che ha a che vedere con il petrolio. In questa versione è un serio uomo d’affari in giacca e cravatta. Per una parte del tempo però, compiuto il rituale di sostituire portafogli e cellulare, vive una doppia vita in jeans e stivali da cow-boy, accanto alla fidanzata Lindsay (Eloise Mumford), la classica ragazza della porta accanto. Robert dice di amare entrambe le donne, e vuole finalmente una vita da cui non debba fuggire, un lavoro regolare, contro la diversa opinione di suo padre che si sente tradito.

Il telefilm, ideato da Kyle Killen, è stato accostato più volte a Dallas, per l’ambientazione texana nel mondo del petrolio, chiaramente, ma anche per una certa vaga tinta di complicazioni da soap, e anche a Big Love, per il fatto che il protagonista si ritrova con due mogli. Come sensibilità e tematiche però a me ha fatto più pensare a The Riches: vite ai margini della legalità; necessità di mantenere costantemente una facciata di finzione, per la quale è spesso necessario re-inventarsi di continuo ed essere sempre un passo avanti a quelli che ti circondano (che sia inventare una menzogna quando uno dei due figli di Clint scopre che no ha mai alloggiato nell’albergo dove tutti lo credevano nelle trasferte, o escogitare che cosa raccontare alla sua ragazza che in occasione dei preparativi per il matrimonio cerca di scavare nel suo passato per trovare gente da invitare); costante timore di venire scoperti – una tensione di suspense per lo spettatore; desiderio di una vita normale – Robert sa che si trova dentro castello di carte che potrebbe crollare da un momento a un altro, ma vuole viverci; fragilità dei rapporti familiari che il diverso equilibrio spinge a rivalutare (qui il padre si sente prima escluso da una decisione che non condivide, poi accusato per il passato); significato del matrimonio; costante interrogativo sulla moralità delle proprie azioni; difficoltà a trovare il confine fra vero e falso, fra il sogno e la realtà – Robert vuole tutto. Peccato ci siano solo due puntate (più tre mai andate in onda), perché non solo ero pronta a vederne di più, ma con un numero così ridotto di episodi c’è poca speranza di averlo, volendo, in DVD. Del resto, con il clima economico che c’è, è anche comprensibile che agli americani non vada di avere un eroe, fosse anche un anti-eroe, che li truffa di grossi quantitativi di denaro.

Sarah Scazzi e la TV del dolore


Sul “Sole 24 Ore” è apparso un articolo intitolato A chi giova la «tv verità»?, in cui ci si interroga sull’opportunità di andare avanti a carro armato, senza curasi di nulla e di nessuno, mandando immagini come quelle di Chi lo ha visto? (Rai3), che il 6 ottobre (il link porta alla puntata specifica) ha continuato il collegamento con la madre della giovane Sarah Scazzi, fino ad allora solo scomparsa, che ha saputo in diretta della morte della figlia. Andare avanti ad oltranza non giova a nessuno. Condivido quanto espresso dall’articolo. Il link sopra riporta alla puntata intera. Volendo vedere solo il momento incriminato basta cliccare qui. Io, proprio perché condivido quello viene detto nell’articolo, scelgo di non guardarlo. Avrei girato canale se mi ci fossi trovata? No. Ma non scelgo di vederlo sapendo quello che è accaduto.

In fondo l'esistenza della fiction serve anche a questo, a mostrare in narrativa quello che nella vita reale non mostri per rispetto delle persone coinvolte. Un conto è quando  si parla di malattie o cose del genere. In quelle situazioni pensi che almeno il dolore può essere utile a qualcun altro – io mi sono lasciata “sfruttare” per parlare a I Fatti Vostri della mia storia, munta in tutto il suo aspetto più doloroso proprio per questo. In questo caso non vedo utilità, anche quando non ne apprezzo comunque il registro.

Mi sono chiesta la stessa cosa anche ieri sera quando il TG5 ha mandato in onda una intervista esclusiva alla cugina, che era disperata non solo della perdita di Sarah, chiaramente, ma anche del fatto di aver scoperto che il padre era un assassino. È stata TV del dolore, e di solito la condanno in toto. Ieri però devo ammettere che un po’ ne ho capito il senso, almeno in questo caso. Ho vissuto l’evento con una certa partecipazione, più di quanto non faccia di solito con queste storie. Vado spesso ad Avetrana, è il comune limitrofo a quello dove vado in vacanza. In qualche modo mi sono sentita coinvolta e ho seguito un po’ le vicende. In TV tontonano di continuo con ogni dettagli di queste vicende. E alla fine, umanamente, così come “narrativamente”, vuoi il finale. Ti hanno fatto interessare a queste persone. Nel momento di catarsi e di conclusione vuoi esserci, vuoi capire, vuoi sentirti vicino a quelle persone che hai seguito fino a quel momento. Ne hai bisogno. Diversamente sarebbe un quasi tradimento.

Non credo che vedere il dolore di un’altro essere umano in maniera così feroce e immediata sia necessariamente un abuso. O meglio, il più delle volte lo percepisco come tale, ma  penso sia anche un modo di ritrovarci nella comune umanità, che è fatta anche di dolori. Preferirei che non ci fosse. Preferirei che il dolore rimanesse privato. Forse sono molto nordica in questo. Ne ho pudore, anche. Penso però che la TV ab origine, per così dire, dovrebbe non attaccarsi in maniera morbosa a queste storie. Dovrebbe avere il coraggio di dare la notizia e passare oltre. Perché concentrarsi su tutti i dettagli più torbidi sì non ha senso. Non giova alle indagini, non giova nell’eventuale giudizio in tribunale, non giova alla propria vita. Giova meno sicuramente di mostrare chiunque affranto dal dolore. Non puoi decidere di cominciare a raccontare e fermarti a tre quarti.  Come mi ha insegnato Paolo Taggi: la Tv è storia, è racconto. Tutta.


giovedì 7 ottobre 2010

Le 100 donne più potenti al mondo secondo FORBES


La rivista Forbes ha fatto uscire la propria lista delle 100 donne più potenti al mondo. Prima fra tutte è risultata Michelle Obama. Prima fra le donne di spettacolo Oprah Winfrey (magnate, presentatrice di talk show), terza.  A seguire, fra coloro che vedono la propria immagine legata anche al piccolo schermo in varie capacità: Lady Gaga (cantante, 7), Beyonce Knowles (cantante, 9), Ellen DeGeneres (comica, presentatrice di talk show, 10), Angelina Jolie (attrice, 21), Katie Couric (giornalista, 22), Madonna (cantante, 29), Heidi Klum (modella, produttrice, presentatrice, 39) Meredith Vieira (giornalista, 40), Sarah Jessica Parker (attrice, 45), Diane Sawyer (giornalista, 46), Rachel Maddow (giornalista, 50), Anne Sweeney (co-presidente della Disney Media Networks, 69), Christiane Amanpour (giornalista, 73), Rachael Ray (presentatrice, 78), Martha Stewart (magnate, 99).

mercoledì 6 ottobre 2010

Chris Colfer e altre star della TV ai giovani gay: LE COSE MIGLIORANO



Nelle ultime settimane, negli Stati Uniti, si sono verificati molti suicidi di adolescenti gay che si sono tolti la vita in seguito a episodi di bullismo. La discriminazione sociale e lo stigma portano questi ragazzini a vivere una vita d’inferno e spesso si accompagnano sentimenti di vergogna e odio per se stessi molto forti, con conseguenza irrimediabili. Per questa ragione sono partiti due progetti che vengano in aiuto di questi ragazzi: “It gets better” e “Give a damn”. E sono molte le star televisive che partecipano in prima persona.
“It gets better” (Le cose miglioraro) è una iniziativa di Dan Savage, curatore di una notissima rubrica di consigli sessuali – Savage Love - e autore di numerosi libri. Proprio in quello spazio, lo scorso 23 settembre (se cliccate il link cercate la terza notizia) ha scritto: “Nove su 19 teenager gay fanno esperienza di bullismo e molestie a scuola, ed è 4 volte più probabile che gli adolescenti gay tentino il suicidio. Molti ragazzi LGBT che si ammazzano vivono in aree rurali, extraurbane, e suburbane, luoghi in cui non ci sono organizzazioni gay o servizi per i ragazzi queer.” Parlando di Billy, un quindicenne che si è impiccato nel granaio del nonno, ha aggiunto “Vorrei aver potuto parlare con questo ragazzo per 5 minuti. Vorrei aver potuto dire a Billy che le cose migliorano. Vorrei averglielo detto, per quanto le cose fossero brutte, per quanto isolato e solo fosse, le cose migliorano.” E così ha lanciato un canale su YouTube, il “ It gets better project”, il “progetto le cose migliorano”, proprio per questo, perché la gente possa dire ai giovani gay là fuori che non hanno nessuno, che le la situazione non è destinata a rimanere così tragica. All’iniziativa si è subito unito il Trevor Project, un’organizzazione che si occupa proprio di crisi e prevenzione del suicidio fra i giovani LGBTQ: gay, lesbiche, bisessuali, transgender, e “Q” che solitamente nella sigla viene inteso come Queer - in italiano si traduce “frocio”, ma il termine, un tempo insultante, è utilizzato in termini positivi e propositivi -, ma che da questa organizzazione è utilizzato anche nel senso di Questioning, ovvero giovani che semplicemente si interrogano sulla propria sessualità. Attraverso il Trevor Project, a questa iniziativa hanno partecipato numerose star della TV (e non solo) che hanno girato un video per dire che le cose migliorano: Jenny McCarthy, Greg Grunberg, Candice Accolla, Ian Somerhalder, Shay Mitchell, Kristin Cavallai, Julie Benz,  Michael Chicklis, Katerina Graham, Rex Lee, Anne Hathaway… Lo stesso ha fatto Chris Colfer (il Kurt di Glee), gay nella vita e nella finzione scenica.  Nel video, che vedete sopra, fa un appello diretto proprio a questi giovani in difficoltà.  Ecco quello che dice, tradotto: 

"Ciao! Sono Chris Colfer. Nell’ultimo paio di settimane, un certo numero di giovani LGBT si sono tragicamente tolti la vita a causa di brutte circostanze dei loro ambienti. Se anche tu, o qualcuno che conosci, state pure avendo un momento duro, è vitale che tu sappia che ci sono persone là fuori a cui importa e che possono aiutare. So che cosa significa essere oggetto di bullismo e derisione ogni singolo giorno. E so che  può sembrare che non ci sia più nessuna possibilità di felicità, ma ti assicuro che c’è un mondo pieno di accettazione e di amore che sta solo aspettando che tu lo trovi. Perciò, per piacere, prima di intraprendere un’azione drastica che potrebbe essere la tua ultima, chiama il Trevor Project. Sappi che hai amici, che sei amato e che non sei solo. E sappi che nonostante un momento tanto difficile c’è tanto che ti attende. E aspetto condividerlo con te. Ti assicuro che le cose migliorano molto. Grazie."

Give a Damn” (A noi "frega qualcosa”) è invece una Campagna per chiunque voglia dire che non è vero che a noi non frega niente, a noi frega dell’equaglianza dei gay, laschiche, bisessuali, e transessuali. La missione, secondo quanto indicato sulla pagina facebook è  di “far sì che tutti, soprattutto gli eterosessuali, si informino, siano coinvolti”. Anche qui, sono state molte le star della TV (e non solo) a offrire il proprio volto in video per dire che “ci frega qualcosa”.

“SE… A CASA DI PAOLA”: fiacca e raffazzonata



Spesso si guarda alla prima puntata di un programma per capire quello che vuole essere. C’è l’ansia dell’inizio e i meccanismi non sono sempre ben oliati, ma si è anche tutti in tiro, desiderosi di mostrarsi al meglio, pieni di entusiasmo. La prima puntata di Se… a casa di Paola ha debuttato ormai qualche settimana fa (il 13 settembre), ma la prima impressione non è stata delle migliori. Vestitino nero con orlo subito sopra il ginocchio e spalle scoperte, la scioltezza e la tranquillità della veterana, Paola Perego è ritornata in Rai con un people show che si sforza di essere originale almeno quanto noi ci sforziamo di non sbadigliare nel guardarlo. La scenografia è una enorme piattaforma di cerchi concentrici che formano tre scalini su cui ci sono i divani dove si fermano a chiacchierare gli ospiti e che si apre un vasto spazio per il pubblico. Ariosa e luminosa è giocata sul viola, il ciclamino, il blu e si avvantaggerebbe solo forse si toni più delicati. C’è una band in sala che rallegra l’atmosfera, c’è un angolino che la conduttrice dice di voler conservare tutto per sé: tendaggio di velluto rosso e un telefono rosa. Il pubblico in studio non sentirà quello che lei dice lì, confida - bella trovata per far sentire quello da casa più addentro anche di chi è lì – aggiungendo che vorrà renderlo più intimo e vissuto – speriamo perché il look da bordello kitsch non credo sia quello che avevano in mente. All’esordio di questa nuova avventura si è chiacchierato con i Cugini di Campagna, zeppone colorate e abiti tutti paillettes, che hanno mostrato le foto scattate al cimitero quando ancora si facevano chiamare Medium. Si sono pure esibiti. Una donna separata poi, in cerca di consigli per aggiustare la coppia, ha parlato con l’avvocato di lui che ne faceva le veci (lui non intendeva rivelarsi), seduta all’altro capo di un tavolone: forse avrebbero dovuto fare delle prove perché la conversazione è risultata stitica, forzata. Una sociologa (?!), una “trainer di sentimenti” come la hanno chiamata (doppio “?!”), ha dato degli esercizi per casa, dei consigli pratici li hanno chiamati, per risolvere i loro problemi: scrivere le proprie emozioni su fogli da spargere per casa, fare la lista dei comportamenti che non vanno l’uno dell’altro, trovare un sera a settimana per cenare insieme. Hanno cercato di proporre qualcosa di nuovo, ma è risultato molto macchinoso e la geografia spaziale dei partecipanti era tutta sbagliata. Un paio di filmati (gli eventi dell’estate, i preparativi di nozze di una coppia), un’altra storia personale. In corso di via, in tempi di magra sarebbe anche stata una puntata forse accettabile, ma per una prima puntata è sembrata raffazzonata e si è partiti decisamente fiacchi. A ieri, Paola Perego con jeans e blusa blu e coda di cavallo, Massimo Ciavarro come primo ospite chiamato in studio, l’impressione data dal programma non è migliorata.

lunedì 4 ottobre 2010

Corso su MISTERY e NOIR per il cinema e la TV


Un nuovo corso dedicato al Mistery e al Noir per il Cinema e la TV verrà presentato il prossimo 25 Ottobre presso la sede della Scuola di Cinema di Napoli.

Il corso sarà articolato in:

- GENERI E SOTTOGENERI di Maurizio de Giovanni (autore per Fandango ed Einaudi)
- IL CINEMA NOIR CLASSICO E L’ESPLOSIONE DEL NEO-NOIR di Valerio Caprara (Presidente Film Commission Campania, Università di Napoli L'ORIENTALE)
- MISTERY & NOIR NELLE SERIE TV AMERICANE di Giuseppe Cozzolino (presidente di Mondocult, Università di Napoli L'ORIENTALE)
- LA FICTION ITALIANA di Ugo Mazzotta (autore per RIS, Distretto di polizia, Todaro)
Ci saranno però anche focus ulteriori su:

- GIALLO & NOIR AL FEMMINILE di Diana Lama (autrice per Piemme, Sperling, Garzanti, Sonzogno, Mondadori)
- IL GENERE HORROR di Simonetta Santamaria (autrice per Gremese, Giallo Mondadori)
- IL NOIR A FUMETTI di Andrea Carlo Cappi (autore per Mondadori, Sonzogno, Vallardi, Alacran)

Il Corso ha stabilito una serie di intese e convenzioni con alcune delle migliori case editrici e rassegne, specializzate e no, fra cui Giallo Mondatori, Editrice Astorina – Diabolik e Todaro Editore, e gli studenti del corso potranno inviare loro materiali in lettura (soggetti, racconti, sceneggiature). Al termine dell'attività didattica verrà inoltre realizzata un'antologia di racconti brevi degli allievi che verrà pubblicata nella Collana "Mondo Cult", edita dalle Edizioni BOOPEN LED.
Per ulteriori informazioni: www.scuoladicinema.tv,  info@scuoladicinema.tv, 081/5511242.

sabato 2 ottobre 2010

OUTLAW: Jimmy Smits è giudice in una pessima serie


Outlaw, il telefilm che ha debuttato il 15 settembre sulla NBC ideato da John Isendrath, in cui Jimmy Smits interpreta un giudice della Corte Suprema che decide di dimettersi per fare l’avvocato, è atroce. Non so nemmeno l’ultima volta in cui ho visto qualcosa di tanto pateticamente scadente. Mi sono vergognata per quelli coinvolti nel progetto. Già la premessa non sta in piedi. I Justices (come vengono chiamati i giudici della Corte Suprema americana) sono fra le persone più potenti che ci si possano immaginare in campo giuridico. Le loro sentenze diventano law of the land, in pratica legge. E il giudice Cyrus Garza – che va in crisi a un anno dalla morte del padre perché questi non era d’accordo con lui – decide di abbandonare la professione perché ritiene di non riuscire a essere efficace a sufficienza nel combattere i mali del mondo perché come giudice gli tocca essere imparziale e preservare lo status quo? Posso ridere? Posso piangere per la totale mancanza di comprensione giuridica? Posso sollevare un’obiezione, vostro onore? Rivedere la propria filosofia giudiziaria no? Comunque, passi anche la premessa. Un po’ di sospensione di incredulità gliela avremmo anche concessa, se era necessaria per poi mostrarlo affrontare casi scottanti e di grande attualità. Del resto, i 9 di cui fa parte Garza sono chiaramente quelli di oggi. Conservatore, lo ha nominato Bush, nella ricostruzione della finzione. Lo scranno su cui si siede vede come compagni di lavoro il giudice Ginsburg e il giudice Scalia, fra gli altri, in un casting e un trucco attenti a far sì che gli attori somigliassero ai veri attuali Justices. Già il primo caso però, sulla pena di morte, si è risolto in modo risibile: l’accusato era innocente, e colpevole era un poliziotto che aveva minacciato una testimone per coprire il suo crimine. E la presentazione è stata così contorta che l’unica reazione possibile è una smorfia. Il protagonista ha fatto lo sbruffone arrogante con gli altri giudici. I collaboratori sono uno peggio dell’altro: l’investigatrice Lucinda (Carly Pope) è una ninfetta in astinenza;  un suo law clerk, Eddie (jesse Bradford) è completamente dimenticabile; l’altra, Mereta (Ellen Woglom), ad un certo punto, credendo erroneamente che al suo capo rimangano solo 3 mesi di vita, gli dichiara pubblicamente amore eterno, in una scena intesa come volontariamente imbarazzante, ma che lo è stata ancora di più involontariamente. E trenta secondi dopo si è continuato come nulla fosse successo. Un po’ dispiace per il bravo Jimmy Smits, già reduce recentemente di un’altra serie davvero mal riuscita, Cane. Qui il giudice sono io, e condanno Outlaw senza possibilità di appello.

Scomparso a 69 anni STEPHEN J. CANNEL


Lo scorso 30 settembre è scomparso a 69 anni, per complicazioni in seguito a un melanoma, Stephen J. Cannel, prolifico autore televisivo di molte serie di successo, sceneggiatore e produttore. Tantissimi sono i titoli associati al suo nome, la maggior parte dei quali sono passati anche in Italia: A-Team, 21 Jump Street , Baretta, Hunter Hardcastle e McCormick, Ironside, Adam-12, La squadriglia delle pecore nere, Riptide, Renegade, Ralph supermaxieroeSebbene fosse noto prevalentemente per telefilm con scazzottate e inseguimenti, Cannell si è anche guadagnato la stima della critica con serie come Agenzia Rockford (1974-1980), per il quale ha vinto anche l’Emmy, e Wiseguy (1987-1990). Occasionalmente ha fatto anche qualche apparizione in veste di attore. Di recente in Castle.