martedì 27 febbraio 2018

GOOD GILRS: tre anti-eroine dell'era del #MeToo


Dopo The Good Wife, The Good Fight, The Good Place e The Good Doctor arrivano le Good Girls, con una nuova serie targata NBC dalla penna di Jenna Bans (Grey’s Anatomy, Scandal) che mescola avventura e dramma familiare a humor nero.

Beth (Christina Hendricks, Mad Men) è una donna sposata con quattro figli che si rende conto che il marito Dean (Matthew Lillard) la tradisce e li sta mandando in rovina economica; sua sorella Annie (Mae Whitman, Parenthood), che lavora come cassiera in un supermercato dove il manager Boomer (David Hornsby) le fa delle avances non gradite,  ha un ex marito (Zach Gilford, Friday Night Lights) che intende ottenere la custodia esclusiva della figlia Sadie (Izzy Stannard), che è genderfluida; la loro amica Ruby (Retta, Parks and Recreation), sposata con un marito aspirante poliziotto (Reno Wilson), ha una figlia con seri problemi di reni, ma i medici non le prestano troppa attenzione perché non ha risorse finanziarie sufficienti per farla curare a dovere. Esasperate dalle proprie vite e in necessità di denaro, decidono di rapinare il negozio dove lavora Annie, puntando idealmente a una cifra di 30.000 dollari a testa, per risolvere così i loro problemi, lasciandosi poi ogni attività criminosa alle spalle. Il colpo va meglio dello sperato e si ritrovano con un mucchio di sodi, ma all’improvviso sono in un mare di guai, si verifica una complicazione dopo l’altra,  a partire da una banda di criminali professionisti, capitanati da Rio (Manny Montana), che usavano l’ipermercato per riciclare denaro sporco e che ora lo rivogliono indietro.

Le tre donne protagoniste, interpretate in modo superbo da tutte e tre le attrici, potenti nelle parti drammatiche quanto impeccabili nei momenti comici, sono anti-eroine dell’epoca del #MeToo. Degli abusi fisici e psicologici degli uomini ne hanno abbastanza – una scena per tutte nel pilot vede Beth difendere Annie da un tentato stupro in un momento che incapsula la costante minaccia della vita di Annie e fa esplodere tutta la rabbia di quella di Beth e le unisce in una “sorellanza” che non è solo biologica, ma spirituale. Sono tutte e tre mamme, in senso vero e in senso forte, orgogliose e contemporaneamente vincolate al proprio ruolo il cui ideale finiscono per sovvertire. Qui la loro esasperazione prima e il panico per conseguenze che non hanno anticipato fino in fondo poi, uniti alla scarsa considerazione sociale, scatenano il comportamento criminale, un po’ alla Breaking Bad e alla Weeds. Non si approverà il loro comportamento, ma non si può non simpatizzare per loro.  
 
Ambientata nei sobborghi di Detroit, la serie altalena fra momenti thriller e momenti comici, in un equilibrio delicato su cui per il momento riesce a mantenersi, ma con indecisioni, e non è chiaro per quanto riuscirà a sostenerlo. Quanto buona sarà la narrazione lo si capirà da quanto si riusciranno ad approfondire i personaggi, nella misura in cui intenzioni buone, azioni meno nobili e risultati terribili riusciranno a rivelare le protagoniste a se stesse e a noi. Il ritmo è buono però e con una recitazione di tale livello eventuali lacune di sceneggiatura vengono superate senza batter ciglio. 

giovedì 22 febbraio 2018

THE YOUNG POPE: onirico e destabilizzante


È vagamente onirico e fortemente destabilizzante The Young Pope, la serie scritta e diretta da Paolo Sorrentino (una co-produzione internazionale in Italia andata in onda su Sky Atlantic nel 2016).

Lenny Belardo (Jude Law) è il primo americano eletto al soglio pontificio con il nome di Pio XIII: è giovane, bello, prestante, apparentemente mite, ma megalomane; e non crede in Dio, pur pregandolo con un tono che è più di pretesa che altro. Lo hanno scelto conoscendolo poco, pensando di poterlo facilmente manipolare, e lui invece si rivela presto un ultraconservatore dittatoriale, che rifugge da qualunque attenzione pubblica (non vuole farsi fotografare né vedere), adotta una linea intransigente e viene percepito come una via di mezzo fra un pazzo esaltato e un santo. Suo mentore è il cardinale Michael Spencer (un James Cromwell che, come sempre, è in grado di incutere terrore come pochi), un religioso che aspirava lui stesso al ruolo di capo delle chiesa cattolica e che è adirato di non esserlo. A consigliare Lenny, e a istruirlo sui meccanismi dello Stato Vaticano c’è il potente cardinale Angelo Voiello (un convincente Silvio Orlando, che è gustoso sentire recitare in inglese), Segretario di Stato della Santa Sede. Non gli sfuggono le finezze diplomatiche per ottenere ciò che vuole, ma si rivela presto anche molto umano. Dopo un iniziale scontro di venute, Sofia Dubois (Cécile de France), responsabile del marketing e della comunicazione, riesce a cogliere lo spirito del neopapa. Ad ascoltarne le confessioni è don Tommaso (Marcello Romolo), mentre a monsignor Bernardo Gutierrez (Javier Cámara) viene affidato il compito di indagare sui casi di pedofilia.

Lenny, abbandonato in orfanatrofio da piccolo e cresciuto dalle suore, viene accompagnato nel suo nuovo ruolo dalla religiosa che da bimbo ha finito per diventare per lui una figura materna, suor Mary (Diane Keaton, nell’unico ruolo femminile davvero corposo della serie), e presto chiama a sé come prefetto per la Congregazione per il Clero anche il suo più caro amico d’infanzia, il cardinal Dussolier (Scott Shepherd). Pio XIII si interessa della sorte di Esther (Ludvine Sagnier)  moglie di una guardia svizzera, che agogna di diventare madre nonostante sia sterile. 

La serie, che si muove per evanescenti suggestioni, è spiazzante fin dall’esordio: dal pilot si esce con un’idea di papa che poi è diversa per come si costruisce nelle puntate successive, facendo fare al pubblico lo stesso percorso dei cardinali, ovvero lasciando l’impressione di aver riposto la propria fiducia sulla base di una prima impressione che si dimostra in seguito erronea. Si indaga innanzitutto la figura di un uomo potente, al vertice di una macchina che pende dalle sue labbra e che è a lui completamente sottomessa, e dell’esaltazione e dei rischi che questo genere di ruolo può provocare. Non ci si tira indietro intimoriti dai vizi di uomini (e donne) e dai peccati della chiesa, alcuni tali per le regole che la chiesa si autoimpone: menzogne, abuso di sostanze, relazioni sessuali di ogni genere e tipo, arroganza, violenze…

La solitudine è un elemento catalizzatore di molta della realtà dello schermo. Lenny è ossessionato dal fatto di essere stato abbandonato dai propri genitori, e il fatto di essere inarrivabile come pontefice amplifica questa sensazione. Gli altri personaggi (Voiello, Mary e Dussolier in particolare) pure riflettono molto sulle proprie scelte e quello che comporta in termini di rapporti umani. L’amore è anche un tema forte.

Il confine fra potere, macchinazioni politiche e ideali è sempre presente, così come la riflessione su quali valori la società attuale sia disposta ad accettare e che cosa susciti interesse, ed eliciti mistero e devozione. Speculazioni filosofiche impregnano tutto il tessuto narrativo ed è anche illuminante osservare la modalità in cui certe discussioni vengono portate avanti. Quando verso la fine della stagione Lenny e il cardinale Spencer trattano il tema dell’aborto, il loro ping-ping verbale è fatto di citazioni alle scritture e alla tradizione: le donne e le loro vite sono irrilevanti, inascoltate. 

La regia è un tutt’uno con la sceneggiatura, ne compartecipa lo spirito  - e se il primo ruolo è sempre e solo di Sorrentino, il secondo lo condivide con altri autori – con il personaggio principale molto spesso inquadrato solo dalla vita in su, a dare l’impressione che si innalzi e troneggi (con una tecnica che pare sia stata ereditata da Spike Lee).

La sigla vede il protagonista incedere diretto con sullo sfondo una serie di quadri della traduzione cattolica -  qui quali sono -  che “si animano” al passaggio della stella cometa che li attraversa. Si chiude con Pio XIII che si gira verso la telecamera facendo un occhiolino e, mentre lui esce di scena, quella “stella cadente” diventa un meteorite che colpisce una statua di Giovanni Paolo II (citazione di un’opera di Cattelan che questo mostra). È a un tempo simbolica (una camminata attraverso secoli di storia della chiesa) e irriverente.
 
Inevitabile, in un certo qual modo, la conclusione. È prevista una seconda stagione.  

lunedì 12 febbraio 2018

THE DEUCE: una serie sociologica sulla nascita dei porno


Ha un taglio che potremmo definire sociologico The Deuce, la nuova serie firmata da David Simon, già celebrato autore di quella che è considerata una delle opere più riuscite nella storia del piccolo schermo, The Wire, e George Pelecanos che con Simon ha collaborato sia a The Wire che a Treme. Qui siamo negli anni ’70, a New York, intorno a Times Squadre  -  il titolo è il nomignolo dato alla 42esima strada, fra la sesta e la ottava avenue – e si guarda alla prostituzione e allo sviluppo dell’industria pornografica in quagli anni – indicativamente il sottotitolo italiano è diventato “La via del porno” – e le connessioni con la vita notturna, la mala, l’attività della polizia, l’indifferenza o la connivenza e la corruzione delle istituzioni… Secondo la più classica cifra estetica di Simon ci sono molti personaggi, spesso nemmeno collegati fra loro, e solo alcuni, specie inizialmente, ricevono sufficiente attenzione da costruire una connessione autentica con lo spettatore, la trama è in apparenza quasi assente, ma un luogo e un mondo emergono con vigore attraverso l’accostamento e la sovrapposizione di molti elementi minuti, quotidiani, prima facie banali.
     
I fili delle vite di molte persone si intrecciano in trame e orditi che tessono un quadro via via più dettagliato: Vincent e Frankie Marino (James Franco), due fratelli gemelli, il primo abile gestore di un bar, il secondo un perdigiorno giocatore d’azzardo pieno di debiti con le persone sbagliate, vengono assoldati dal boss mafioso locale, Rudy Pipilo (Michael Rispoli) che propone loro di espandersi aprendo anche locali di massaggi, in realtà case chiuse, alla cui gestione di offre il cognato di Vincent, Bobby (Chris Bauer), con un passato di costruttore edile. Vincent, che è sposato con due figli, ma è di fatto separato dalla moglie, frequenta occasionalmente Abigail ‘Abby’ Parker (Margarita Levieva), che lascia gli studi universitari per lavorare da lui al bar, insieme anche a Paul Hendrickson (Chris Coy), giovane gay che aspira ad aprire un locale tutto suo per una clientela LGBT. Per la strada, Eileen ‘Candy’ Merrell (Maggie Gyllenhaal, The Honorable Woman, che è anche produttrice esecutiva), con un figlio cresciuto dalla madre che va a trovare di tanto in tanto, lavora per contro proprio e vede nell’emergente industria della pornografia una via di uscita a una professione che troppo facilmente la lascia piena di lividi. Comincia ad affiancare il regista Harvey Wasserman (David Krumholtz), che la prende in simpatia e la introduce progressivamente negli ingranaggi della produzione. La gran parte delle sue colleghe si affida a protettori più o meno brutali: C.C. (Gary Carr), che ha come sua prostituta fissa Ashley (Jamie Neumann), sempre meno interessata a lavorare, e recluta presto Lori (Emily Meade), una neoarrivata che proviene dal Minnesota; Larry Brown (Gbenga Akinnagbe), che ha nella sua scuderia Loretta, Barbara e Darlene (Dominique Fishback), che al paese dove viveva dice di aver sfondato come modella e che passa tutto il tempo libero a leggere e ha fra i suoi clienti un anziano che la paga per guardare vecchi film con lui; Rodney (Method Man); Reggie (Taruq Trotter)… La giornalista Sandra Washington (Natalie Paul) vorrebbe fare un pezzo sulla fitta rete che tiene in equilibrio il sistema, e per questo chiede l’aiuto dell’agente Chris Alston (Lawrence Gilliard jr) che è però più interessato ad avere una storia con lei che ad essere la sua fonte.

“Il santo vero mai non tradir”, per usare una citazione manzoniana, è la vocazione essenziale di Simon, e le rimane fedele anche in questo contesto. Il suo passato di reporter per il Baltimore Sun perspira in un approccio che punta quasi a dare apparentemente solo una registrazione dei fatti. La scrittura, sismografo di un eterno presente, è quasi trasparente, nasconde i propri artifici narrativi. Realizzato con la finezza di cui è capace, ha una forza sbalorditiva e penetrante. Uno dei rari momenti in cui questo non è riuscito è stato per me nell’episodio “My name is Ruby” (1.08) e questo perché, nel momento in cui si vede Candy salutare Ruby “Cosce Tuonanti” (Pernell Walker) da distante dall’interno di un taxi, senza essere sentita, si capisce troppo in anticipo quale sarà la sorte di quella passeggiatrice. L’evento finale è troppo telefonato. Quella vicenda però ha altri pregi. Non di meno, infatti, il personaggio di Ruby è mirabile sotto molti aspetti – per quello che dice del corpo femminile, del desiderio, della sessualità e dell’identità – e la sua fine mette il dito sull’indifferenza, come testimonia una successiva scena fra Vincent ed Abby che la riguarda, e sulla sopravvivenza.

Si evita qualunque sensazionalismo, e il tema pruriginoso non è mai utilizzato per titillare, ma piuttosto per indagare le narrative su sesso, potere, violenza, e su come si integrano. Il sesso è una delle merci della macchina economica. Richard Price, produttore esecutivo, la descrive come una serie storica il cui senso è quello di capire come quella realtà si sia metastatizzata e che cosa ci dica sul presente. Se essere lì da giovani a quell’epoca era come cercare di comprendere l’oceano guardandone la superficie standosene sulla spiaggia, quello che viene messo sullo schermo è l’equivalente di indossare una maschera da sub. E se da ventenne “non hai un cervello, hai un organo”, nella sua esperienza, ora “Vai giù fino alle placche tettoniche, l’economia, le interazioni. Pensi alla roba sessuale come a un business. Per cui guardando a un peep show, dove va a finire quel quarto di dollaro se lo segui? Lì c’è una ragazza, e sei intimidito ed eccitato. Ma chi è quella ragazza, dove va, che cosa trova a casa?” (Newsweek)
    
Nell’epoca dei Trump e degli Weinstein, la serie dà un’opportunità di riflettere sulla misoginia e lo sfruttamento, e sul rapporto anche fra il potere e la consapevolezza. Chi ha la seconda non necessariamente ha la prima, e non è in grado di operare i cambiamenti che vorrebbe solo sulla base di quella coscienza: lo si vede nella giornalista Sandra, il cui exposé sulla corruzione del sistema, è sgonfiato di valore nel momento in cui non può pubblicarlo come vorrebbe, lo si vede in Candy e nel rapporto con la pornografia, al contempo degradante ed empowering, in Darlene… E si portano alla luce i determinanti del potere, con scelte e compromessi.

La visione è artisticamente riuscita, anche perché è epidermicamente sgradevole nel trasmettere il senso di squallore e sudiciume, di violenza espressa o incombente, ma non per questo rinuncia ad andare al cuore dell’umanità dei personaggi, e riesce a dissezionare oggettificazione e mercificazione del corpo femminile senza diventare a sua volta oggettificante e mercificante, evitando quello che gli autori chiamano il “tableaux pornografico” (Fresh Air). Quello che si vede è triste e illuminante ma, a dispetto del sesso, di certo non è sexy. 

sabato 3 febbraio 2018

OUTLANDER: la terza stagione


In mezzo a una distesa di cadaveri giace il corpo agonizzante di Jamie (Sam Heughan), un altro corpo sopra di lui; il suo volto è mostrato in primissimo piano, cala la notte, scende la neve. Rivive in flashback i momenti della battaglia di Culloden che si è appena consumata, e in questa modalità scopriamo i momenti più intensi e vediamo lo scontro con il nemico di sempre: ci è rivelato ora così che il corpo sopra di lui è quello del capitano Jack Randall (Tobias Menzies). Appare un coniglio, l'immagine della donna amata... così inizia la terza stagione di Outlander, andata in onda in Italia a breve distanza dagli Stati Uniti, fra il settembre e il dicembre del 2017, appassionante, dopo la deludente seconda. Jamie vorrebbe morire, ma la sorte vuole diversamente.

Le vite dei due amanti protagonisti hanno ormai percorsi diversi. A Boston, anno 1948, Claire (Caitriona Balfe) è incinta, inizia una vita domestica con il ritrovato marito Frank (Tobias Menzies), subisce  i commenti maschilisti del capo di lui, per cui deve sforzarsi di mantenere l'autocontrollo, e quando lei deve partorire parlano con il marito e non con lei: sobrio ritratto di un’epoca che in questi aspetti non ci siamo lasciati alle spalle mai troppo in fretta. Anche se sono separati, lo spettatore non percepisce Jamie e Claire comunque come due realtà staccate perché si pensano, si amano al di là de tempo e dello spazio e questo trasmette una forte sensazione di unità.

“All Debts Paid – Io che sono prigioniero tuo” (3.03) è stata una puntata particolarmente riuscita. Vengono mostrate infatti in parallelo le vicende dei due. Di Claire, nel ventesimo secolo, si mostra un’intera vita con fugaci incursioni in momenti topici, come la sua laurea (in medicina – nella puntata precedente l’avevamo vista iscriversi all’università), i 16 anni di Brianna (Sophie Skelton), o ancora il diploma della figlia, la morte per incidente di Frank che le aveva appena chiesto il divorzio, intenzionato a tornare in Inghilterra… Di Jamie si guarda alla permanenza nella prigione di Ardsumuir, dove rivediamo in vita Murtagh (Duncan Lacroix) e dove approfondisce la conoscenza del giovane a capo della prigione, John William Grey (David Berry), a cui da ragazzino aveva risparmiato la vita e che si sente in debito d’onore con lui. In incontri successivi, il loro rapporto si fa di reciproco rispetto, quasi di amicizia e si fanno delle confidenze. Jamie  racconta di Claire, Grey rivela la sua omosessualità raccontando del lutto in battaglia di un uomo per lui speciale, qualcosa che deve tenere nascosto per vergogna. In un momento assolutamente perfetto, Grey appoggia la sua mano su quella di Jamie e la reazione verbale di quest’ultimo è molto forte: minaccia di ucciderlo se solo lo rifà. La scena è davvero impeccabile e quello che la rende tanto riuscita è che ha un senso doloroso molto forte per entrambi: per Grey è l’ennesimo scontro con la realtà che deve tenere nascosto il suo orientamento sessuale, per Jamie sappiamo che la reazione non è di omofobia, come Grey l’ha letta, ma è di reazione allo stupro subito dal comandante Randall. Questa è una di quelle situazioni in cui è solo la visione pregressa che riesce a dare profondità alle emozioni in gioco in quel momento. Nell’episodio successivo, “Of Lost Things – Delle cose perdute” (3.04), vediamo come fra Jamie e Grey si sia creata davvero una solida amicizia e le circostanze sono tali per cui quest’ultimo declina l’offerta di Jamie che questa volta, di sua iniziativa, gli offre il suo corpo.

Dopo Claire, è stato il turno di Jamie di mostrarsi in tappe essenziali della propria vita, con la nascita di un figlio. Ricattato a fare sesso dall’ereditiera Geneva (Hannah James), sposata con un nobiluomo, la mette incinta e lei lascia credere che il figlio sia del marito. Jamie però ha comunque la possibilità di stargli vicino nei primi anni della sua crescita.

Osserva bene il podcast di Pop Culture Happy Hour (qui) quando dice che una rarità sul piccolo schermo, che è frequente nella vita e che viene messo in scena in questa serie, è il fatto che l'avere un grande amore che per qualche ragione non si può soddisfare in uno specifico momento non preclude ai protagonisti di fare del sesso appagante con altre persone. Questo è stato evidente nella 3.04.  Pur essendo di fatto stato ricattato a copulare con lei, Jamie alla fine comprende le ragioni della giovane donna, e cerca con lei di essere molto tenero, rendendole la prima volta la migliore possibile.  La scena di sesso, che ha la regia di Brendan Maher, è stata veramente spettacolosa, e anche originale. Spesso, questo genere di  momenti non hanno inquadrature o mosse che in qualche modo meraviglino.  Qui si è riusciti a sorprendere, risultando delicati e spinti allo stesso momento, come quando Jamie le ha succhiato il capezzolo e leccato il seno. Davvero audace senza essere volgare.

Lo stesso si può dire della scena, o meglio le scene, dell’atteso re-incontro fra Jamie e Claire in “A. Malcolm” (3.06), con la regia di Norma Bailey. Il momento in cui si spogliano l’un l’altra sembra durare in eterno, ed è perfetto. Quando finalmente i due protagonisti si danno l’uno all’altra, in una stanza sopra a un bordello di tutti i luoghi, non lo fanno una volta sola, ma due e poi tre. Non è un mero segno che sono di nuovo insieme fisicamente (spiritualmente sono sempre stati connessi), ma è proprio il lento ri-appropriarsi l’uno del’altra e godere l’uno dell’altra; al di là dell’atto, è esplorazione di intimità. Questo è raro in TV al di fuori delle soap opera del daytime. La forza della serie sta proprio anche nel non vergognarsi della propria natura romantico-sentimentale, pur essendo anche parecchio altro.   

In quell’episodio ci si  godono anche gli anacronismi che Jamie incontra per mano di Claire (le fotografie, la zip, la menzione di una bicicletta), peccato per quella fine di una minaccia di stupro, l’ennesima che si poteva trattenere fino all’episodio successivo, almeno. Non credo che nessuno del pubblico, dopo quella puntata, continui a vedere solo perché teme della sorte dell’eroina in pericolo. Non ci si dimentica mai peraltro quanto qui i costumi siano ricercati – curati nella serie dalla moglie dell’ideatore Ronald D. Moore che, come è noto, ha sviluppato la serie su soggetto di Diana Gabaldon che ne ha scritto i libri.

La stagione, divisa idealmente in due parti (dalla 3.09 si cambia la sigla), si chiude dopo un lungo viaggio verso la Giamaica, insieme anche a Fergus (César Domboy) e Marsali (Lauren Lyle), con numerose avventurose vicende che vedono anche il ritorno del personaggio di Geillis Duncan (Lotte Veerbeck), fino al naufragio finale. Appagante.