sabato 31 dicembre 2022

LA LISTA DELLE LISTE di METACRITIC, sui migliori programmi TV dell'anno

 

Chiudo l’anno come sempre segnalando “la lista delle liste”, ovvero l’elenco che Metacritic compila riunendo moltissime liste di migliori programmi stilata dai critici televisivi. È sempre un buon punto di riferimento per capire quali sono quelli meglio considerati nell’opinione prevalente.

La lista viene aggiornata grosso modo fino a fine gennaio e si può trovare qui.  

Sotto trovate lo screenshot delle prime posizioni in lista (sono in tutto 30) per come è oggi. 



martedì 27 dicembre 2022

LE MIGLIORI NUOVE SERIE DEL 2022, secondo me

Ogni anno scelgo quelle che ritengo essere state le nuove migliori serie dell’anno. Non ci provo nemmeno a selezionare le migliori in assoluto, perché già è complicato scegliere i nuovi debutti. Con la selezione sempre più ampia che si offre, non si riesce nemmeno, o almeno io non riesco nemmeno, a vedere in tempo utile quelle che si vocifera siano meritevoli: Mo? Bad Sisters? Saranno meravigliosi esempi di televisione seriale, ma io non ho ancora avuto modo di darci una possibilità. Se non fosse del 2015, ad esempio, nella mia lista ci sarebbe indubbiamente Patriot, che io ho guardato solo quest’anno.

Alla fine tutte le liste lasciano il tempo che trovano, quindi mi sta bene semplicemente segnalare programmi che hanno debuttato quest’anno che ho trovato meritevoli. Senza ulteriori indugi, ecco la mia selezione:

Severance: per me la più elettrizzante dell’anno. Non vedo l’ora che ricominci. Ne ho parlato qui.

This is going to hurt: una serie inglese, di cui ho scritto qui.

The Bear: di cuore l’ho amata meno di altre, un po’ troppo ruvida per me, ma intellettualmente è indubbiamente nell’Olimpo: qui.

Somebody Somewhere: una chicca d’autrice di cui parlerò prossimamente.

Heartstopper: perché questo YA LGTBQ+ ha saputo davvero scaldare il cuore: qui.

House of the Dragon: il prequel-sequel del Trono di Spade è stato appassionante: qui.

Pachinko: già a giugno la indicavo fra le migliori dell’anno – qui.

Interview with the Vampire: una notevole rendition dell’omonimo romanzo della scomparsa Anne Rice. Ne parlerò prossimamente.


Ho apprezzato parecchio anche The Rehersal, che tanti stanno indicando fra le migliori serie dell’anno, ma non ho terminato di vederla, e mi sembra più un esperimento che altro, e non sono sicura del tutto di ciò che ne penso umanamente. Dovrei metterci anche Wednesday? Se valuto il buzz e l’impatto culturale, non posso non indicarla fra le migliori dell’anno, diversamente ho qualche riserva, nonostante la sua godibilità. Che dire di Station Eleven? Alla fine mi ha deluso. Vedo in qualche lista altrui anche Star Trek. Strange New Worlds, che sicuramente caldeggio, ma fra le migliori dell’anno addirittura? Nonostante il mio amore per quell’universo, sono perplessa. Vedo indicate anche Yellowjackets ed Abbott Elementary, ma per me è decisamente no per entrambe, sopravvalutate. Sono sempre combattuta nello scegliere. Per inserirle fra le migliori, non devono solo piacermi, possono di fatto piacermi di più anche serie che ho trovato meno buone, ma devono darmi uno specifico brivido che mi fa dire “wow”. In modo più semplice in questo momento non saprei come diversamente spiegarlo.

Che cosa rende una serie meritevole di essere giudicata la migliore, secondo voi? Quali sono i vostri debutti migliori dell’anno?

venerdì 23 dicembre 2022

WEDNESDAY: un gustoso YA creepy

Wednesday, o se preferite Mercoledì, la rivisitazione per Netflix ad opera di Tim Burton del noto personaggio, è diventato un successo istantaneo, già un culto, ed è facile capire il perché: è un sapiente cocktail che miscela umorismo macabro, rivalità e riti di passaggio adolescenziali, mistero e investigazione che incrocia Nancy Drew a  Stranger Things, con un pizzichino di Riverdale e una spruzzata di Buffy, sullo sfondo di un look che mescola l’attuale trend per l’estetica dark-academia e studenti con poteri sovrannaturali alla Harry Potter, pure inseriti in un simile contesto scolastico e di corpo docenti, con un’eroina sicura di sé, ma in fondo vulnerabile, che sardonicamente enuncia battute graffianti. In più è ancorata a un cult della TV, e lo reinterpreta dando anche letture nuove ad elementi ricorsivi ben noti, come lo schioccare delle dita che i protagonisti fanno nella sigla originaria. Godibilissimo.

Mercoledì Addams - una Jenna Ortega che in questo ruolo non viene mai vista battere le ciglia, cosa che ne aumenta l’aria vagamente inquietante, e che si merita tutti gli applausi che sta ricevendo per la sua memorabile iconica interpretazione – viene espulsa da scuola per aver liberato dei piraña in una piscina della scuola, piena di compagni, che avevano maltrattato suo fratello minore, Pugsley. È ormai l’ottava scuola da cui viene cacciata e i genitori, la madre Morticia (Catherine Zeta-Jones) e il padre Gomez (Luis Guzmán), decidono di iscriverla nella loro alma mater, la Nevermore Academy (nome che è un riferimento ad Edgar Allan Poe), che accoglie emarginati di ogni genere, vampiri, lupi mannari, gorgoni, sirene, e persone con poteri particolari, come ad esempio Xavier (Percy Hynes White ), che ha il potere di far vivere la propria arte (se disegna un ragno, questo può animarsi e uscire dal figlio) o Eugene Otinger (Moosa Mostafa) che ha il potere di controllare le api…

La preside Weems (Gwendoline Christie, Il Trono di Spade), ex-allieva della scuola nonché vecchia compagna di Morticia, la accoglie con entusiasmo e Mercoledì, pur contro la sua volontà, si vede costretta a frequentare la scuola e a frequentare sedute di psicoterapia con la dottoressa Valerie Kinbott (Riki Lindhome, del duo comico Garfunkel and Oates). Punto di riferimento adulto per ogni necessità è la “normie”, come chiamano i “normali”, Marilyn Thornhill (Christina Ricci, che ricordiamo ha interpretato lei stessa Mercoledì nel film La Famiglia Addams degli anni ‘90), insegnante di botanica. A “vegliare” su di lei c’è in ogni caso Mano (Thing in originale, Victor Dorobantu), una mano senziente che riesce a vedere e comunicare con lei. Anche zio Fester fa una comparsata (1.07) – e chi avrebbe detto che Fred Armisen (Portlandia) sarebbe stato così perfetto per la parte?

La giovane Addams, che accompagna il look gotico e un atteggiamento nichilista a un broncio d’ordinanza, si vede pure costretta a dividere la sua stanza con la gioiosa, radiosa, sorridente e coloratissima Enid (Emma Myers), una licantropa, che ha una cotta per un gorgone, Ajax (Georgie Farmer), che cerca comunque di farsela amica. Raccoglie immediatamente la dichiarata rivalità di una sirena, Bianca Barclay (Joy Sunday), brillante studentessa. Mercoledì scopre di avere il potere psichico di visioni del passato e del futuro, che la colgono all’improvviso, senza che lei possa controllarlo o prevederlo. Un compagno di classe viene ucciso da una misteriosa creatura e lei indaga, nonostante questo le attiri l’ostilità dello sceriffo Donovan Galpin (Jamie McShane) della Jericho, la cittadina del Vermont dove si trova la scuola. Il figlio di lui, Tyler (Hunter Doohan), che non ha un buon rapporto col padre, e lavora al locale coffee shop, dimostra un interesse per lei.

Se dalla seconda puntata ne ho capito lo spirito, il pilot non mi aveva troppo entusiasmata, devo ammettere. Mi ha preso in contropiede perché trovavo la protagonista spocchiosa e che si reputava superiore agli altri (cosa che lei esplicitamente in seguito dice di non sentirsi), e non gradivo il disprezzo che dimostrava nei confronti dei compagni: non trovavo affatto divertenti le battute dirette a ferirli. Non ci ho visto nemmeno sadismo, solo noia.  Non sono mancati i detrattori in generale, che hanno accusato Netflix di aver confezionato un prodotto troppo alla CW, ovvero una classica storiella adolescenziale, solo decorativamente gotica, poco realistica e prevedibile, incapace di staccarsi dai classici tropi delle rivalità scolastiche, rivelazioni sul passato dei genitori e indecisioni romantiche, e di sguazzare in modo derivativo in quei cliché tribali dell’adolescenza a cui la protagonista dice di non essere interessata. Non basta darle qualche tratto autistico, renderla asociale e non farle volere un cellulare per renderla anticonvenzionale.

Parte delle critiche a questa creazione di Alfred Gough e Miles Millar (entrambi già ideatori di Smallville) hanno fondamento, ma in realtà la serie funziona ugualmente, e in parte anche perché dietro alle risate che l’eccesso di impassibilità, il gusto per il macabro e le battute taglienti garantiscono – se guardi gli Addams non è il realismo dei dialoghi che cerchi - si vede comunque una persona che si percepisce come diversa, e che non ha timore di mostrarlo, come celebra la gloriosa scena di ballo alla festa della scuola in “Woe what a Night” (1.04) ormai diventata virale: è un inno alla propria bizzarra individualità e indubbiamente una delle scene televisive memorabili dell’anno.

Intrattenimento YA creepy mortalmente gustoso.

mercoledì 14 dicembre 2022

THE BEAR: televisione stellata

Intenso, serrato, gridato, anche nelle inquadrature che si affidano a primissimi piani, ansiogeno, con ritmi incalzanti, The Bear (Hulu, in Italia su Disney+), che è il nomignolo con cui è conosciuto il protagonista, porta dietro le quinte di una paninoteca-tavola calda di Chicago.

Carmen “Carmy” Berzatto (Jeremy Allen White), un brillante chef di origine italiana abituato a lavorare nell’alta ristorazione, dove si confezionano manicaretti che finiscono sulle riviste patinate ma dove si subiscono anche pensati abusi verbali sul lavoro, torna a casa per gestire il locale di famiglia dopo il suicidio del fratello maggiore Mikey (Jon Bernthal, The Walking Dead), che si è sparato quattro mesi prima di quando cominciano le vicende. Co-proprietaria del locale, che si chiama The Beef ed è in un mare di debiti, è la sorella minore dei due, Natalie detta "Sugar", ma il manager di fatto dell’umile ristorante è Richard "Richie" Jerimovich (Ebon Moss-Bachrach), loro cugino e miglior amico del defunto. Carmy, si ritrova una cucina fatiscente e uno staff mal organizzato. Assume come sous-chef la giovane Sydney Adamu (Ayo Edebiri) desiderosa di fare esperienza con il talentuoso Carmen, riconoscendone la bravura: lei ha una formazione accademica assicurata dalla CIA (l’Istituto Culinario Americano) e l’impazienza di lasciare la propria impronta. Insieme riorganizzano la cucina, nonostante l’iniziale ostilità di alcuni dello staff che presto però comprende la svolta che possono avere sotto la nuova guida. Fra loro spiccano Tina (Liza Colón-Zayas), determinata cuoca storica del posto, e Marcus (Lionel Boyce), panettiere che aspira a diventare pasticcere.

Ideata da Christopher Storer, che ha scritto una buona porzione degli episodi e ne ha diretti diversi, condividendo i credits della regia con Joanna Calo, la serie, con otto episodi di circa 30 minuti (ma variabili a seconda della puntata) racconta dei ritmi frenetici delle cucine di trincea, ma si trattano temi come il lutto, le ambizioni fallite e quelle nascenti, il mentoring, la famiglia, il cibo, la mascolinità, la salute mentale. Carmy vuole che come forma di rispetto tutti si riferiscano gli uni con gli altri come “chef”, e per evitare incidenti in un luogo ristretto dove c’è continuo movimento e pressione si gridi "Angolo!" o "Dietro!" quando ci si muove vicino a uno spigolo o dietro a qualcuno. È un’impresa corale, dove ciascuno ha un suo ruolo ben definito, che deve funzionare alla perfezione per non crollare nella pressione frenetica delle richieste. Il pianosequenza di quasi venti minuti di 1.07, in cui esplode la tensione in cucina, che The Atlantic (qui) ha definito “semi-sadistico”, e il monologo di circa sette minuti di Carmy nel successivo ultimo episodio (tempesta e quiete), sono memorabili.

Ho trovato molto acuta Lucy Mangan su The Guardian quando osserva come parte della genialità di questo programma consiste nel non rendere Carmy torturato dalla propria brillantezza. Lo è dal dolore, ma “il suo genio è una cosa imbrigliata e controllata. Non lo usa per alimentare un ego mostruoso o per giustificare l'aggressività verso i sottoposti, o per fare altre cose narcisistiche che siamo abituati a credere siano la naturale conseguenza di doni smisurati. Quando perde il controllo, nel penultimo episodio, deve lavorare per fare ammenda. The Bear non perde mai di vista l'impegno necessario non solo per guadagnarsi da vivere, ma anche per essere un essere umano funzionante e semi-decente”.

Se siete disposti a immergervi in un ambiente caotico e fenetico che è certo di provocarvi ansia al solo guardarlo, chiamatela feel-bad television se volete, potete essere certi di venire premiati con un manicaretto di primordine. Televisione stellata. 

lunedì 5 dicembre 2022

THIS IS GOING TO HURT: crudo e venato di umorismo

This is going to hurt, ovvero “Farà male”: questo è il titolo della serie della BBC1 (e co-prodotta dalla AMC, in Italia disponibile su Disney+) ideata e interamente scritta da Adam Kay che l’ha basata sul suo memoir dallo stesso titolo, che racconta le vicende in un reparto di ostetricia e ginecologia di un ospedale inglese del servizio sanitario nazionale. Perciò non si può certo dire che non ci abbiano avvertito. È stato in effetti doloroso, e per la migliore delle ragioni possibili. L’episodio 6 è stata una delle pagine di televisione più belle e devastanti che abbia visto quest’anno: costruita lentamente, montata puntata dopo puntata. Ineccepibile nel dire senza dire, come nessuno meglio degli inglesi sa fare. Se penso all’ultima battuta del personaggio di Shruti (Ambika Mod) in quella puntata, sono capace di mettermi a piangere anche ora. E c’è il dolore fisico ginecologico, che è difficile venga mostrato in un simile ventaglio di situazioni.

All’esordio, nonostante le eccellenti recensioni che la preannunciavano, ero rimasta un po’ infastidita dai commenti sarcastici del protagonista che rompeva la quarta parete, alla Fleabag. Mi parevano inadeguati. Poi si sono fatti più soft o io ho imparato a conoscerlo, chissà…in ogni caso mi ha conquistata. Adam (Ben Whishaw, A Very English Scandal) è un giovane medico completamente assorbito e sfinito per il proprio lavoro nel reparto maternità, tanto che commette l’errore di mandare a casa una paziente che poi necessita un parto cesareo perché in pericolo. Nigel Lockhart (Alex Jennings), suo diretto superiore, deve intervenire e anche Tracy (Michele Austin), la capo ostetrica lo tiene d’occhio. La sua vita privata ne soffre molto perché trascura il ragazzo con cui esce, Harry (Rory Fleck Byrne), e inizialmente lo tiene nascosto ai colleghi e alla madre (Harriet Walter). Il suo affrontare le tensioni con sarcasmo non gli impedisce di sentirsi pressato dal ritmo incalzante delle richieste, dalla scarsità delle risorse, dalla burocrazia e dagli interessi personali, dalle aspettative altrui. Shruti, un’empatica tirocinante, pure è sopraffatta dal lavoro e dallo studio: un collega la invita fuori, ma non ha tempo; i genitori sono orgogliosi di lei, ma ne sente la pressione; scoppia e avere il lavoro che per lei era il sogno di una vita non si rivela quello che si aspettava. Vicky (Ahsley McGuire), sua supervisora al lavoro, la avverte che è sempre così, è molto stressante (1.04), e non tutti ci sono portati.

Le descrizioni delle situazioni sono molto oneste e anche brutali. Io credo di poter dire di sapere una cosa o due sulla fatica, e non so se l’ho mai l’ho vista rappresentata così bene. I protagonisti sono davvero esausti e sono spesso lì per crollare, fisicamente, ma anche proprio per le responsabilità e il burn-out, tirati continuamente da tutte le parti. In questo senso ha particolarmente brillato la summenzionata puntata numero 6, dove si fa un confronto fra il servizio delle cliniche private e quello delle strutture pubbliche e non si dice quello che ci si aspetterebbe: è un applauso ai medici pubblici sottopagati e sovraccarichi di lavoro che fanno davvero miracoli in situazioni impossibili.  Anche sul fronte delle pazienti le situazioni sono toste: c’è quella razzista, quella che subisce abusi in ambito domestico, quella che si taglia con la forbice le grandi labbra perché le trova esteticamente strane…E il parto nella season finale (1.07) è un unicum: non ne ho mai visto uno mostrato in tale dettaglio e realismo, con la telecamera sparata in mezzo alle gambe della partoriente. Non poteva essere più appropriato e di impatto.

Cruda, ma venata di un umorismo che alla fine è necessario, la serie evita il melodramma, anche lì dove sarebbe facile caderci. La recitazione è al massimo livello. Da non perdere.

mercoledì 23 novembre 2022

VAMPIRE ACADEMY: avvincente

Con una narrazione veloce e una mitologia estremamente densa e delineata, Vampire Academy (su Peacock), tratta dagli omonimi libri YA di libri di Richelle Mead (6 volumi pubblicati in Italia da Rizzoli), è una godibilissima, trascinante serie adolescenzial-vampiresca, portata sullo schermo dall’esperienza di Julie Plec (fra gli altri The Vampire Diaries, The Originals, Legacies) e Marguerite MacIntyre. È un po’ The Vampire Diaries (ovviamente, viste le autrici appena citate), ma anche Buffy, True Blood, Bridgerton, Harry Potter, the Hunger Games e perfino The Handmaid’s Tale, come sarà facile intuire già dal paragrafo successivo.  In più c’è un forte legame con alcune figure tradizionali folkloristiche di questo genere di racconti.

Siamo in un mondo in cui i vampiri vivono separati dagli esseri umani, in un regno chiamato Dominion, dove sopravvivono grazie al sangue di donatori che ne hanno in cambio effetti simil-droga. Sono i Moroi, e fra loro ci sono alcuni che sono di sangue reale, divisi in casate. I giovani entrano in società con un rituale di passaggio in cui dichiarano il proprio elemento di appartenenza: acqua, fuoco, terra o aria. Presto si scopre che non per tutti è però così: alcuni non si "specializzano" perché c'è un "quinto" elemento, lo Spirito. A difenderli e proteggerli ci sono i Dhampir (o Dhampyr, secondo uno spelling alternativo), una sorta di casta inferiore, incroci fra vampiri e umani. Le donne che non vengono addestrate come guardie del corpo sono confinate in comuni e destinate alla procreazione con i vampiri che decidono di averle come compagne di sesso. I Moroi vengono minacciati, e per quello hanno bisogno di protezione, dagli Strigoi, i cattivi della situazione, una sorta di ferali vampiri-zombie molto veloci e aggressivi. Moroi, Dhampir e Strigoi non sono invenzioni dei libri o della serie, ma sono appunto legati ad antiche leggende e mitologie dei Balcani e rumene. E questa tripartizione viene spiegata subito e ripetuta all’inizio delle nuove puntate, quindi si entra subito nel vivo.

Le due protagoniste principali della serie sono Vasilissa “Lissa” Dragomir (Daniela Nieves), una principessa moroi, e la sua guardiana ancora in formazione Rosemarie “Rose” Hathaway (Sisi Stringer), una dhampyr che frequenta la St Vladimir’s Academy, una scuola estremamente rigorosa. Le due sono come sorelle, ma si scopre in corso di via che fra loro c’è un legame molto diverso e più forte (a scanso di equivoci, non è di natura sessuale). Rose presto si innamora di Dimitri (Kieron Moore), suo superiore, anche se a lei è interessato il suo compagno di Accademia, Mason (Andrew Liner), mentre il cuore di Lissa batte per Christian (André Dae Kim), osteggiato perché i suoi genitori sono diventati strigoi. Dal momento che Lissa ha perso i genitori, suo tutore è lo zio Viktor Dashkov (J. August Richard, Angel), membro del coniglio reale e consulente della regina, malato, sposato con Robert e padre di Sonya (Jonetta Kaiser) e dell’adottata Mia (Mia McKenna-Bruce), che diversamente dal padre non sono però reali. Sonya è la ragazza di Mikhail (Max Parker), Mia è quella di Meredith (Rhian Blundell), una delle più brave studentesse dell’Accademia di St Vladimir, e compagna di corso di Rose. La regina (Pik-Sen Lim) deve annunciare chi la succederà sul trono. Victor si vede forzato ad ambire alla carica per ostacolare le ambizioni politiche di Tatiana Vogel (Anita-Joy Uwajeh), estremista che rischia di portare il regno indietro di secoli.

Con un cast multiculturale – quando mai prima si è vista una protagonista attratta da un ragazzo dai tratti orientali, tanto per dirne una? –, e un’ambientazione opulenta con scenografie che ti trasportano subito in modo convincente in una realtà alternativa, Vampire Academy tratta temi come l’amicizia, l’amore, il potere, il dovere, il lutto, i rapporti genitori-figli, le differenze sociali, i rapporti stato-chiesa, la dialettica tradizione-progresso…lo fa con dinamismo. Le redini sulla mitologia, il gergo e i rituali sociali sono da esperte e, anche se se ne sente la sovrabbondanza, non ci si sente persi, ma si riesce a seguire tutto con agio. C’è poco spazio per l’approfondimento però, lì dove si è presi dal vortice degli eventi. È un melodramma sovrannaturale che non teme di essere anche cheesy, mescolato a un pizzico di intrigo politico, recitato con sufficiente dignità, pieno di colpi di scena e coppie per cui schippare. Non sarà alta televisione, ma è facile immergervisi: avvincente.

lunedì 14 novembre 2022

DANGEROUS LIAISONS: non è Le Relazioni Pericolose, ma una origin story

“L’amore è letale, Camille. Esplora il tuo cuore, ma studia il cuore degli altri. Credimi quando ti dico che il tuo amante è il tuo futuro nemico”: dice così Genevieve de Merteuil (Lesley Manville), nobildonna della Francia pre-rivouzionaria a Camille (Alice Englert) nel pilot di Dangerous Liaisons (sull’americana Starz). Ma non è Le Relazioni Pericolose di Choderlos de Laclos questa serie in 8 puntate, e per me questa è stata la vera delusione, ma una sorta di origin story della Marchesa de Merteuil e del Visconte di Valmont, una specie di prequel, se vogliamo.

Camille è una giovane prostituta che è legata da un debito verso la responsabile del bordello per cui lavora, Madame Jericho (Clare Higgins), ma vorrebbe smettere di esserlo da momento che si è innamorata di Pascal Valmont (Nicholas Denton) un cartografo che ha perso denaro e titolo quando il padre ha lasciato tutto alla matrigna, Ondine de Valmont (Colette Dalal Tchantcho). Dice di amare Camille e di volerla sposare, ma ha donne in ogni parte di Parigi. Gli hanno scritto appassionate lettere e lui le ha conservate. Con quelle scrittegli da Genevieve de Marteuil la ricatta minacciandola di inviarle al marito se lei non gli procura un titolo nobiliare e del denaro. Contro i consigli dell’amica Victoire (Kosar Ali), cameriera del bordello, Camille accetta di sposare Pascal, salvo poi scoprire tutto questo. Si rivolge perciò alla nobildonna e in cambio delle lettere chiede di trasformarla in un’aristocratica. Lei accetta, ed è allora che le dice quello di cui sopra, suggerendole di nascondere il proprio dolore e chiudere il suo cuore all’amore e alla rovina che minaccia. Lei ha esperienza. Il marito è spesso via, ma può contare sull’amicizia del maggiordomo (Hakeem Kae-Kazim). Gabriel Carrè (Hilton Pelser), un ufficiale della morale, si è invaghito di Camille e, respinto, confessa ad un prete che il male si abbatterà su di loro.

Io ho amato il libro a cui la serie è liberamente ispirata, ho trovato eccellente anche l'omonimo film con Glenn Close e John Malkovich, così come la pellicola Valmont diretto da Forman, e pure la rivisitazione in teen drama Cruel Intentions l’avevo trovata a suo tempo gustosa, per cui la mia insoddisfazione di primo acchito è stata per qualcosa che a mio modo di vedere ha usurpato il titolo del romanzo epistolare da cui è tratta: l’ideatrice e showrunner Harriet Warner, pare si sia ispirata a una lettera in particolare contenuta nel testo. Se non mi rovinasse il ricordo dei personaggi, il cui fascino era soprattutto essere così sofisticati e smaliziati, sarei stata forse più indulgente nei confronti di un’idea che non ho trovato priva di pregi. All’esordio, dal pilot che è la sola puntata che ho visto, l’aspetto più interessante sembra l’amicizia, chiamiamola così, fra le due donne, una giovane e l’altra anziana, e un apprendistato non solo evidentemente al bel mondo, ma alla manipolazione. Un dettaglio come mostrare le cicatrici dei polsi tagliati della ragazza, che vengono coperti da dei magnifici nastri, lascia capire che quello c’è: la bellezza apparentemente frivola è una copertura per le proprie ferite.

Il romanzo è uno studio sulla seduzione e sui meccanismi del cuore umano, sui virtuosismi verbali capaci di ammaliare, ed è una graffiante meditazione sulla morale e la società dell’epoca, sul peso delle reputazioni, dell’apparenza versus la realtà. In fondo anche sull'idea di come sedurre non sia amare. E come a giocare troppo si rischi il cuore. Dal primo approccio però qui, sotto parrucche importanti e visi incipriati, abiti lussuosi e ricchezza, non c’è molta sostanza, e si è a un passo dal trash. Amore, desiderio, ambizione, rabbia, delusione, amor proprio, tradimento, vendetta sembrano in fondo di poco conto, volatili. Non capiamo davvero perché Camille e Pascal siano attratti l’uno dall’altra se non perché gli sceneggiatori hanno deciso che sia così, o perché tante donne siano rimaste sedotte da Valmont. E la lussuria, che apparentemente muove molti di loro, è ben poco lussuriosa. Sì, ci sono scene di sesso, ma completamente dimenticabili.

Gli intrighi di nobili francesi di fine ‘700 possono anche essere un godibile divertimento. Qui lo sono troppo poco, tanto che in futuro potrei ri-considerare di seguire la serie, già rinnovata per una seconda stagione, ma per ora passo. 

sabato 5 novembre 2022

BOO, BITCH: esasperata e fastidiosa

Boo, Bitch (Netflix) è una commedia soprannatural-adolescenziale insipida e dimenticabile, nonostante qualche elemento che la redime.

Erika Vu (Lana Condor) e la sua migliore amica Gia (Zoe Colletti), due ragazze dell’ultimo anno di liceo, si rammaricano di non essere popolari, ma completamente invisibili. Sono le ultime sei settimane di scuola, e decidono di non aver più niente da perdere, partecipano a una festa, ma tornando a casa mezze ubriache vengono investite. Quando si risvegliano scoprono che da sotto un alce spuntano i piedi di un cadavere che ha le scarpe di Erika. Presto perciò si rendono conto che, se è ancora visibile, deve essere diventata un fantasma. Erika si interroga su come mai sia ancora legata alla terra, e capisce che ha ancora questioni irrisolte nella vita e decide perciò di recuperare il tempo perduto, anche con l’aiuto dell’amica. Uno dei suoi desideri è conquistare Jake C (Mason Versaw), che ha da poco rotto la sua relazione a intermittenza con Riley (Aparna Brielle), che è molto ammirata socialmente e diventa presto una “frenemy” di Erika. Gia, dal canto suo, si interessa a Gavin (Tenzing Norgay Trainor), leader degli Afterlifers, un gruppo di compagni di scuola appassionati di occulto, composto anche dalla sensitiva Raven (Abigail Achiri), l'aspirante mago Brad (Reid Miller) e da Sail (Savira Windyani)

Ideata da Tim Schauer, Kuba Soltysiak, Erin Ehrlich e Lauren Iungerich, questa improbabile sit-com ha un inaspettato significativo colpo di scena in “Who Dat Bitch?” (1.06), si fonda soprattutto sull’amicizia fra le due protagoniste principali e prende in giro il linguaggio “giovane” fatto di abbreviazioni e parole troncate, volutamente così complicate che è necessaria la sovrimpressione per capire a che cosa fanno riferimento.

Ci sono troppe situazioni irrealistiche ed esasperate e tanti cliché, che rendono insulsa la visione. L’invisibilità, la sensazione che sia tutto questione di vita o di morte, i primi amori, la pressione sociale, l’amicizia e le rivalità sono tutte tematiche che potevano offrire molto se non fosse stato così cringy e ridicolo. Gli eccessi di Erika che, raggiunto lo status a cui agognava, manipola e guarda dall’alto in basso chi considera inferiore, risultano fastidiosi. Per la gran parte la serie manca di arguzia, e invece di un tagliente divertimento, si ha la sensazione di assistere a della sciocca, gratuita cattiveria. Ossessionata dal suo stato e dalla popolarità ottenuta, manda all’aria le priorità, salvo poi rendersi conto di essere diventata squallida come essere umano. E i cambiamenti improvvisi di 180°, quando alla fine si pente e si ravvede, hanno davvero poca credibilità e anche l’aspetto didascalico ne rimane schiacciato. 


mercoledì 26 ottobre 2022

HOUSE OF THE DRAGON: degno erede di GoT

È un sequel che è un prequel, House of the Dragon, che segue Il Trono di Spade, ma è ambientato 200 anni prima di quelle vicende e si concentra su Casa Targaryen. La prima stagione mi ha fatto riscoprire quelle atmosfere che non mi ero resa conto mi fossero mancate. A idearla sono stati Ryan Condal e George R. R. Martin, ed è in parte tratta dal romanzo di quest’ultimo, Fuoco e Sangue. E non si può negare che fuoco e sangue non manchino, anzi in prima battuta sembrava quasi che si spingesse l’acceleratore sulla violenza, come a dire che non si era da meno della serie madre. Piuttosto rapidamente però, si è subito chiarita un’identità autonoma, che cerca anche di fare tesoro delle critiche rivolte alla genitrice.

Viserys I Targaryen (Paddy Considine, già in odore di Emmy per un’interpretazione spettacolosa, in particolare in 1.08 – “Il Lord delle Maree”) regna in modo pacifico e incontrastato sui Sette Regni. Alla morte dei suoi figli maschi di primo letto, Viserys convoca un Gran Concilio per annunciare come erede al trono la figlia femmina Rhaenyra (Milly Alcock da giovane, Emma D'Arcy da adulta). Stabilisce la successione perché vuole evitare una guerra civile, quella che sarà poi conosciuta con il nome de la "Danza dei Draghi". Tuttavia non sono pochi quelli che sono scontenti di questa scelta, trattandosi di una donna. Già la cugina del re, Rhaenys (Eve Best), conosciuta come la "Regina che non fu", avrebbe dovuto avere il trono, secondo alcuni, ed ha tutt’ora sostenitori, anche se lei pare aver accettato la cosa. Non così il marito di lei, Lord Corlys Velaryon (Steve Toussaint), conosciuto come il "Serpente di Mare". Il fratello di Viserys, e zio di Rhaenyra, Daemon (Matt Smith, Doctor Who), pure avanza delle pretese. Viserys poi, rimasto vedovo, si è sposato in seconde nozze con Alicent Hightower (Emily Carey da giovane, Olivia Cooke da adulta), cara amica d’infanzia di Rhaenyra e figlia del suo consigliere, quello che ha il ruolo di “mano del re”, Ser Otto Hightower (Rhys Ifans). Dalla seconda moglie, Viserys ha avuto un figlio, Aegon II (Ty Tennant da giovane, Tom Glynn-Carney da adulto), che tanti vedono invece come l’erede legittimo, in quanto primo discendente maschio in vita. Lui non ne vuole sapere, mentre ben più interessato sarebbe il secondogenito Aemond (Ewan Mitchell) che uno scontro coi cugini e nipoti ha lasciato privo di un occhio (1.05). Gli interessi in gioco sono molti, tante le mutevoli lealtà e i satelliti che seguono la partita. Ser Criston Cole (Fabien Frankel), ad esempio, in origine membro della Guardia Reale dalla principessa Rhaenyra, diventa poi guardia giurata della regina Alicent. Larys Strong (Matthew Needham), conosciuto come "Piededuro" a causa di una deformità che lo fa zoppicare, pure sembra fedele ad Alicent. Lord comandante della Guardia Reale è Ser Harrold Westerling (Graham McTavish, Outlander).

House of the Dragon è appagante nella stessa maniera in cui lo era Game of Thrones: delinea giochi di potere senza esclusione di colpi, a meno che non si tratti di colpi di scena, in quel caso ce ne sono a profusione. Qui, quello che si nota da subito è che ci sono importanti salti temporali fra una puntata e l’altra, di anni, e già a metà stagione, alcuni dei personaggi più di spicco, soprattutto Rhaenyra e Alicent, crescono notevolmente e cambiano le attrici che le interpretano. Non mi dispiace, ma è stato anche spiazzante. Avrei probabilmente preferito che si andasse più lentamente, perché mi ero appena affezionata e avevo appena cominciato a riconoscere i personaggi quando sono stati cambiati. A posteriori non lo rimpiango in ogni caso. E hanno promesso che grandi elisioni temporali in seguito non ce ne saranno più.

Un’accusa che è stata rivolta al programma è di avere nei confronti del parto lo stesso atteggiamento che la serie ammiraglia aveva nei confronti dello stupro. Kathryn VanArendonk su Vulture titola: “L'ossessione per le nascite brutali di House of the Dragon non è realismo. È crudeltà”. Scrive “Nel primo episodio, il bambino della regina Aemma è posizionato male e sia lei che il bambino muoiono dopo un cesareo senza anestesia. La sequenza è straordinariamente e orgogliosamente violenta: ci sono inquadrature di un letto intriso di sangue e immagini del volto agonizzante di Aemma. La macchina da presa si sofferma sulle sue mani e sulla sua espressione facciale mentre si rende conto di ciò che sta per accadere, assicurandosi che il pubblico abbia il tempo di registrare il suo panico e il suo terrore prima che venga aperta contro la sua volontà”. Un secondo brutale tentativo di parto c’è stato (1.06) con la moglie di Daemon, Laena, e quando Rhaenyra partorisce, e Alicent pretende di vedere subito il bebè, lei si trascina per il palazzo che a mala pena si regge in piedi. Pure il parto nella season finale (1.10) è stato decisamente crudo. Questo è realistico purtroppo, specie in un mondo di tipo medievale come quello evocato da queste ambientazioni (o forse no?). Gli showrunner lo hanno scelto con consapevolezza con l’intento di mostrare anche l’orrore di un momento della vita che spesso era molto violento nella vita demminile. Apertis verbis viene fatto dire ad Aemma anche che questo è il campo di battaglia delle donne, quello a cui sono destinate, e come tale porta sangue e morte. La sensazione secondo chi critica questa scelta è che se ne vada un po’ troppo fieri, come se fosse coraggio narrativo, quando “è solo un modo diverso di dire che le donne valgono soprattutto come corpi e che le persone che possono partorire possono essere ridotte al fatto che i loro corpi si comportino bene o meno”.  Conclude: “In uno show in cui il suo valore è definito da qualsiasi altra cosa che non sia il suo destino corporeo, forse la sua vita avrebbe potuto avere un significato che andasse oltre la perdita di un combattimento impossibile da vincere. E forse House of the Dragon sarebbe uno show migliore se sapesse come misurare il valore di una donna al di là di una cervice dilatata a dieci centimetri.” Anche Rebecca Onion su Slate, in un pezzo molto ben ragionato e documentato, è di questo avviso. Io concordo che la realtà che viene mostrata fosse proprio quella: donne come incubatrici. Ma per me sta proprio lì il punto: nel mostrarlo e nel far intendere quanto deumanizzante sia. L’orrore di Aemma è il nostro orrore. Sono in ogni caso riflessioni pertinenti e significative.

Che si veda però un riposizionamento e una discontinuità sulle questioni di genere rispetto al passato di questo universo narrativo è indubitabile, ed è partito anche attraverso il dietro le quinte e dalle maestranze utilizzate, più inclusive. Su questo tema specificatamente, ma anche su altre, invito ad ascoltare il podcast di Sara Mazzoni, Attraverso lo schermo, che fa analisi puntata per puntata e offre numerosi spunti di riflessione.

La sigla d’apertura stessa, sia sul piano sonoro che su quello visuale veicola la forte connessione con Game of Thrones. Anche se lo scope qui è più ristretto, la portata narrativa cioè ha una portata meno ampia, e c’è meno ironia, comunque ancora una volta i valori produttivi sono superbi, a partire dai gloriosi draghi, e il coinvolgimento è assicurato. Che l’ultima puntata della stagione sia “leaked”, sia riuscita ad essere piratata in streaming sul web prima dell’uscita ufficiale, per quanto possa ragionevolmente dispiacere a chi lo mette in onda, è anche segno del fervore della fanbase.    

martedì 18 ottobre 2022

STRANGE NEW WORLDS: è davvero STAR TREK

Da adolescente per me Star Trek, l’originale, era praticamente una religione. Sono cresciuta con gli ideali della Federazione dei Pianeti Uniti: armonia, diversità, ricerca, scienza, esplorazione, senso del dovere, rispetto, humanism (nel senso in cui lo intende l’American Humanist Association)… Le più recenti incarnazioni del franchise non sono riuscite a cogliere l’autentico spirito di partenza, per me. ST: Discovery ha proposto intrecci interessanti, ma era proprio un’altra cosa, a dispetto del rispetto per il canone, e Picard, che pure ha avuto una solida affascinante prima stagione ha fatto uno scivolone con la seconda e, alla fine, ha avuto una sensibilità molto diversa. The Orville era più nello spirito di Star Trek di dare nuova vita alla creazione di Gene Roddenberry dei vari tentativi che ne portavano il nome. Con il nuovo arrivato, Star Trek: Strage New Worlds (Paramount+) è tutta un’altra storia. Si è forse narrativamente meno ambiziosi, affidandosi a puntate autoconclusive, ma si coglie la filosofia che animava la creazione originaria. Se la ruota funziona non è necessario reinventarla. Era l’epoca della fioritura delle Nazioni Unite e la Federazione dei Pianeti Uniti rappresentava un ideale di umanità e di civiltà. L’obiettivo primario era la ricerca scientifica, l’esplorazione di nuove civiltà, e questo finalmente ce lo si è ricordati.

Strange New Worlds ha anche tenuto alcune ingenuità dell’antenato: qualche battaglia, ma non troppe, e l’equipaggio della nave che, colpita, si aggrappa alle rispettive sedie inclinandosi a destra o a sinistra, qualche scazzottata di cui si potrebbe fare anche a meno… ma ci stanno bene anche quelle, non fosse per altro che per l’effetto nostalgia. C’è stato un momento in cui la divisa dell’ufficiale medico, pur diversa, mi ha fatto l’effetto della madeleine proustiana. È anche uno Star Trek più umano questo, meno militare e più di rilassato. Le relazioni interpersonali hanno più peso.

Visivamente c’è un upgrade notevole: ci sono un ottimo production design e una eccellente illuminazione, ma la tecnologia è giustamente coerente con il mondo che conoscevamo. Questa è l’Enterprise del capitano Christopher Pike (Anson Mount), meno una testa calda del suo successore Kirk, più posato e desideroso di creare consenso, dove possibile. Si è ben saputo recuperare le vicende che a lui erano capitate in Discovery, di cui questa serie è uno spin-off e dove lui ha avuto modo di vedere il proprio futuro, in cui sarà sfigurato e su una sedia a rotelle, con quelle della nave di Kirk, di cui questa serie è de facto un prequel. E parte della riflessione è proprio sul futuro, su quanto sia già stato scritto, su quanto le nostre azioni possono impattarlo. Primo ufficiale è Una Chin-Riley (Rebecca Romijn), che nasconde un segreto. Ritroviamo Spock (Ethan Peck), e si menziona anche la sorella che abbiamo conosciuto in Discovery. È ufficiale scientifico, ed è promesso sposo della vulcaniana T’Pring (Gia Sandhu). Nyota Uhura (Celia Rose Gooding) qui è solo una cadetta, specializzata in linguistica, e ne si costruisce e ne impariamo la backstory. Dei personaggi storici, chi risulta trasformata in qualcuna di più peperina e dinamica - e va benissimo così - è Christine Chapel (Jess Bush), l’infermiera del dottor Bones. Quest’ultimo è sempre stato il mio preferito, e non c’è, ma ha senso. Al suo posto un ufficiale medico originario del Kenya, Joseph M’Bega (Babs Olusanmokun), che pure faceva parte del canone. Compare anche un Kirk, ma non il James T. che abbiamo imparato a conoscere, ma un certo Samuel, antropologo. Il popolare capitano però è comparso in chiusura e lo rivedremo nella seconda stagione, con il volo di Paul Wesley (The Vampire Diaries). Per il poco che lo abbiamo visto, mi ha convinto. 

Ci sono anche personaggi nuovi di zecca, in questa creazione di  Akiva Goldsman, Alex Kurtzman, and Jenny Lumet, e in particolare: La’an Noonien-Sing (Christina Chong), addetta alla sicurezza e discendente del “cattivo” Kahn; Erica Ortega (Melissa Navia), timoniera; e come ingegnere capo, Hemmer (Bruce Horak), un Aenar, ovvero una Andoriano albino quasi cieco e con capacità telepatiche. Insomma, alla fine c’è un giusto mix fra nuovo e vecchio: si omaggia il passato e ne si onora la tradizione valoriale aggiornandola.

Un applauso va al casting, su più livelli. Ha fatto un re-casting dei personaggi noti molto oculato e riuscito probabilmente il più difficile di tutti era l’iconico Spock e quest’attore ereditato da Discovery ha fatto suo il ruolo senza tradire quello portato al successo da Leonard Nimoy. Strage New Worlds ha saputo essere inclusivo nel vero spirito della serie, anche nei personaggi minori. Sono rimasta favorevolmente impressionata che per interpretare Aspen, una pirata nella puntata “The Serene Squall” (1.07), abbiano scelto Jesse James Keitel (Queer As Folk). Che bella idea scegliere un’attrice non binaria per dire a Spock, in crisi fra l’essere umano e vulcaniano, che si tratta di un falso dilemma, che non importa che cosa sei, importa chi sei. Con una simile interprete il messaggio è passato due volte: tanto di cappello alla serie perché così mette in pratica quello che predica.  

In conclusione, Strange New Worlds è una visione facile, e poco serializzata per cui ci si può saltar dentro in ogni momento senza timore di non capire. Non è probabilmente quella che uno oggi chiamerebbe televisione imperdibile, ma è davvero Star Trek.

sabato 8 ottobre 2022

THE FIRST LADY: di scarso impatto

Eleanor Roosevelt (Gillian Anderson, e da giovane Eliza Scanlen). Betty Ford (Michelle Pfeiffer, e da giovane Kristine Froseth). Michelle Obama (Viola Davis, e da giovane Jayme Lawson). Sono queste le tre protagoniste della prima mandata della serie antologica The First Lady (Showtime, Paramout+ in Italia). Le loro storie si segmentano e si alternano mostrando parallelismo, con continui passaggi temporali e occasionali flashback: cambiano i tempi, ma il potere di quel ruolo non codificato ma innegabile, e di certe sfide, non cambia.

Non è stata di grande impatto questa serie di Aaron Cooley, con una sigla che a me ricorda quella di True Blood per il modo in cui è costruita, sia visivamente che musicalmente. C’è una ricerca accurata dei personaggi e delle epoche storiche, ma non riesce a essere veramente incisiva. Tutto è assai blando, anche quando le questioni affrontate sono di fatto scottanti. C’è giusto una patina femminista, anche se a volte è sembrata più di maniera che altro. Ci sono donne viste sia dal punto di vista personale, anche di percorso di crescita che le ha portate a essere chi sono, ma ho storto un po’ il naso quando in partenza è stato ribadito in più di una occasione che dovevano essere delle persone eccezionali per rivestire il ruolo che hanno avuto. Quello che è vero è che sono riusciti almeno in parte a mostrare la condizione delle donne attraverso una “prima donna” che le ha vissute in prima persona e ha aiutato, attraverso le proprie doti, ad avere un impatto sulla realtà che le circondava. “Le First Lady e i loro team sono spesso le avanguardie del progresso sociale in questo Paese" è quello che vogliono far credere, sia vero o meno come regola, attraverso le parole di Betty a Michelle in una lettera personale.

Se all’epoca di Eleanor alle persone di sesso femminile veniva chiesto solo di parlare di ricette e di pulizia della casa, lei ha saputo combattere diventando una voce (anche in senso letterale, con un programma radiofonico) in cui l’interna nazione potesse riconoscersi. La si vede sempre impegnatissima: tiene discorsi con la stampa, si oppone alla segregazione raziale, tontona chiunque pur di assicurare asilo a decine di ebrei in fuga dalla Germania nazista, ha un ruolo nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Betty, ammalatasi di cancro al seno (1.05), sceglie di rivelarlo a tutti, spingendo così molte persone a fare controlli medici che hanno salvato loro la vita. Lo stesso fa rispetto all’abuso di sostanze. Nello stabilire che cosa tenere privato e che cosa rendere pubblico, ha agito contro i suggerimenti anche pressanti dei consiglieri politici, cambiando in meglio la vita del Paese. Michelle, che dalla consulente scolastica era stata spinta a puntare più in basso nel proseguimento degli studi in quanto nera, nonostante i voti brillanti, decide di parlare a una cerimonia di diploma per fare la differenza una volta che può dire la sua, anche se questo è un rischio (1.08), si preoccupa di cibo ai poveri e violenza delle armi, di salute pubblica, e cerca di elevare il livello dello scontro… Seppur carismatiche possono usare la propria personalità per avere un impatto grazie al proprio ruolo, ma non possono agire a  piacimento perché i propri pensieri, il proprio modo di comportarsi e le proprie scelte, hanno un effetto amplificato sulla vita dei propri rispettivi mariti Franklin (Kiefer Sutherland, e da giovane Charlie Plummer), Gerald (Aaron Eckhartm, e da giovane Jake Picking), Barack (O-T Fagbenle, e da giovane Julian De Niro).

Il matrimonio degli Obama è stato mostrato come il più “idilliaco”, e viene da chiedersi se non sia perché ci sono contemporanei e non c’è altrettanto distacco e obiettività, o perché sia effettivamente così. Con le figlie Malia (Lexi Underwood) e Sasha (Saniyya Sidney) e anche con la madre Marian (Regina Taylor) hanno sempre mostrato una famiglia ideale. Voglio credere nella seconda ipotesi, dopotutto dubito che ci sarebbero problemi a ritrarre i Clinton come una coppia conflittuale, però viene naturale domandarselo. Non ci si fa troppi problemi ha mostrare la relazione saffica di Eleanor con la giornalista Lorena Hickok (Lily Rabe) in un’epoca in cui appariva contemporaneamente meno e più problematico di ora. La storia effettiva ci lascia un punto interrogativo in proposito, al di là delle ipotesi.  I problemi da farmaci e alcol di Betty Ford sono ben noti, ma c’è stato un che di intimo nel vedere la figlia Susan (Dakota Fanning) organizzare un’intervention perché andasse in una clinica a disintossicarsi.   

Guidati da una regia interamente affidata a Susanne Bier, abbiamo visto tutti attori di primordine, e tutti hanno fatto un lavoro più che dignitoso, quasi sbalorditivo per come hanno colto gli aspetti delle movenze o perfino dei tratti prosodici, si direbbe. Allo stesso tempo sono sembrati ingabbiati dal dover interpretare personaggi veramente esistiti e ben noti. Michelle Pfeiffer è quella che meno è caduta in questa trappola, dando una forza sorprendente ad una first lady forse meno conosciuta delle altre due. I corrispettivi maschili, i presidenti, sono stati relegati a ruoli di supporto come solitamente accade all’opposto. Non vi ho visto demascolinizzazione, ironica o meno, come hanno fatto altri, ma certo sono stati mostrati “sotto tono” o in momenti più tranquilli, meno leader, più compagni di vita.

Hilary Clinton, Jaqueline Kennedy, Laura Bush (per quest’ultima mi viene in mente il bellissimo libro American Wife, di Curtis Sittenfeld)… sono sicuramente diverse altre le first lady di cui si si sarebbe potuto parlare. La serie però non è stata rinnovata. In ogni caso già la prima stagione da sé può essere una visione gradevoe, ma più per fare una sorta di ripasso leggero su chi è chi e ha fatto che cosa, che non per grandi prospettive o rivelazioni o riflessioni. 

martedì 4 ottobre 2022

THE GOOD FIGHT: finirà con un'esplosione?

L’ultima puntata dell’ultima stagione di The Good Fight terminerà con un’esplosione, o almeno questa è la mia ipotesi. "Sarà un episodio catastrofico che vedrà molta violenza", ha dichiarato Robert King, co-ideatore e produttore esecutivo della serie in un’intervista a TV Line, aggiungendo che anche se si toccheranno dei punti chiave necessari a un’ultima puntata, non sarà trattata come se lo fosse. La moglie che con lui ha co-ideato la serie e la serie “compagna” The Good Wife, e che pure come lui ha il ruolo di EP, ha aggiunto: “L'intera stagione vuole essere il culmine dell'universo di [Good], più che solo l'ultimo episodio”. Finire tutto con un’esplosione sarebbe sensato.

SPOILER. Dall’incipit della sesta stagione (6.01 intitolata “L’inizio della fine”), fuori dalla sede della Reddick & Associates ci sono manifestanti, proteste, esplosioni, boati, gas lacrimogeni, spari, che fanno da sottofondo a tutte le attività di questi avvocati. Una granata viene lanciata dentro un ascensore – poi si rivela finta, ma il messaggio è chiaro: la prossima volta non lo sarà. Alla fine di “The End of Football” (6.03) c’è un’enorme deflagrazione che distrugge una vetrata dietro a Diane Lockhart (Christine Baranski) e il nuovo personaggio Lyle Bettencourt (John Slattery). La puntata successiva (6.04) si apre con la dicitura che vedete in alto nella foto: “Questo episodio include contenuti che possono essere sensibili per alcuni spettatori…soprattutto spettatori che sono disturbati da materiale cerebrale che esplode”. Quando il contenuto in questione prende forma nella puntata, io già non ci pensavo più, ed è stato scioccante e doloroso, con un superlativo – come sempre - Alan Cumming nel ruolo di Eli Gold. Lì per lì però, quando ho visto il trigger warning ho ridacchiato, anche per la sua specificità, pensando che difficilmente chi segue questa serie si fa turbare da un’esplosione, anche in considerazione della sigla, che è partita subito dopo e che da sempre è una serie di oggetti che esplodono.

È stato allora che ho pensato: ce lo hanno sempre detto e di continuo. Non possiamo essere cechi ai warning signs, i segnali d’avvertimento: esploderà tutto. Suppongo che scopriremo se ho ragione il 10 novembre, data di messa in onda della series finale.

lunedì 26 settembre 2022

OUR FLAG MEANS DEATH: pirati, ma con gentilezza

Penso che Our Flag means death (HBO Max, per ora inedita in Italia) sia una di quelle serie che diventano progressivamente più divertenti a mano a mano che le si riguardano, perché l’umorismo viene da piccoli dettagli gustosi che prendono forza dalla ripetizione. Mi ha convinto solo mediamente in realtà, nonostante già solo vedere il cast mi metta di buon umore. 

Molto vagamente ispirato a una storia vera, secondo cui un ricco signorotto inglese del Settecento avrebbe abbandonato la propria vita e famiglia per diventare un pirata, la serie ideata da David Jenkins (People of Earth), si concentra su Stede Bonnet (vero nome del personaggio storico peraltro), interpretato da Rhys Darby. Conosciuto come il “pirata gentiluomo” – “più gentiluomo che pirata" (1.02) - è il capitano della Revenge (Vendetta). Ha modi gentili e educati, ci tiene alle buone maniere e alle letture, e incoraggia il proprio equipaggio, bizzarramente assortito, a parlare dei propri sentimenti e a risolvere i problemi comunicando. Da parte loro lo vorrebbero più tosto e aggressivo, e sono entusiasti quando incontrano il famoso Blackbeard (Taika Waititi), Barbanera, leggendario corsaro marino il cui vero nome è Edward “Ed” Teach, stufo però della propria reputazione e della propria vita. Bonnet e Barbanera si innamorano, e la piega che prendono le vicende non piace al braccio destro di quest’ultimo, Izzy Hand (Robert Con O’Neill, Cucumber). Nelle loro peripezie incrociano anche il capitano Nigel Badminton (Rory Kinnear, Penny Dreadful), della marina inglese, che da bambino tormentava Stede e ora non è da meno.

La colorita ciurma, competente ma non troppo, comprende: Lucius (Nathan Foad) che registra fedelmente in un diario di bordo le avventure e disavventure del comandante e di tutti loro; Buttons (Ewen Bremner), che è in grado di parlare con i gabbiani e ha un legame particolare con uno specifico, Karl; Black Pete (Matthew Maher), che più di tutti vorrebbe comportamenti più aggressivi; Frenchie (Joel Fry), che ama cantare le avventure dell’equipaggio; Oluwande (Samson Kayo), il più affidabile; Jim (Vico Ortiz), in realtà Bonifacia, che ha una taglia sulla propria testa, grande amico di Oluwande; Wee John Feeney (Kristian Nairn), ossessionato dal fuoco; lo Svedese (Nat Faxon), spesso ignaro di ciò che sta accadendo; Roach (Samba Schutte), il cuoco ma all’occorrenza anche medico perché “un coltello è un coltello e la carne è carne”; Fang (David Fane) e Ivan (Guz Khan) che erano membri dell’equipaggio di Barbanera. Per la gran parte sono appena abbozzati, poco più di una caratteristica, anche per questo la serie cresce quando impariamo a conoscerli meglio.  

L’umorismo nasce in primo luogo dall’aspetto fisico di tutti i protagonisti, per come sono vestiti e truccati e per il loro modo di parlare, poi dalla critica indiretta al machismo e alla mascolinità tossica, attraverso la gentilezza di Stede in contrasto con la vita rude e crudele che ci si aspetta dai pirati – l’equipaggio che gli suggerisce tutti possibili modi di torturare i prigionieri non può non far ridere davanti a lui che è un animo pacifico, lo stesso dicasi quando si vede che si rivolge ai propri uomini per parlare dell’allontanamento fra lui e Barbanera come dei genitori parlerebbero a dei bambini del proprio divorzio. L’entusiasmo che Stede ci mette - ad esempio prende appunti su come diventare un buon pirata (1.05) – e le situazioni chiaramente assurde garantiscono un umorismo lieve e garbato. E ci sono riflessioni su quello che desideriamo per noi stessi dalla vita, su che cosa ci rende felici, su che cosa sia l’amore.

La serie è stata lodata, e mi accodo al coro, per la rappresentazione dei personaggi LGBTQ+ molto naturale, senza queerbaiting, innanzitutto, nel senso che le scene di amore omosessuali che vengono messe in scena non sono solo un’esca perché il pubblico che si riconosce in quelle identità continui a guardare, ma sono svolte con naturalezza, in secondo luogo si rinuncia ai classici tropi, non ci sono coming out eclatanti o contrasti legati alla sessualità dei personaggi perché per fortuna non ce n’è bisogno. In questo senso, semplicemente si è.

Bucanieri con un sorriso sincero e in fondo tanta dolcezza. La serie è stata confermata per una seconda stagione. 

venerdì 16 settembre 2022

STATION ELEVEN: una realtà post-apocalittica

Station Eleven, la miniserie post-apocalittica della HBO Max basata sull’omonimo romanzo di Emily St. John Mandel, è ambientata vent’anni dopo una pandemia che ha portato al collasso della civilizzazione. Mi ha deluso rispetto alle aspettative, ma gli stimoli che lancia sono notevoli.

Fra i pochi sopravvissuti, c’è un gruppo di attori itineranti che propone lungo il proprio percorso i classici di Shakespeare – e gli estimatori del Bardo, che torna in modo ricorsivo con citazioni di varia natura, sapranno cogliere più livelli di lettura di quanto non abbia fatto io. Ma già dal pilot, una copia del Re Lear, per terra fra le macerie dove mangiano i maiali, è accostata di fatto al fumetto che invece viene preservato, e mi ha fatto pensare che si voglia in qualche modo far passare l’idea che i prodotti culturali considerati meno intellettualmente elevati ci dicono poi di più sulla realtà presente e hanno potenzialmente lo stesso l’impatto di opere culturalmente più riverite. In qualche modo, di fronte alla distruzione, la cultura umanistica sopravvive in ogni caso. Le storie sono tutto ciò che conta, il potere delle narrazioni è quella di farci vivere in altri mondi, la forza del talento e il potere delle performance ci permettono di sopravvivere, produrre arte ha valore. Shakespeare continua ad essere evocato, attraverso molte opere, ma mai veramente messo in scena, se non per piccoli frammenti, che da soli aprono un mondo. Con l’arte non c’è un prima e un dopo, è presente, è eternità.

ATTENZIONE SPOILER IN QUESTO PARAGRAFO DI TRAMA. Star di questa compagnia, la Traveling Symphony (Orchestra Sinfonica Itinerante, nel libro che non ho letto - al mio scrivere una versione in italiano della serie ancora non c’è), è Kirsten (Mackenzie Davies, e da più piccola Matilda Lawler), che da bambina, persi i genitori per il crollo della società, era stata presa sotto l’ala protettrice di Jeevan (Himesh Patel), e per un breve periodo dal fratello di lui, Frank (Nabhaan Rizwan). Già da piccola recitava accanto al famoso attore Arthur Leander (Gael García Bernal), e ora viaggia con, fra gli altri, Sarah (Lori Petty), co-fondatrice della compagnia, e Alexandra che, giovanissima, non è una “pre-pan” ovvero non ha conosciuto la civiltà per come era prima. Incontrano il capo adulto di una violenta setta religiosa composta da bambini, Tyler (Daniel Zovatto, e da bambino Julian Obrados), figlio del sopracitato Arthur e della sua seconda moglie Elizabeth (Caitlin FitzGerald, Masters of Sex), che insieme all’ex-migliore amico di Arthur, Clark (David Wilmot), vive in una comunità in auto-isolamento presso l’aeroporto di Severn City. La prima moglie di Arthur, Miranda Carroll (Danielle Deadwyler), è l’autrice di una graphic novel intitolata “Station Eleven”, che molta importanza ha avuto dall’infanzia nella formazione sia di Kirsten che di Tyler.

Il primo aspetto che ho apprezzato è che il virus che decima la popolazione è rappresentato in modo realistico e “naturale”, non come il grande nemico da sconfiggere (alla Helix). E mi è piaciuta la scelta di creare una dicotomia fra gli elementi di pandemia e di distruzione con il sovraffollamento - penso al pronto soccorso e alle macchine parcheggiate fuori (1.01) - e quelli di sopravvivenza con il vuoto e l’isolamento - il supermercato, il rapporto fra Jeevan e Kirsten, che è la spina dorsale degli episodi iniziali. Mettere insieme sullo schermo un uomo adulto e una bambina di otto anni che non è sua parente e che non lo conosce può presentare delle problematicità e qui sono riusciti a renderlo credibile e sano. Mi ha trasmesso serenità vedere che la post-fine-del-mondo è più bella, più verde, più lussureggiante, più brillante del presente a cui si deve dire addio (in cui prevalgono i colori grigi e scuri). Mi ha fatto ripensare all’anime televisivo giapponese della mia infanzia “Conan – il ragazzo del futuro” di Miyazaki (1978), che ritorna alla mente in più occasioni.

Molte sono però le suggestioni che lancia la serie portata sullo schermo da Patrick Somerville: le continue traslazioni spazio-temporali, anche se mi hanno fatto pensare anche a Lost, mi hanno evocato più Watchmen, nel senso che ho avuto sì la evidente percezione che si andasse su e giù nel tempo, ma anche contemporaneamente come se tutto stesse accadendo nello stesso momento, in un eterno presente che si ripete; vengono richiamati The Leftovers, Counterpart, il maestro del fumetto Mœbius, Legion, The Walking Dead…e poi Star Trek.

Quando sono stati menzionati gli “undersea” (1.04), ho immediatamente pensato all’episodio della serie originale di Star Trek intitolato “Miri” (1.08). Nell'episodio, cito da Wikipedia, “l'Enterprise scopre un esatto duplicato della Terra, dove gli unici sopravvissuti a una mortale epidemia causata dall'uomo sono alcuni bambini del pianeta”. Si può immaginare poi la mia sorpresa quando in seguito Kirsten bambina ne guarda alla TV un episodio, e corre poi a leggere il fumetto come se avesse avuto una rivelazione - non ero stata in grado di individuare a memoria l’episodio, ma mi sono segnata il personaggio che menzionano, il dottor Thomas Leighton, e ho recuperato di quale si tratta, “La magnificenza del re” (1.13), un titolo preso da Amleto e dove il capitano Kirk incrocia il leader di una compagnia di attori shakespeariani che si trova sul pianeta in cui è stato convocato e che è sospettato di essere stato un dittatore pluriomicida 20 anni prima. E nell’episodio successivo di Station Eleven (1.05), fra gli oggetti da conservare a testimonianza del passato c’è una action figure di Spock. L’amore per la serie ideata da Gene Roddenberry non può essere negato.

“We need new words – Abbiamo bisogno di parole nuove” si dice in “Dr. Chaudhary” (1.09): le parole costruiscono il nostro mondo, e per cambiarlo e rifondarlo abbiamo bisogno di termini nuovi. Qui sono molte le parole, interconnesse, che si rincorrono: umanità, perdita, passato e, come accennavo sopra, arte. L’arte è civilizzazione, l’arte è ciò che ci permette di dare un senso al mondo (penso ad esempio a Kirsten che scopre della morte dei genitori e che recita), dà senso, ha potere terapeutico, è una forma di comunicazione che ci fa riconoscere gli uni negli altri e travalica spazio e tempo. Poetica, anche se criptica, la narrazione ci regala riflessioni sull’amore, la morte, le emozioni, le scelte della vita e il significato di quello che facciamo: importa, non si tratta di sopravvivenza. Il messaggio ultimo per me è stato che niente muore finché siamo capaci di riconoscere noi stessi negli altri. Ho continuato a rimanere impressionata del modo chirurgico di collegare passato e presente, di tessere maglie strette fra eventi e persone apparentemente distanti. Tutto torna e si ripete, in forme diverse, tutto è collegato.

Se una metafora volessi trovare per la mia esperienza di visione di questa serie, alla fine direi che è stata quella di trovarmi di fronte a uno specchio in frantumi che mi mostra molte me, o uno di quegli specchi da luna park che ti mostra contemporaneamente in molte diverse prospettive. O forse, anche meglio, penso a una rete neuronale, e agli impulsi delle sinapsi che mi portano in un istante in mille luoghi contemporaneamente.    

E per ultima, la cosa più importante: è decisamente rassicurante sapere che anche se arriva l’apocalisse, possiamo sempre contare su un delizioso barattolo di Nutella (1.07). Quindi c’è speranza dopotutto.  

martedì 6 settembre 2022

PATRIOT: ritratto di un uomo triste, con humor

Non mi aspettavo che Patriot fosse così divertente. E in questo momento non avrei scoperto questa piccola gemma che ha debuttato nel 2015 (e disponibile su Amazon Prime), se non fosse stata scelta per il club della TV di Tim Goodman, a cui partecipo.

Su incarico del padre Tom (Terry O’Quinn, Lost), John Tavner (Michael Dorman), deve portare una somma di denaro in Iran per avvantaggiare la vittoria di un politico che impedisca la proliferazione di armi nucleari. Il compito in teoria è semplice, ma molte cose vanno storte. John, per svolgere il suo ruolo come funzionario di intelligence, si fa assumere in un impego di copertura, quello di ingegnere dipendente di un’impresa di tubazioni industriali di Milwakee, che per lavoro gli permette di andare in Lussemburgo, dove si svolge molta dell’azione. Da tutti è conosciuto come John Lakeman. Compone canzoni folk come valvola di sfogo raccontando quello che gli accade. Questo eroe controvoglia detesta il suo lavoro ed è progressivamente sempre più depresso, ma si piega ai desideri del padre. Ad aiutarlo dove necessario c’è il fratello Edward (Michael Chernus), mentre la moglie Alice (Kathleen Munroe) è all’oscuro di tutto. Sul luogo di lavoro, la McMillan, che molto tiene allo spirito aziendale, è costretto ad avvalersi di un collega, Dennis (Chris Conrad) che gli diventa amico, ma non brillando in quello che è chiamato a fare, distratto da i suoi altri compiti, si attira l’aperta ostilità del suo superiore Leslie (Kurtwood Smith, That 70s Show), che ripetutamente cerca di venirgli incontro. Alle calcagna di John, coinvolto in un omicidio, c’è la detective Agathe (Aliette Opheim) della polizia di Lussemburgo.

Patriot è ricco di azione. È evidente che la narrazione è progettata meticolosamente, così come è chiaro da subito quello che viene esplicitato in seguito: quello che stanno facendo a livello narrativo ha a che fare con la dinamica di flusso, quello di cui si occupa l’azienda per cui lavora John, ovvero spostare qualcosa da A a B e affrontare gli elementi (attrito, gravità e altri, in campo ingegneristico) che ostacolano il raggiungimento dell’obiettivo. Forma e contenuto insomma coincidono, e in maniera geniale, anche perché in questa creazione di Steven Conrad una gran parte dell’umorismo nasce proprio da questi stessi ostacoli, che sottolineano la frustrazione del protagonista e lo umanizzano. Come ha ben osservato Steven Rubio, uno dei partecipanti al club della TV menzionato sopra, “il personaggio di base di John è impostato come il tipico eroe maschile, ma a John non viene mai permesso di esserlo. Sarebbe più adatto a un film esistenzialista francese degli anni Cinquanta” (qui).

Molto ha a che vedere con le obbligazioni familiari. Si riflette su quanto non sia facile liberarsene anche quando lo si desidera. La pressione di Tom sul figlio è atroce – e la sigla di apertura con i video dei due fratelli costretti a competere fin da piccoli reitera ad ogni episodio il terreno su cui il rapporto padre-figlio è costruito. John pur magari vedendo possibili alternative di vita che potrebbe prendere che lo renderebbero felice, non riesce a prenderle.

La primissima cosa che mi ha colpito già nel pilot è stata l’evento brutale di John che spinge sotto un camion il rivale Tchoo (Marcus Toji) per il posto di lavoro che deve assolutamente avere – quest’ultimo si riprende, ma ha grandi problemi cognitivi, tanto che deve essere assistito da una terapeuta occupazionale, Ally (Charlotte Arnold), cosa che dalla serie è usata sia in declinazione umoristica che di possibile minaccia per John nel caso in cui questo sventurato ricordasse la dinamica del suo incidente. La mia mente ha avuto un flash su Mr Robot, dove pure accade qualcosa di similare, mutandis mutandis – anche se poi Mr Robot ci ha dato nel tempo una spiegazione molto diversa. Anche se la serie a cui ho ripensato di più, è stata Barry, che è evidentemente in debito nei confronti di Patriot: c’è lo stesso senso di essere costretti a compiere atti violenti e crudeli che sono visti come un modo di andare contro la propria natura pacifica e come un modo di rendersi infelici. Non sono una grande amante della brutalità e della violenza coniugate all’umorismo, ma in Patriot funziona proprio bene. E me lo sono goduto in tanti piccoli dettagli. È sempre sull’orlo della parodia, ma non arriva mai ad esserlo. Le canzoni folk sono brillanti, perché non fanno che dichiarare in modo molto diretto, quasi banale, quello che è successo, e ridiamo perché lo abbiamo visto, ma allo stesso tempo ci fa riflettere su una modalità di costruzione di quel genere di canzoni, e su come probabilmente siamo soliti leggere significati metaforici anche lì dove magari non ci sono. Non so se ho mai visto una tale sicurezza nell’equilibro fra dark e funny.

La connessione perfetto-imperfetto è un tema portante del programma: quello a cui miriamo e il modo in cui viene realizzato. La vita di John è costruita su menzogna e manipolazione, e assistiamo a numerose lezioni in questa direzione. In modo paradossale proprio attraverso questi comportamenti che allontanano il protagonista dalla serenità personale si riflette su come il contatto umano ci salvi e l’importanza di concedersi di essere quello che si è a dispetto di quello che appariamo. Questo, che è il grande messaggio positivo della serie in generale, viene comunicato anche in positivo. Anche le interazioni con i personaggi minori (Icabod, Numi, Mahtma, Jack Birdbath, Lawrence) hanno un ruolo essenziale. 

Questo è il ritratto di un uomo triste, descritto con empatia e con molto humor.