Attenzione, spoiler. Helix, la serie di “catastrofismo medico”
ideata da Cameron Porsandeh, e con Ronald D. Moore (Battlestar Galactica, Caprica)
come produttore esecutivo, ha deluso, dopo un inizio promettente. Avevo postato
i
primi 15 minuti, che erano stati mostrati in anteprima.
Una squadra di medici
dei CDC di Atlanta si reca si una base nell’Artico, dove c’è stata un’inspiegata
epidemia virale, per comprenderla e contenerla. A capo della
spedizione c’è il dottor Alan Farragut (Billy Campbell, Once and Again – Ancora una Volta), che è accompagnato dalla
dottoressa Julia Walker (Kyra Zagorsky), sua ex-moglie, e da un giovane medico
che nasconde di avere un tumore e che è interessata sentimentalmente a lui, la
dottoressa Sarah Jordan (Jordan Hayes). La postazione scientifica dove arrivano
è guidata dal glaciale e reticente dottor Hiroshi Hataki (Hiroyuki Sanada, Lost), che chiaramente ha condotto
esperimenti segreti. Presto ci scappa anche il morto, o meglio la morta, fra l’equipe
arrivata ad indagare. Fra i contagiati c’è pure il fratello di Alan, il dottor
Peter Farragut (Neil Napier).
Il grosso mistero
scientifico alla fine è risultato essere uno studio sperimentale per rendere
gli esseri umani immortali, o quasi. In modo piuttosto cheap, a rivelare questa immortalità sono occhi che improvvisamente
diventano cerulei. Julia e Hataki fanno parte di questi essere modificati. L’aspetto
potenzialmente più interessante era quella più squisitamente medico, e per un
motivo specifico. È comune, nelle rappresentazioni di malattia, mostrare in
modo visivamente fragoroso la devastazione che porta, come una possessione da
parte di corpi estranei, in qualche maniera. Questa spettacolarizzazione di un
agente patogeno che ti attacca qui ha fatto un passo oltre, cosa che da un
punto di vista concettuale poteva essere molto fertile. I virus qui, di fatto, attaccando
gli uomini si “personificano”. A quel punto le persone agiscono come agente
infettivo, e si comportavano anche nel rapporto fra sé come, appunto, virus. Se
questo aspetto, che si è anche esplicitato, fosse stato più focale, le
conseguenze narrative dell’allegoria avrebbero potuto essere brillanti. Il
risultato invece è stato quello di uomini-zombie,
in un una sorta di Walking Dead dei
poveri.
Nelle sue fondamenta la
serie ha evidentemente anche tracciato legami molto radicati da un punto di
vista personale, nell’intenzione di creare un reticolo intenso per un maggiore risultato
drammatico, ma tutto è rimasto di fatto superficiale, e sarebbe stato meglio forse
evitarlo. Quello dei legami familiari è stato un tema forte (anche con una
storia di bambini rapiti), ma ha finito per essere ridondante – e poco
convincente - , nel svelare in corso di prima stagione che in realtà Hataki è
il padre, che lei non sapeva di avere, di Julia. Alcune atmosfere alla Lost, ad esempio, il fatto che Julia
trovasse nella base chiari segni di sé da bimba, quando riteneva di non esserci
mai stata, alla fine si sono sgonfiate in una rivelazione anticlimatica della
più trita delle soap opera.
Ci sono stati anche passaggi
intriganti: le prime puntate hanno creato colpi di scena di vera suspense
(penso ai falsi positivi e falsi negativi nei test sul contagio), l’inusuale
musica è stata usata con originalità… Il
finale di stagione, con Julia che sembra a capo di una corporation in
immortali, ha stimolato la curiosità per vedere il prosieguo, in una confermata
seconda stagione. La prima però non ha convinto a sufficienza. Io passo.
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