venerdì 15 marzo 2024

THE REGIME: farsesco

Mi risulta intollerabile seguire The Regime – Il Palazzo del Potere (HBO; Sky Atlantic) oltre la prima puntata, nonostante siano solo sei. Attraverso un regime dittatoriale fittizio centroeuropeo, vuole essere una satira su come il potere privo di restrizioni corrompe, ma non riesce mai a trovare il tono giusto. Forse sono io che non ne apprezzo il gusto per farsa e assurdo, mai certa di quanto voglia essere umoristico – lo è per nulla o molto poco e quanto una critica al vetriolo degli abusi perpetrati da persone atroci, con una porzione riservata anche ai vecchi Stati Uniti anche questo lo è piuttosto poco. La creazione di Will Tracy, con la regia di Stephen Frears e Jessica Hobbs, si addentra in territori bazzicati da Armando Iannucci (Veep), ma in questo caso con risultati molto meno graffianti e gratificanti per lo spettatore. Magari semplicemente non è per me, che vengo infastidita anche dai filtri scelti dalla fotografia, e ci sarà un futuro in cui ne riconoscerò l’alto valore artistico che alcuni vedono, ma per ora trovo anche generoso il punteggio di 57/100 che ci attribuisce Metacritic con il suo semaforo giallo.

Kate Winslet interpreta la cancelliera Elena Verham, una donna ipocondriaca, germofobica che chiede di misurare costantemente l’umidità dell’aria poiché percepisce costantemente il rischio di muffe a palazzo, gestito con rigore da Agnes (Andrea Riseborough). Elena ha perso il padre per una malattia polmonare e teme sia la sua stessa sorte. È sposata con Nicholas (Giullaume Gallienne), che ha conosciuto a Parigi e che lei ha sposato dopo che lui ha lasciato la sua prima famiglia. Presto suo fidato consigliere diventa il militare che era inizialmente incaricato a precederla con un igrometro ovunque andasse, Herbert Zubak (Matthias Schoenaerts), che ha il nomignolo di Macellaio dell'area cinque", o anche semplicemente Macellaio, per aver trucidato dei minatori in una miniera di cobalto.

Sono palpabili la sensazione che nessuno è al sicuro, tipica dei regimi dittatoriali retti da folli, sani di mente quel tanto che basta da riuscire a legittimare il proprio potere come facciata, così come il disagio di una pletora di dipendenti costretti ad accontentare ogni eccentricità e di un pubblico costretto ad applaudire in ogni situazione anche immeritata – come ho pensato all’imperatore romano Nerone, quando Elena canta stonata a un ricevimento del presidente statunitense, e tutti fingono di apprezzare. C’è una destabilizzante “folie à duex psicosessuale” fra Vernham e Zuback, come la chiama appropriatamente Variety, che sbaglia però per me a ritrovarvi un’estetica del fascismo, se non molto superficiale, quando ne è più una versione kitsch. E la regnante è specchio dei molti, troppi dittatori che ha visto il nostro passato e vede il nostro presente, c’è solo l’imbarazzo della scelta fra i nomi. Qui però c’è stringi-stringi poca politica. Mi rammarico, fermandomi io al primo episodio, di non aver visto all’opera Martha Plimpton nel ruolo della segretaria di Stato americana, o Hugh Grant in quello del leader dell’opposizione, ma non trovando la miniserie né divertente né penetrante, ma altamente respingente, me la risparmio. 

martedì 5 marzo 2024

MONARCH: il ritorno di Godzilla

È deboluccia la serie Monarch: Legacy of Monsters (Apple TV+), ideata da Chris Black e Matt Fraction e basata sul personaggio di origine giapponese di Godzilla, che ha debuttato in un film del 1954. Le dieci puntate della prima stagione fanno seguito al film del 2014 proprio intitolato Godzilla, con qualche abbondante spruzzata di sensibilità alla Stranger Things, specie verso fine stagione, ma già evidente anche dalla colonna sonora. Il plot è in realtà molto solido e ben costruito, c’è buona azione e senza tempi morti, ma certi passaggi sono molto improbabili e i dialoghi appena passabili, una cosa da ragazzini, il vero punto debole. L’aspetto più godibile sono i mostri: quelli sì che sono epici, con effetti speciali particolarmente convincenti. Almeno quello, visto che per il resto appare dignitoso ma dozzinale. Forse la colpa è mia che non colgo gli homage volutamente vintage alla pellicola originaria.

Siamo nel 2015. Cate Randa (Anna Sawai), una giovane insegnante di San Francisco che ha perso i sui allievi e la sua ragazza a causa dell’apparizione di uno di quei giganteschi mostri a forma di rettile che ha distrutto la città in quello che è conosciuto come il G-Day, si reca in Giappone dopo la morte del padre Hiroshi (Takehiro Hira) per raccogliere le sue cose. Scopre che il genitore aveva una doppia vita e conosce il suo fratellastro Kentaro (Ren Watabe), un artista che pure non sapeva di avere una sorellastra. Insieme, anche con l’aiuto di un’amica di lui, May/Corah (Kiersey Clemons), una hacker ex-dipendente della Applied Experimental Technologies (poi divenuta Apex Cybernetics), cercano di scoprire che cosa sia accaduto al padre, che in realtà non è morto, e si imbattono in una organizzazione governativa segreta, chiamata Monarch, che si occupa di questi esseri giganti chiamati Titani, ma anche MUTO (che sta per Massive Unidentified Terrestrial Organism, ovvero "enorme organismo terrestre non identificato"). Ad aiutarli ci sarà anche Tim (Joe Tippet).

I ragazzi vengono in contatto in particolare con il colonnello Lee Shaw (Kurt Russell, e da giovane e con meno gradi militari suo figlio Wyatt Russell – una brillante scelta di casting), che è stato uno dei fondatori di Monarch e doveva inizialmente proteggere, a partire dagli anni ’50, la scienziata Keiko Miura (Mari Yamamoto) e il criptozoologo Bill Randa (Anders Holm). Shaw pur novantenne è misteriosamente ancora all’apparenza piuttosto giovane, aspetto che nella diegesi viene spesso sottolineato e in chiusura di stagione convincentemente spiegato con un colpo di scena che non rivelo per evitare spoiler, ma che mi ha portato alla mente un’antica leggenda giapponese che ho letto nella mia infanzia costruita sulla stessa premessa, quella di Urashima Tarō (a leggere il link, se non la conoscete, capite). Devo ammettere che questo recupero culturale nascosto l’ho molto apprezzato.

In questa serie i mostri non hanno un’identità, ma nella loro “liminalità ontologica”, per dirla alla teoria dei mostri di Cohen, sono appunto un generico altro e un generico mostruoso che incute terrore. Nella cultura giapponese questi kaijū, come vengono chiamati, questi mostri giganti, sono nati in risposta alla seconda guerra mondiale, alle paure legate agli esperimenti atomici e alle radiazioni nucleari. Ancorano al visibile queste ansie incarnandole in iconici personaggi mostruosi, dando il via a un genere vero e proprio. Non percepisco che nella nostra epoca abbiano un valore apotropaico – potrei sbagliarmi, forse sono io che non lo vedo – e al di là di rappresentare una generica minaccia, non riesco a figurarmi che valore possano avere nella cultura contemporanea. Se per il Giappone si può ben concepire un tentativo di recupero di culture popolari come metodo di soft power per il nation branding, a livello globale è più difficile spiegarselo. Forse per trovare una risposta pregnante bisognerebbe leggersi “Mostri del Giappone - narrative, figure, egemonie della dis-locazione identitaria” di Toshio Miyake, che esamina il potenziale critico della mostruosità in termini di spostamento dell'identificazione naturalizzata e di alterità, all'interno dell'intreccio globalizzante delle auto-rappresentazioni e delle etero-rappresentazioni del Giappone. Forse, come si dice anche in quel testo, c’è solo una “tensione nostalgica per il re-incantamento della contemporaneità e soprattutto di un’attrazione collettiva per un ‘mondo altro’”, cosa che a fine stagione appare più evidente.

Sebbene Keiko venga poi mostrata come sensibile ai kaijū, interessata a conoscerli e trattarli come esseri senzienti e non solo come un obiettivo militare, non si percepisce mai nemmeno un sottotesto animalista o ambientalista, che potrebbe essere un gancio alla contemporaneità. Anche gli aspetti umani lasciano a desiderare con relazioni appena abbozzate e insoddisfacenti fra i personaggi. Ci si muove nel tempo, ma molto anche nello spazio, con location fa le più varie, ma anche questo anelito globale e culturalmente variegato non viene sfruttato come potenzialmente si potrebbe.

Sono sicura che la pre-adolescente che ero avrebbe gradito il franchise del MonsterVerse, che per quanto kitch si presta alla facile avventura, ma l’adulta che sono passa e dubito concederò una seconda stagione, nonostante una season finale veramente commovente in cui Mari Yamamoto ha saputo ben trasmettere le intense emozioni vissute dal proprio personaggio.  

sabato 24 febbraio 2024

THE FALL OF THE HOUSE OF USHER: serie gotica ispirata a Poe

Liberamente tratta dall’omonimo racconto di Edgar Allan Poe del 1840 e da altre sue opere, The Fall of the House of Usher - La caduta della casa degli Usher (Netflix – rilasciata il 12 ottobre 2023) è un horror gotico che si muove su due assi temporali: il primo fra il 1953 e il 1980, in cui si narra l’ascesa al potere del potente CEO di un'azienda farmaceutica, la Fortunato Pharmaceuticals, e della sua sorella gemella, ambiziosa direttrice operativa dell’azienda; il secondo, nel momento presente della prima messa in onda, quando inizia un processo nei confronti della famiglia Usher ritenuta responsabile della morte di moltissime persone che assumevano il loro farmaco di punta, il Ligodone, che ha causato l'epidemia di oppioidi mentre negavano che creasse dipendenza, e quando il magnate perde a uno a uno tutti i suoi sei figli nel giro di due settimane.

ATTENZIONE SPOILER

Roderick Usher (Bruce Greenwood; e da giovane adulto Zack Gilford), il CEO di cui sopra, dopo il funerale dei suoi figli, invita a casa propria C. Auguste Dupin (Carl Lumbly), un sostituto procuratore degli Stati Uniti. Costui ha trascorso la vita a cercare di portare alla luce il marcio della Fortunato, e Roderick gli racconta come ha iniziato la sua carriera, dell’apporto di sua sorella Madeline (Mary McDonnell, e da giovane adulta Willa Fitzgerald) e della misteriosa donna, Verna (Carla Cugino) anagramma di Raven-Corvo, una delle svariate forme che riesce ad assumere, che avevano incontrato nel Capodanno del 1979, con la quale avevano stretto un patto e che è responsabile della cruenta morte dei suoi discendenti. Soffre di una patologia chiamata CODASIL - una “leucoencefalopatia vascolare caratterizzata da una serie di episodi clinici tra cui icuts ricorrenti, emicrania, sintomi psichiatrici e disturbi cognitivi” ci dice il sito dell’ospedale Niguarda, una demenza vascolare dice più in semplicità la serie - per cui ha delle allucinazioni. Nondimeno ricorda con chiarezza i suoi inizi ambizioni ma idealistici, e nel presente la tragica fine dei suoi cari. Ora è sposato con Juno (Ruth Codd) e suo consigliere è l’avvocato Arthur Pym (Mark Hamill).

Muoiono in ordine di età, dal più giovane al più vecchio tutti i sui figli, gli ultimi due i soli legittimi nati dalla stessa madre – i loro nomi sono presi ognuno da una diversa opera di Poe (per questo e tanti altri riferimenti all’opera dell’autore americano si veda questo interessante pezzo su The Walk of Fame). Prospero (Sauriyan Sapkota), un edonista dedito ad orge e droghe che si merita l’appellativo di “Gucci Caligola” viene annientato da una pioggia acida nel corso di una festa (1.02); Camille (Kate Siegel), a capo delle pubbliche relazioni della Fortunato, viene dilaniata dagli scimpanzé che l’azienda tiene in gabbia per i loro esperimenti; Napoleon (Rahul Kohli), produttore di videogame che ha problemi di dipendenza dalla droga, finisce per buttarsi giù da un balcone, ossessionato dal gatto che ha preso in sostituzione di quello del suo compagno che lui ha ucciso mentre era in uno stato alterato di coscienza; Victorine (T'Nia Miller), una scienziata che sta sperimentando un nuovo device cardiaco su scimpanzé con l’intenzione di usarlo preso sull’uomo, finisce per impalarsi temporaneamente impazzita dopo aver accidentalmente ammazzato la sua collaboratrice e amante; Tamerlane (Samantha Sloyan), che lavora con il proprio compagno a un progetto di prodotti di bellezza, fitness e stili di vita e che lei amava guardare mentre faceva sesso con altre, perde la cognizione del tempo e finisce sfregiata e dilaniata da specchi che rompe; e infine Frederick (Henry Thomas), il primo erede con una figlia avuta da Morella che, sfigurata dalla stessa pioggia acida che ha ucciso suo fratello, lui tortura: immobilizzato dalla stessa droga che dava alla moglie indifesa viene sepolto dalle macerie di un loro edificio in demolizione. Non si salva nemmeno la nipote.

Con qualche eco dantesco e Shakesperiano, la miniserie si ispira indubbiamente a Succession per il tipo di ambiente familiare che vuole mostrare, come ne dà indizio la colonna sonora che in alcuni momenti la richiama, ma poi mantiene in prevalenza la stessa sensibilità di The Haunting of Hill House (2018) e The Haunting of Bly Manor (2020) - che ho seguito, ma su cui non ho mai scritto - di cui è già stato autore e showrunner l’ideatore Mike Flanagan che qui riserva per sé anche il ruolo di regista, che condivide solo, alternandosi, con Michael Fimognari che per la serie è direttore della fotografia.

Se ho elencato in modo specifico le morti, inanellate in puntate successive autoconclusive rispetto alla sorte di ciascun figlio, è perché l’aspetto di maggior intrattenimento è quello di vedere che fine spetta a ciascuno dei figli Usher, persone privilegiate, viziate e senza scrupoli: quella è la parte goduriosa, vedere quanto orrorifiche ed originali siano. Si svelano i loro vizi, depravazioni, segreti. Non hanno cura per niente e per nessuno e il senso ultimo di vederli morire è quello di vederli pagare per le proprie azioni, dare la vita per quello che ritengono di non debba avere conseguenze in virtù di quello che sono. C’è un senso di giustizia.

Come è più esplicito dalla spettacolosa puntata finale, piena di citazioni poetiche, si riflette sulle conseguenze delle proprie scelte, sull’eredità che si lascia ai posteri memorabile l’immagine del patriarca che vede dalla vetrata del grattacelo la sua: una fitta pioggia di cadaveri —, su che cosa significhi veramente essere ricchi;  poi si parla di dolore (dopotutto l’azienda ha fatto fortuna vendendo antidolorifici) e ci si giustifica anche con una sensata dichiarazione politica e un j’accuse alla società tutta messi in bocca a Madeline.

Non c’è mai paura, ad esclusione al limite di qualche occasionale jump scare per le allucinazioni del CEO che sono improvvise. Bruce Grenwood, che mi fa tenerezza ricordare ragazzo nella serie Legmen, è stato davvero portentoso. Qui c’è atmosfera gotica, senso di terrore imminente, di vago sovrannaturale, feeling di inatteso disfacimento fisico ed emotivo, gusto per l’inquietante. Su questa linea, convincente a appagante. E alla fina la caduta della casa degli Usher non è solo metaforica o intesa come caduta di una famiglia, ma come effettivo crollo di un edificio: bel tocco.   

mercoledì 14 febbraio 2024

FELLOW TRAVELERS: sull'amore e i condizionamenti sociali

È stata pregnante, toccante, romantica e sexy la miniserie Fellow Travelers – Compagni di Viaggio (Showtime – Paramount+) ed è riuscita anche a dare una prospettiva inusuale ad argomenti che già si sono visti trattati. Al centro delle vicende ci sono due uomini innamorati, fra gli anni ’50 del maccartismo più bieco e la fine degli anni ’80 che mostra il lato crudo dell’epidemia di AIDS, con continui passaggi fra presente (il 1986) e il passato, che per la gran parte viene seguito secondo un filo cronologico. Ad adattare per la televisione l’omonimo romanzo di Thomas Mallon è stato Ronald L. Nyswaner, già candidato al premio Oscar per la miglior sceneggiatura originale di Philadelphia. La sigla mi ha richiamato musicalmente quella de L’Amica Geniale, e si compone di foto vintage di uomini gay che amoreggiano.

ATTENZIONE SPOILER

La lezione di fondo è che l’omofobia ha costretto generazioni di uomini (e donne, anche se qui hanno un ruolo molto marginale) a vivere nella paura; a mentire per sopravvivere, cosa che diventa perfino troppo facile se non hai altra scelta; a nascondere chi erano, a vergognarsene e a sentirsi in colpa, negando la verità del proprio io; a subire la condanna di una società che sindacava non tanto su con chi andassero a letto ma su chi amavano e chi frequentavano come amici e a negare per questo a se stessi l’amore, forza vitale ed essenziale. Quale tormento sia e a che conseguenze porti lo si vede e si dimostra.   

Nel 1952, Hawkins “Hawk” Fuller (Matt Bomer), in quegli anni con un look molto alla “Mad Men”, lavora per il governo, e più specificatamente per il senatore Wesley Smith (interpretato da Linus Roache e basato in parte su una persona reale, Lester C. Hunt), la cui figlia Lucy (Allison Williams) finirà per sposare. Crede della “completa libertà personale”, ma nasconde di essere omosessuale, perchè siamo in un’epoca in l’FBI ha un’Unità di Investigazione sui Devianti Sessuali e la polizia di Washington ha un programma di eliminazione delle perversioni sessuali perché, senza mezzi termini, gay e lesbiche vengono considerati tristi, malati e patetici. Incontra per caso Tim Laughlin (Jonathan Bailey, Bridgerton), che lui chiamerà “Skippy”, idealista, un po’ ingenuo, maccartista convinto, fedele cattolico. Si piacciono da subito e Hawk lo prende sotto la sua ala protettrice, trovandogli un lavoro e iniziandolo ai piaceri sessuali. Loro amico è Marcus Gaines (Gelani Alladin), un veterano di guerra ora giornalista, per cui alla discriminazione legata all’orientamento si aggiunge quella dell’essere nero in un paese razzista e uscito a malapena dalla segregazione. È innamorato di Frankie Hines (Noah J. Ricketts), drag queen apertamente gay, in un’epoca in cui questa espressione, “apertamente gay” cioè, aveva ancora senso – e sì, è un riferimento al commento di Andrew Scott il mio, che in una recente tavola rotonda con l’Hollywood Reporter ha dichiarato, in modo assai divertente, che è ora di mandare in pensione quella dicitura e sicuramente è spesso il caso di aderire alla sua osservazione.  

Attraverso l’excursus storico, si è dato uno spaccato notevole su come siano cambiati la società e i mores nel tempo:  è agghiacciante vedere i funzionari statali indagati e licenziati per anche solo un sospetto di omosessualità – Mary Johnson (Erin Neufer) segretaria di Hawk, lesbica, si vede costretta dalle circostanze a denunciare la donna di cui è innamorata per non perdere il lavoro e vive in una situazione d’ansia come già in questo caso recentemente ce l’ha mostrata “For All Mankind”; ci sono suicidi; c’è elettroshock (1.05)…Hawk stesso viene sottoposto a un vergognoso “test di mascolinità” e addirittura alla macchina della verità, con un vero e proprio interrogatorio intimo, su sesso, sodomia, su se mai sia stato innamorato di un uomo…. La mentalità cambia, arrivano le proteste per la guerra del Vietnam negli anni ’60, gli anni ’70 di edonismo e liberazione sessuale, macchiati dal noto omicidio di Harvey Milk e George Moscone, la crisi dell’HIV e dell’AIDS negli anni ’80, che vede un Tim morente che dichiara “non stiamo morendo di AIDS, stiamo morendo di indifferenza”.

È il percorso individuale di due uomini profondamente diversi fra loro. Hawk è più libero da sensi di colpa nei propri desideri, ma è in vista e più condizionato dall’immagine sociale che vuole mantenere. Si costruisce una vita più tradizionale, come gli è richiesto: si sposa e ha dei figli, che pure ama, ma quando gli muore di overdose il più piccolo si dà a una vita di eccessi, di sesso, droga e alcool. Alla fine la moglie lo lascia. Tim, profondamente religioso, teme la dannazione eterna eppure ammette di essersi sentito “puro” (1.01) nel commettere quello che la sua chiesa reputa peccato mortale, ed è all’inquieta ricerca di se stesso, ma riesce ad essere onesto nel senso di aperto su chi è piuttosto in fretta, si appassiona alla causa di McCarthy nonostante tutto, si arruola, finisce in carcere, va in seminario con l’intenzione di farsi prete, diventa un assistente sociale che si batte per il finanziamento alla ricerca contro l’AIDS, quando già ci sta morendo. 

E fra questi due piani che si intersecano così bene, quello individuale e quello collettivo, c’è una romantica storia d’amore di due persone che si desiderano e amano autenticamente – con una buona dose di sesso che viene mostrato piuttosto liberamente (spinto, ma attento ad essere sempre al di qua della pornografia). Si prendono e di lasciano, con tante volte molti anni che si inframmezzano fra un incontro e l’altro, ma sempre con la mente l’uno per l’altro. Tragico, magnetico, seducente, crudele, dolce, commovente…Nella storia d’amore Hawk è in partenza il più smaliziato: se Skippy va in chiesa a confessarsi, Hawk è invece quello che con una strizzatina d’occhio gli dice “passerò il pomeriggio a immaginarti in ginocchio in preghiera”; è Hawk quello che gli ordina di spogliarsi guardandolo negli occhi e si sente ripetere “a te” alla domanda “a chi appartieni”? (O forse “tu” alla domanda “di chi sei tu?” – avendo visto il programma in originale non so che cosa abbia scelto la traduzione italiana) – raramente si vede il sesso trattato in termini di potere, e qui è stato fatto in modo notevole. Da donna a cui piacciono gli uomini devo ammettere che mi piace vederli fare sesso, e quando ci sono due interpreti che oltre ad essere bravi sono anche così esteticamente attraenti, non è difficile lasciarsi trasportare. I rapporti di forza fra loro nel tempo cambiano, ma l’attrazione e i sentimenti rimangono, anche se nel tempo si sono feriti.

Tim ormai morente confessa ad Hawk che ha aspettato tutta la vita che Dio lo amasse e poi si era reso conto che la cosa importante era che era lui ad amare Dio, e la stessa cosa era con Hawk, il suo grande amore che lo consumava. Hawk solo davanti all’AIDS Memorial Quilt a Washington, davanti a quel fazzoletto di stoffa che porta il nome del suo Skippy, ha finalmente il coraggio di ammettere, alla figlia, “Non era ‘il mio amico’, era l’uomo che amavo”. Frigno a scriverlo come quando l’ho visto. Una miniserie sull’amore autentico e sui condizionamenti sociali.

domenica 4 febbraio 2024

LITTLE BIRDS: dagli scritti della Nin, inguardabile

Non è la peggiore produzione che io abbia visto in vita, ma ci sia avvicina molto. Little Birds (Sky Atlantic, NOW TV), serie in 6 puntate del 2020 basata sull’omonima raccolta di racconti erotici di Anaïs Nin, comincia con la protagonista Lucy (una sempre deliziosa Juno Temple, Ted Lasso) dallo psichiatra. Siamo nel 1955, a Tangeri in Marocco – anche se le riprese sono state fatte fra l’Andalucia in Spagna e l’Inghilterra -, e su richiesta del padre di lei le vengono date delle pillole tranquillanti e stabilizzanti dell’umore per tenere a bada quello che definiscono un comportamento problematico, e voglie che la distraggono. È presto chiaro che l’effetto cercato è in realtà di frenare qualunque entusiasmo. Si sente allegra e vuole ascoltare un po’ di musica alla radio? Ecco pronta una pilloletta da ingerire. Quelle stesse pillole devono averle ingerite Sophia Al Maria, che lo ha sviluppato per la TV, e le altre co-sceneggiatrici Stacey Gregg e Ruth McCance, e anche la regista Stacie Passon, perché se c’è un aggettivo che si attanaglia bene a questo programma è “dull”: spento, soffocato, sbiadito, piatto. C’è qualche guizzo di potenziale, ma non si va oltre al potenziale.

L’ingenua Lucy si sposa con un nobile inglese, Hugo Cavendish-Smyth (Hugh Skinner), e spera così di cominciare una nuova vita piena di feste e di stimoli nella Zona internazionale di Tangeri. Ancora non sa che lui l’ha sposata perché il padre l’ha pagato per farlo, lui è gay ed innamorato di Adham Abaza (Raphael Acloque) un avvenente principe egiziano che con lei fa pure amicizia. Se lei è annoiata e affamata di vita, lui non la aiuta di certo, anzi, è un inetto perfino nello svolgere riluttantemente il compito che il suocero gli ha affidato, ovvero vendere le armi di cui è produttore al Segretario francese in Marocco, Pierre Vaney (Jean-Marc Barr). La sua vita si incrocia a quella degli altri in occasione di una festa a casa della Contessa Mandrax (Rossi De Palma), e fra i tanti incontra anche una prostituta molto nota e richiesta, Cherifa Lamour (Yumna Marwan), particolarmente prona a sottomettere e maltrattare i clienti che lo desiderano.

Quello che dovrebbe essere un ambiente affascinante di intrighi internazionali, giochi di potere e seduzioni, con uno specifico sottofondo politico di colonialismo e risentimenti, in realtà è un incrocio di scenografie di ricostruzioni che appaiono finte, claustrofobiche, rese oppressive da colori saturi, a fare da sfondo ad abusi di potere di grande piccineria. Due ragazze ad esempio umiliano un lavorante presso di loro, Leo (Kamel Labroudi), l’innamorato di Cherifa, per divertirsi, gettandolo a ripetizione una loro collana in piscina e obbligandolo a tufferai a riprenderla, mentre loro se ne stanno pacifiche a prendere il sole. Poi Leo viene pestato a sangue da Pierre? Senza senso.

E se si voleva mettere in scena l’edonismo frenato si è fallito miseramente. Con la dominatrix Cherifa ci sono buone dosi di scene sado-maso più squallide che minimamente erotiche, come immagino avrebbero voluto essere. Lucy e Bill (Matt Lauria), una spia che indaga sulle attività del padre di lei, ad un certo punto si spalmano vernice l’uno sull’altra? Con due attori così affascinanti poteva uscirne qualcosa di effettivamente seducente, come poteva esserlo la scena di un pranzo fra Lucy e Pierre che è uno dei momenti memorabili, ma proprio non ci si riesce. E Cherifa che intrattiene gli ospiti ballando sul bolero di Ravel durante una cena che altro non si può definire se non folle? Ha qualche senso qualcuna di queste scene oltre a provocare un forte senso di noia mista a disgusto in chi le guarda? Terrificante proprio.

Quello che viene reso bene, quasi per errore, è il senso di morte interiore e di disperazione dei personaggi, ma perché sembrano smorti loro, ad eccezione forse di Adham, che mostra un po’ di grinta e vitalità. Se lo schifo per la vita è quello che si voleva trasmettere, e il tedio, allora indubbiamente si è riusciti a trasmetterlo. I dialoghi sono terribili – c’è uno scambio in cui Lucy dice a Bill di voler usare il bagno in cui non sapevo se piangere o scoppiare a ridere -, le scene proprio non stanno in piedi narrativamente, e la messa in scena è desolante e senza lustro. L’uso della luce soffusa vagamente sognante, con tutto bluastro o rosso da occhialini 3D, ha tramesso ancora di più una sensazione di finzione e di falsità. Forse aspirava ad essere artistico, con qualche tocco alla Wes Anderson, voglio credere, perché si nota lo sforzo di creare una realtà surreale sensuale e di commentare sui rapporti di potere. Questi elementi ci sono, peccato che sia stata reso in modo così inguardabile, almeno per me. Non ho letto il materiale originale, ma certo così me ne è passata la voglia.  

giovedì 25 gennaio 2024

THE CROWN: la sesta e ultima stagione

Si è chiusa come previsto, dopo la conclusione della sesta stagione, l’apprezzata The Crown, che ogni due stagioni ha cambiato l’attrice che ha dato il volto alla Regina Elisabetta. Mi ha molto convinta l’interpretazione di Imelda Staunton, professionista di grande spessore ed esperienza con al suo attivo anche una nomination all’Oscar, ma nota al grande pubblico soprattutto per la sua partecipazione ai film di Harry Potter. Ha incarnato una sovrana ormai matura, forte della propria esperienza, ma anche limitata dalle difficoltà derivanti da una società molto diversa da quella che era quando ha cominciato a regnare.

Pur considerando la recitazione al pari rispetto al passato, condivido l’impressione generale di un calo qualitativo della serie in confronto alle prime stagioni. Risulta legittimo domandarsi se questo declino sia dovuto al fatto che non conosciamo “direttamente” gli eventi storici e quindi attribuiamo maggiore realismo, verità, aderenza ai fatti, pregnanza a quello che ci è stato raccontato inizialmente, mentre lì dove abbiamo vissuto i momenti narrati abbiamo maggiori obiezioni e perplessità, se siamo più indulgenti insomma con eventi più cronologicamente distanti da noi, o se effettivamente ci sia stata minore capacità di analisi di fatti che, troppo freschi, non hanno la stessa obiettività e capacità critica, pregnanza storiografica potremmo dire, che un distacco temporale avrebbe reso più facile. Personalmente tendo alla seconda ipotesi, ma con un pizzichino anche della prima.

La sesta stagione si è costruita in due blocchi – che appropriatamente Netflix ha rilasciato in due momenti diversi: il primo il 26 novembre, il secondo il 14 dicembre 2023. Nella prima tranche il fulcro delle vicende è stata Lady Diana, la sua storia con Dodi Al-Fayed fino al tragico epilogo della morte insieme nel tunnel dell’Alma nel 1997. Anche chi avesse vissuto in semi-eremitaggio – come è stato sicuramente per me in quegli anni a causa della mia malattia - difficilmente non ha sentito più versioni e storie su quei fatti, compreso il possibile coinvolgimento (omicidio?) da parte della Corona, possibilità che qui viene esclusa in toto, e se di responsabilità si è parlato è solo di atteggiamento che ha allontanato la principessa e di disagio nei confronti di quel possibile legame sentimentale. C’è chi contesta la ricostruzione delle vicende (e io non sono in grado di valutare chi possa avere ragione), ma la narrazione pare plausibile, e quello che si ammira è la resa finzionale di moltissime immagini che sono impresse nella memoria collettiva. Penso in particolare al momento in cui lei si trova a Portofino seduta sul bordo di una passerella sullo yacht del padre di Dodi e indossa un costume da bagno intero color turchese, ma anche ad altro. Elizabeth Debicki, che per questo ruolo ha vinto nel 2024 il Golden Globe e il Critics Choice Television Award come miglior attrice non protagonista, oltre ad aver ricevuto una nomination all’Emmy, è stata eccellente nella parte ma è stata assistita da un “trucco e parrucco”, e in generale da una messa in scena sotto ogni profilo, che l’ha resa estremamente credibile.

Per chi avesse visto il film del 2006 The Queen, la cui sceneggiatura pure era di Peter Morgan, qui ideatore e sceneggiatore, i momenti successivi alla dipartita della “principessa del popolo” hanno avuto il sapore di qualcosa di già visto, per me sicuramente che ho trovato quegli specifici momenti meglio realizzati nella pellicola cinematografia, per l’attenzione che si è data alla reazione della Corona. La storia di Diana era alla fine anche qualcosa di cui la serie doveva liberarsi, e il prosieguo è stato più a tutto tondo e ha dato uno spaccato più variegato. C’è stata la Willymania (6.05) del timido principe William adorato dal pubblico; Blair, agli inizi più amato della regina e i tentativi si svecchiare la monarchia (6.06); l’introduzione effettiva di Kate come personaggio di rilievo (6.07) e l’indicazione che la sua conoscenza del primogenito di Carlo fosse più studiata (dalla madre di lei) che puramente casuale; gli infarti e l’ultimo periodo di vita della principessa Margaret (6.08), vulnerabile e indifesa; la morte della regina madre, i 50 anni del giubileo e ancora la storia d’amore fra William e Kate (6.08); le nozze di Carlo e Camilla, e qualche accenno ad Harry (6.09).

La scena finale è stata molto toccante: ha visto tutte e tre le interpreti della regina (quindi oltre a Imelda Staunton anche Olivia Colman e Claire Foy – entrambe vestite di nero, versioni di lei già morte, mentre lei è in bianco) una accanto all’altra (una e trina). La regnante donna più longeva della storia (più a lungo di lei ha regnato solo Luigi XIV) passa davanti alla visione di una bara, la sua, drappeggiata con lo Stendardo Reale (sopra ci sono la corona, lo scettro e la sfera, e un mazzo di fiori). Vede la sé stessa del 1945 (Viola Prettejohn), che indossa l'uniforme del Servizio Ausiliario dei Trasporti, che si congeda con il saluto militare. Poi appaiono appunto le altre due versioni di sé, e lei si incammina per la navata centrale della chiesa sulle note della cornamusa che suonano "Sleep, Dearie Sleep", che Elisabetta aveva scelto per il suo funerale, che proprio nelle ultime battute era stato da lei pianificato come richiesto. Si dirige verso la porta della chiesa da cui esce una intensa luce: un modo elegante di segnalare la sua dipartita.

The Crown è stata una serie davvero notevole perché ha saputo guardare sia nell’aspetto istituzionale che in quello umano delle persone che l’hanno incarnata, una realtà che sembra anacronistica ai moderni e ha impattato in modo concreto, almeno per me così è stato, il modo di interpretare i fatti reali. È riuscita a farlo in un modo che ha saputo ben calibrare il pubblico e il privato, le ragioni storiche a quelle quotidiane a contingenti, con un buon equilibrio fra serietà e frivolezza. Sarà un metro su cui altre fiction che dovessero affrontare queste tematiche verranno misurate. Questa è stata la sua forza e la sua legacy, il suo legato, la sua eredità spirituale. Per chi ama queste cose poi, The Guardian ha fatto una classifica di tutti 60 gli episodi di The Crown dal meno al più riuscito: qui.

lunedì 15 gennaio 2024

THE GILDED AGE: la seconda stagione

Il vero limite narrativo di The Gilded Age è che è una favola in costume dove vincono i buoni sentimenti e, se alla Wharton era ispirato, è finito per diventare una continuazione di Downton Abbey più che rispecchiare l’autrice da cui si è preso spunto. Una storiella che è una gradevole visione, ma non quello che considero alta televisione che rivela la complessità dell’animo umano, nonostante valori produttivi opulenti e un cast di attori di prim’ordine.

ATTENZIONE SPOILER

Nella seconda stagione, sempre scritta di Julian Fellowes, talvolta in coppia con Sonja Warfield, il grande scontro riguarda i palchi d’opera, vero simbolo di status nella società newyorkese di fine ‘800: Bertha (Carrie Coon) non riesce a ottenerne uno all'Academy of Music, dove ci sono lunghissimi tempi di attesa, e decide di sostenere la costruzione e il lancio del Metropolitan Opera House. Dove andrà la gente che conta? All’Academy o al MET? E il corteggiato Duca di Cambridge? Dunque chi l’avrà vinta, la signora Astor (un personaggio già incontrato nella prima stagione, ma comunque una donna realmente esistita, qui interpretata da Donna Murphy) che rappresenta il vecchio establishment o la rampante Betha? Fino all’ultima puntata si rimane incerti su chi avrà il sopravvento. Qui quello che è ben riuscito è stato mostrare come parte del prestigio e del potere risiedano nel saper oliare i meccanismi sociali, e come fattori di posizione si mischino a ripicche, ambizioni e orgogli personali. Che choc quando la vecchia cameriera personale di Bertha, che ci aveva provato con il marito George Russell (Morgan Spcector), si presenta ora come nobildonna al fianco di un consorte ricchissimo: è ora la signora Winterton (Kelley Curran), e se il nuovo mondo permette di scalare i gradini della vita pubblica, c’è chi comunque vede le umili origini come motivo di vergogna e imbarazzo, qualcosa da nascondere, tema che emerge anche dalla figura di Mr. Watson (Michael Cerveris), valletto di George che deve nascondere chi realmente è.

Una storia significativa è stata quella di Ada che si innamora, ricambiata, del reverendo Luke Forte (Robert Sean Leonard, House), il nuovo pastore. È raro vedere una storia d’amore di una donna matura che ormai dà per scontato che l’amore non le sia destinato; e l’iniziale egoistica resistenza della sorella Agnes (Christine Baranski), timorosa di rimanere sola, è stata sensata. Ancora più raro è vedere una storia d’amore di un uomo di chiesa maturo, che non sia per una volta il classico amore proibito e sofferto di un sacerdote cattolico che non può sposarsi. Qui c’è una storia realistica e sana, delicata, fatta di stupore quanto di piccole attenzioni. Peccato che poi sia stata chiusa in fretta e furia facendolo morire di cancro in quattro e quattr’otto, un po’ alla affrettata maniera in cui talvolta le soap opera tranciano storylines che si vede che non funzionano, anche se si capisce che poi qui è stato funzionale per avere il suo testamento come inaspettato deus ex machina a salvare le sorti economiche della famiglia messe a rischio da Oscar (Blake Ritson, The Crown) incappato in una truffa.

Si vede la società che cambia: Marian decide di insegnare - Louisa Jacobson che la interpreta è forse l’anello debole del cast, ed è certo che essere la figlia di Meryl Streep non l’ha certo danneggiata nella possibilità di avere la parte, ma fa un lavoro dignitoso, è il suo primo ruolo e la si sta vedendo crescere per cui bene così; il domestico Jack (Ben Ahlers) inventa un nuovo meccanismo per un orologio sveglia e aspira ad ottenere un brevetto… Si vedono le dure condizioni sociali: la diversa rischiosa situazione dei neri nel sud del Paese Peggy Scott (Denée Benton), ora diventata giornalista del New York Globe, accompagna il suo direttore a Tuskegee, in Alabama, per fare un articolo sull'apertura del primo college per neri del paese, e per poco non vengono linciati; l’omofobia… E si fa cenno anche alle lotte necessarie perché un cambiamento si verifichi: gli scioperi degli operai per ridurre l’orario di lavoro a 8 ore, l’integrazione delle scuole accettando dei bianchi per evitare che le scuole degli afro-americani chiudano, facendo così spazio a un altro gruppo emarginato, quello degli irlandesi… Fra le tante storie mi ha colpito quella della costruzione del ponte di Brooklyn, che non sapevo essere basata su fatti veri. Larry (Harry Richardson) loda la signora Roebling per il lavoro svolto in occasione dell’inaugurazione nel 1883. Nessuno all’epoca avrebbe accettato un’ingegnera, ma nell’impossibilità del marito era lei che effettivamente aveva seguito molti dei lavori: e il nome è quello autentico della donna che ha contribuito a costruire il ponte. Non lo sapevo.

Ho sempre desiderio di seguire The Gilded Age, non appena arriva una nuova puntata. La ragione non sono solo i party sfarzosi che sono un piacere per gli occhi e intrattenimento d’evasione più di quanto lo sarebbero quelli della vita reale, che lasciano la cruda realtà solo come sfondo, ma forse è che mostra un mondo apparentemente più gentile, lì dove si è pure consapevoli che è una fantasia. Lì dove ci sono angosce e contrasti vengono superati abbastanza velocemente. Continuerò a seguire la serie nelle stagioni a venire, prevedo. Mi rammarico solo che non abbia uno spessare maggiore.

venerdì 5 gennaio 2024

THE BUCCANEERS: godibilissimo

The Buccaneers (ovvero I Bucanieri, Apple TV+), tratto dall’omonimo romanzo incompiuto di Edith Wharton, dal promo sembrava un incrocio fra Dickinson e Bridgerton, un teen drama in costume aggiornato però alla sensibilità contemporanea. È in effetti un period drama che non lo è nello spirito: con di fondo tutte le potenziali problematiche etiche che simili operazioni possono sollevare ma che, consapevoli di questo, è anche il caso di mettere da parte per godersi con leggerezza un programma che vuole essere uno spumeggiante intrattenimento. E lo è stato alla grande, un guilty pleasure poco “colpevole” e molto “piacere”. 

Salvo qualche iniziale impressione, Dickinson non è poi lì certi anacronismi erano sensati in un approccio volutamente poetico ed era un homage molto studiato che aveva il suo perché ; è più Bridgerton, anche se con molto meno gossip e spirito maligno di questo, e per quello forse mi è piaciuto di più, ma comunque con infusioni del materiale originale che ricadono semmai nell’aura di The Gilded Age, con una nota forte che contrappone i mores degli Stati Uniti a quelli della vecchia Europa, e i nouveaux riches alla polverosa aristocrazia. Ci troviamo anche un pizzichino della storia di Meghan Markle, un pasticcino tutto glassato da una colonna sonora di canzoni pop contemporanee.

Siamo a New York, nel 1870. Cinque amiche americane vanno a Londra con l’obiettivo di trovar marito, magari con un titolo nobiliare. Sono tutte giovani, belle, ricchissime, piene di vita e di desiderio di nuove avventure. In apertura Conchita Closson (Alisha Boe), che è incinta ma non vuole farlo sapere al futuro marito perché non convoli a nozze solo perché si sente obbligato in tal senso, si sposa con Lord Richard Marable (Josh Dylan), insicuro di compiere il gran passo perché i genitori non sono d’accordo e teme che la futura moglie non si adatti all’ambiente a cui è abituato. Procedono al gran passo, e tornano nella capitale britannica. Con Conchita vanno anche le sue damigelle e amiche. Fra loro c’è Nan, (Kristine Froseth, Looking for Alaska), la principale eroina della serie, che in realtà non ha grande desiderio di attirare un principe azzurro, ma di cui si innamorano presto sia l’ambito Theo, Duca di Tintagel (Guy Remmers), insofferente all’idea di dover trovar moglie fra persone della sua cerchia e dedito all’arte, sia del suo migliore amico, Guy Thwarte (Matthew Broome), la cui famiglia è in rovina economica. Lei è in sintonia con entrambi. Diversamente intenzionata da Nan è invece sua sorella, Jinny (Imogen Waterhouse), che ha sempre l’impressione che le venga rubata la scena, ma convola presto a nozze con l’abusante Lord James Seadown (Barney Fishwick), fratello di Richard. Ad accompagnare Nan e Jinny c’è la madre, la signora St. George (Christina Hendricks, Mad Men) che ha un difficile rapporto con il marito, il colonnello St. George (Adam James). Le altre ragazze coetanee in viaggio nel Vecchio Continente pure sono due sorelle, Lizzy (Aubri Ibrag) e Mabel (Josie Totah) Elmsworth. La prima risveglia l’interesse di Lord James, che lei inizialmente ricambia, la seconda non è attratta dagli uomini, ma dalle donne e scocca la scintilla con la riservata Honoria Marable (Mia Threapleton), sorella di Lord Richard e Lord James.   

L’aspetto più gustoso della prima stagione di 6 puntate è stato indubbiamente il triangolo Guy-Nan-Theo, perché per una volta lo è stato autenticamente. Non c’è solo lei indecisa fra i due, ma in fondo sai a chi è destinata, e l’altro è solo un ostacolo alla felicità della coppia che si sa trionferà. Se lei è dubbiosa su chi sia meglio per lei lo è anche il pubblico, sicuramente lo sono io, che non saprei chi scegliere o per chi tenere. Con entrambi c’è una deliziosa intesa e sono nobili di spirito e affascinanti entrambi. Originale è anche la storia lesbica fra Mabel e Honoria, perché fa pensare in modo nuovo alle difficoltà nelle coppie LGTBQIA+ in quelle epoche dove per una donna “trovare marito” era un imperativo legato spesso alla sopravvivenza. Con il personaggio di Richard – ATTENZIONE SPOILER – si affronta brevemente il tema dell’abuso su minori, con la rivelazione delle attenzioni da lui ricevute quando era piccolo da parte di una governante Miss Testvalley (Simone Kirby), dove una simile situazione, soprattutto di una donna nei confronti di un bambino o giovane uomo non è sicuramente storia che si vede spesso. È terribile e perfino agghiacciante il modo in cui, sotto un’apparente fredda e controllata gentilezza, Lord James viene ritratto come un manipolatore abusante, controllante e abituato al gaslighting e all’umiliazione, un uomo che riduce le proprie vittime alla vergogna, con quel genere di violenza che non è così evidente all’esterno, ma che è devastante.   

Gli scenari sono mozzafiato, le ambientazioni scenografiche e i costumi sono sontuosi, ma in questa opulenta cornice, al centro dei riflettori c’è in prevalenza la condizione della donna a quell’epoca, costretta dalle convenzioni sociali a essere silenziosa, invisibile, priva di identità davvero, e con una prospettiva contemporanea, e con lezioni che mutatis mutandis valgono anche per la società attuale. Lo scontro mentalità americana e inglese è la leva che usano per parlare al pubblico di oggi. Fin dall’esordio è chiaro che The Buccaneers portato sul piccolo schermo da Katherine Jakeways non mira all’accuratezza storica. Nel pilot, per riportare un semplice esempio, Conchita perde un orecchino che cade sulla strada. L’amica Nan si cala dalla finestra muovendosi giù dal muro come fosse la donna ragno per recuperarlo. Al di fuori della pericolosità della scelta, che immagino un genitore rimprovererebbe tutt’ora, credo che alla fine dell’800 un simile agire da parte di una giovane donna in età da marito sarebbe stato considerato biasimevole o come minimo inappropriato. Mi sbaglio? Credo di no, ma se me lo chiedo è perché, al di là di scelte dei protagonisti che chiaramente riflettono lo Zeitgeist attuale, rimango spesso perplessa dei comportamenti che fanno assumere a personaggi di secoli passati, ma non so fino a che punto sia mia ignoranza che vede i nostri avi più ingessati, e fino a che punto sia invece effettivamente stato possibile. Probabilmente è proprio grazie a questa ignoranza, che immagino in una certa misura collettiva, che le vicende hanno una patina di credibilità e funzionano così bene come in questo caso, dove ci si dimentica che la realtà non avrebbe concepito certe soluzioni e ci si riesce a godere lo spirito di fondo che è di amicizia e di volersi bene, ed è vivace e gioioso nonostante si mostrino anche realtà ipocrite e difficili con cui convivere.

mercoledì 27 dicembre 2023

LE MIGLIORI NUOVE SERIE del 2023, secondo me

Ogni anno scelgo quelle che sono le migliori nuove serie, secondo me. Quest’anno ci sono stati tante vecchie serie che sono state eccellenti che in proporzione mi sembra che le nuove siano meno. L’addio di Succession è stato mozzafiato come sempre; non ho scritto sulla terza e ultima stagione di The Great ma è stata incredibile nel modo doloroso in cui ha trattato il tema del lutto; The Bear si è superata rispetto al già eccellente debutto, e in generale molte vecchie conoscenze hanno continuato a offrire solide stagioni penso alla finale di Sex Education, alla seconda di Heartstopper, The White Lotus, Foundation o Strange New Worlds, per esempio, alla seconda sempre esilarante di Schmigadoon che ha cambiato stile e ambientazione, o da quel che si dice alle più recenti di Somebody Somewhere e di Reservation Dogs, con cui non ho ancora avuto modo di mettermi in pari. Molto solida e spassosa anche la terza di Only Murders in The building, di cui avevo scritto solo della prima stagione. Solo Ted Lasso è probabilmente stato un po’ la nota dolente fra gli show che hanno fatto il loro inchino prima del calare del sipario perché ha deluso rispetto alle due occasioni precedenti. Poi, anche qui come sempre, ancora non ho avuto modo di assaggiare nuove offerte che la critica loda, come Fellow Travelers o The Curse o Jury Duty o I'm a Virgo. Solo quest’anno ad esempio ho visto la seconda stagione di For All Mankind, che se avessi visto nel 2021 quando ha debuttato, sicuramente avrei inserito fra le migliori — la season finale poi è stata pazzesca. Come sia stata la quarta, che è stata rilasciata quest’anno, ancora non lo so. 

Non sono molte alla fine le nuove serie che mi hanno entusiasmata. Ma anche se sono numericamente meno di altri anni, il livello è stato notevole. Scelgo per quest’anno:

-       Silo: ne ho palato qui.

-       Beef: qui.

-       Fleishman is in Trouble: qui.

-  The Last of us: che non posso dire mi abbia propriamente entusiasmata, ma che penso sia stato comunque un ottimo debutto. Ne ho scritto qui.

-       Colin from Accounts: ne parerò prossimamente.

Una menzione onorevole poi la do a The Makanai e a Everyone Else Burns, di cui pure parlerò prossimamente.

Voi, quali nuovi debutti avete gradito maggiormente?


venerdì 22 dicembre 2023

HEARTSTOPPER: nella seconda stagione si parla di "Ace"

Devo ammettere che mi sono commossa quando ho visto che nella season finale della seconda stagione di Heartstopper (Netflix), che continua ad essere la deliziosa serie adolescenziale LGBTQ+ che è stata nella prima stagione, il personaggio di Isaan Henderson (Tobie Donovan) si è reso conto di essere asessuale.

Anche Sex Education recentemente ha presentato personaggi asessuali, ma sono ancora una rarità, ed è stato magnifico il modo in cui la commedia di Alice Oserman lo ha fatto forse anche perché l’autrice stessa ha dichiarato di esserlo, oltre che nel suo caso anche aromantica. 

 

Issac, che nelle vicende è sempre stato mostrato come un appassionato lettore, entra nella biblioteca della scuola, e nella sezione dedicata alle letture arcobaleno, trova in bella vista la versione, in inglese nel suo caso, di “Ace. Cosa ci rivela l'asessualità sul desiderio, la società e il significato del sesso” di Angela Chen. Gli “Ace” sono proprio gli asessuali. Io letto il testo saggistico in questione e, salvo un paio di piccole obiezioni, l’ho trovato perfetto ed è indubbiamente *il* libro da leggere su questo argomento. L’avevo letto in originale, ma ora è disponibile anche in versione italiana per Mondadori, con la traduzione di Giorgia Sallusti. L’ho anche comprato come strenna natalizia per un’amica quest’anno, e spero tanto che qualche libraio sia accorto a sufficienza da metterlo in vendita accanto ai libri di Heartstopper, magari segnalando che è proprio il libro di cui si parla nella serie. 

Lo mostrano più volte nel corso della puntata, e ad un certo punto si vede anche Isaac uscire di casa di Nick (Kit Connor) con il libro sotto mano con un’aria radiosa. Si è appena tenuto il “prom”, il ballo di fine anno, e tutta la gang si è poi riunita a casa di quest’ultimo. Ci sono Nick e Charlie (Joe Locke), che sono la coppia gay; Darcy (Kitzy Edgell) e Tara (Corinna Brown), che sono la coppia lesbica; Tao (William Gao) ed Elle (Yasmin Finney), dove lui è etero o forse pansessuale e lei è una ragazza transgender; e c’è Issac, che è solo. Non è detto che lo sarà sempre, ma lo si vede felice. E questo è quello che conta.

Tutto è stato fatto in modo molto marcato, ma anche delicato, cifra stilistica della serie. Approvo con soddisfazione. E quasi quasi mi viene da dire: grazie.

venerdì 15 dicembre 2023

FONDAZIONE - seconda stagione: qualche riflessione

Non intendo fare un commento o una recensione sulla seconda stagione della “Fondazione” (AppleTV+), che in generale è stata appagante ed epica memorabile la 2.09, con le rivelazioni su Derzemel e con il destino finale di Terminus, e a seguire una chiusura ricchissima di colpi di scena  ma ci tengo a buttare giù a flash qualche spunto di riflessione.

·         Gli intrecci sono davvero complessi e sono molte le vicende che vengono palleggiate dagli abili giocolieri della sceneggiatura. Si vede che la narrazione è di ampio respiro e non si presta a una visione casuale e rilassata: è chiaro che bisogna davvero prestare attenzione per non perdersi, avendo la pazienza di attendere per eventuali risposte. La Trilogia della Fondazione di Asimov su cui la serie è basata era stata ispirata da Declino e Caduta dell’Impero Romano di Edward Gibson, e in questa stagione appare particolarmente evidente, dai militari, ad esempio e un applauso va al fatto che fra questi ne abbiano fatto una magnifica coppia gay , ai clerici, ai costumi, allo spirito tutto.

·         Sarà che nel writing team è arrivata anche Jane Espenson, che non c’era nella prima stagione, ma si sente l’eredità di Joss Whedon (Buffy, Angel, Firefly), con cui in passato ha estesamente lavorato. In particolare questa sensazione c’è dalla concezione etica di fondo per cui alla fine non sono i grandi nomi, i grandi scienziati o governanti o intellettuali che cambiano la storia del mondo, ma le persone comuni, e i più coraggiosi e coinvolti a volte sono dei poveri scalcagnati armati di coraggio e buona volontà. E ci sono eroine molto combattive. Certo, rimane legittimo domandarsi se quella che qui vedo come l’impronta di Joss, non fosse in Buffy in realtà l’impronta di Jane, solo non attribuita (almeno da me) a lei, ma a lui: forse sono vere un po’ entrambe le cose. Così come è un piacere notare, qui e lì, piccoli riferimenti ai lavori di Asimov estranei al Ciclo delle Fondazioni

·         Hari Seldon (Jared Harris), sempre di più è stato presentato in un parallelismo con la figura di Cristo: attorno alla sua figura si crea un movimento religioso, muore e risorge, si sdoppia, incarna sè stesso nel corpo di una donna, non verrà crocifisso ma la sorte che gli capita legato con le braccia a dei pali certo non si distanziano molto da quel genere di iconografia…e piccoli accenni vanno in quella direzione, anche nella diegesi, e alla critica a quelle credenze.

·         In questa stagione vengono introdotti i Vedenti (Mentalics in originale), sul pianeta Ignis, un gruppo di persone che ha il potere di percepire quello che gli altri pensano e provano e sono fortemente empatici. La storyline che li riguarda per me ha avuto forti echi dello Star Trek originale, anche se non riesco a motivarlo in modo specifico. Sono guidati da Tellem Bond (Rachel House), che da subito si presenta come una villainess manipolatrice, una cattiva della situazione insomma. In “Una morte necessaria” (2.07) si esplora attraverso di loro un concetto molto interessante. Gaal (Lou Llobell) e Salvor (Leah Harvey) vengono invitate ad un banchetto, e per l’occasione vengono cucinati dei molluschi che, bolliti, emettono grida di dolore che pure loro, influenzate dalla comunità in cui si trovano, percepiscono in modo molto forte e disturbante. Chiedono se non sia possibile optare per dei vegetali. Tellem risponde loro che le piante non soffrono meno degli animali, hanno solo un modo di manifestarlo differente che noi non percepiamo con la stessa intensità solo perché apparteniamo ad un genere diverso. Questa è un’idea con cui io sono molto in accordo. Aggiunge poi che sopravvivere comporta il provocare dolore, e sofferenza e morte ad altri esseri viventi, ma che gli esseri umani scelgono di illudersi che non sia così. Loro ne sono consapevoli, vegetale o animale non fa differenza, e scelgono di accettare questa verità ed essere riconoscenti, perché quella sofferenza non vada sprecata, per così dire, perché non sia non riconosciuta. Tendo, almeno in parte, a ritrovarmi anche in questa linea di pensiero. Il fatto che queste parole siano in bocca a una cattiva, e funzionali alla storia che si narra in seguito, non le rende meno vere, eventualmente. Non di meno  fanno fare una pausa di riflessione, se il dare per scontato che l’inevitabilità di essere artefici di sofferenza per gli altri non possa rischiare di rendere ciechi ai dolori altrui e anche crudeli lì dove non è necessario. In ogni caso è stato un buon spunto di riflessione per una puntata scritta da David Kob e Eric Carrasco.

martedì 5 dicembre 2023

LESSONS IN CHEMISTRY: fantasia femminista anni '50-'60

Tratto dall’omonimo romanzo di Bonnie Garmus, che non ho letto, Lessons in Chemistry – Lezioni di Chimica solleva molte questioni di rilevanza anche attuale, travestite da fantasia femminista di riscatto dall’opprimente cultura degli anni ’50-’60, periodo in cui è ambientato. Non riesce in definitiva ad elevarsi da quest’ultimo aspetto e da risultare realmente memorabile o incisivo, ma offre ugualmente spunti interessanti in una gradevole confezione. 

ATTENZIONE SPOILER

Siamo degli Stati Uniti. Protagonista è Elizabeth Zott (Brie Larson), una chimica che in quanto donna viene relegata a ruoli umili nel laboratorio Hastings dove lavora come tecnica, pur essendo più brillante di molti colleghi maschi. Questo finché non incontra l’appoggio di un chimico, Calvin Evans (Lewis Pullman), un tipo molto eccentrico che i colleghi sopportano solo perché è finito sulla copertina di Scientific American per le sue ricerche.  Insieme decidono di studiare l’abiogenesi. Si innamorano, sono travolti da una deliziosa storia romantica, e decidono di vivere insieme. Sono sul punto di pubblicare quando lui, fuori a correre come al suo solito insieme al cane Seiemezza (la puntata 1.03 viene narrata dalla sua prospettiva), viene investito da un veicolo e muore (1.02). Lei viene licenziata, e dei loro studi si appropria qualcun altro. Si scopre incinta. Un po’ l’aiuta la vicina di casa Harriet Sloane (Aja Naomi King), un’avvocata che si sta battendo perché non venga costruita un’autostrada demolendo il quartiere a prevalenza afro-americana in cui vivono, che conosceva Calvin. Dopo che nasce la figlia Madeline (Alice Halsey), detta Mad, vista la necessità economica e la sua bravura in cucina, campo in cui si è sempre dilettata applicandoci i principi della chimica e testando ogni nuova variabile nelle differenti versioni di uno stesso piatto, le viene offerta la conduzione di un nuovo programma televisivo, “Supper at Six” (Cena alle sei) che è subito un grande successo e ispira molte donne, non solo ai fornelli. Ha il sostegno di Walter Pine (Kevin Sussman, The Big Bang Theory), suo produttore che la supporta anche contro l’aperta ostilità del direttore di rete Phil Lebensmal (Rainn Wilson, The Office), e ha l’amicizia di Fran Frask (Stephanie Koenig), una delle segretarie del Hastings Research Institute che inizialmente la riprendeva sempre per il suo comportamento. Quando Mad comincia ad andare a scuola e deve fare il suo albero genealogico, emergono il passato della madre e del padre.

In questa miniserie sviluppata per AppleTV+ da Lee Eisenberg non so se per aderenza al testo che non ho idea se dica qualcosa in proposito, per scelta della sceneggiatura o della convincente attrice che la interpreta , la protagonista per la gran parte della narrazione non mi sembra una persona neurotipica. Nella diegesi non ci si esprime mai in questi termini, né si allude a qualcosa di simile con un linguaggio più appropriato all’epoca, ma se si esclude la puntata finale e pochi altri momenti, questa è l’impressione che mi dà. Forse la rigidità dovuta al comportamento preteso all’epoca, unita all’eccezionalità degli interessi del personaggio è tale da giustificare il suo modo di atteggiarsi, in realtà: me lo sono chiesto. Quello che mi ha irritato nel pilot, perché è la solita solfa, è che, a dispetto del suo messaggio esplicito, la serie inizialmente contrappone la protagonista alle altre donne e, per far emergere la sua brillantezza, fa sembrare un po’ stupide tutte le altre, e anche gli altri a dire il vero. E quello che la rende brava in cucina è il fatto che è una scienziata – “cucinare è chimica e chimica è vita” è un po’ il suo motto (1.05) -, quando per come la vedo io quello potrebbe fortemente anche essere il suo limite all’essere eccellente, e questo tristemente non passa come idea. C’è questa fasulla concezione che solo se c’è scienza alla base, allora qualcosa è geniale e meritevole: niente di più svilente dell’essere umano nella sua completezza. Questa è la mia maggiore obiezione valoriale al programma, che prevede una via alternativa solo in termini religiosi e non intellettuali, attraverso il confronto con le idee del reverendo Wakely primariamente (Patrick Walker).  

Di contro si affrontano molte importanti questioni: la lotta al patriarcato che schiaccia le potenzialità femminili, alle discriminazioni che valutano non la competenza, ma il gender o l’aspetto che hai, al sessismo, e la necessità dell’empowerment di donne che vengono da lei incoraggiate durante il suo programma a seguire i propri sogni (in un caso una donna aspira a diventare medico, ma non l’aveva mai preso nemmeno in considerazione come una possibilità realistica) e l’importanza di credere nelle persone, nell’avere qualcuno che ha fiducia nelle tue capacità e l’importanza di essere di ispirazione agli altri, anche quando questo rischia di essere visto come una minaccia; il fatto che cucinare non è divertimento o un hobby, è un un’attività vitale (1.05) e che prendersi cura delle persone amate comporta lavoro, vero lavoro (1.01); l’importanza del cibo, come catalizzatore dello sviluppo fisico della persona, e per il fatto che è famiglia, è comunità, è essenziale (1.04); la significatività di essere visti e ascoltati, di avere una piattaforma per farlo, perché quello che si dice lascia un’impronta, e anche quello che non si dice: è un antidoto a quella che Jill Stauffer chiamerebbe “la solitudine etica”, l'esperienza di essere abbandonati dall'umanità, inascoltati, nella dolorosa percezione di subire torti che non sono percepiti e riconosciuti; il ruolo della TV che la gente non guarda solo “perché è accesa”, come vuol farle credere il direttore di rete, ma perché ci si trovano contenuti rilevanti per le proprie vite, con il conseguente imperativo morale di non mentire agli spettatori, e di non trattarli da stupidi; e poi il leit motiv reiterato dell’inevitabilità dei cambiamenti, forse la sola costante della vita.

Queste in fondo sono le “lezioni” impartite dalla serie, che ci rimanda anche sempre a un testo letterario che la punteggia, Grandi Speranze di Dickens, il preferito di Calvin, sullo sfondo di una storia d’amore tragica perché finita troppo presto.

Deliziosa a mio gusto la sigla di apertura.