mercoledì 25 novembre 2015

RECTIFY: straordinario, rivelatorio

 
Straordinario – intenso, crudo, delicato, filosofico, meditativo, a momenti brutale a momenti lirico -, Rectify, ideato da Ray McKinnon (che ha vinto un Oscar per il corto “The Accountant” nel 2002) e primo progetto di questo genere prodotto da quella che è ora chiamata Sundance TV, è una gemma, una delle migliori serie di tutti i tempi (ha esordito nel 2013), vergognosamente e inspiegabilmente trascurata dalle varie premiazioni, seppur ampiamente apprezzata dalla critica che ha fatto dei parallelismi con Faulkner.
 
Daniel Holden (Aden Young) è un uomo che esce dal braccio della morte per il sopravvenire di nuove prove di DNA, dopo che ha trascorso 19 anni in carcere con l’accusa di aver stuprato e poi ammazzato la fidanzatina di allora, quando era poco più che maggiorenne. All’epoca aveva confessato, ma ci viene fatto capire che è innocente. La sua famiglia, che gli sta accanto e lo accoglie a casa, gli crede: la madre Janet (J. Smith Cameron) che dopo la morte del marito si è nel frattempo risposata con Ted senior (Bruce McKinnon, che nonostante il cognome uguale non è imparentato con l’autore), che gestisce la rivendita di automobili che sarebbe spettata come eredità paterna a Daniel, ma in cui ora lavora Ted junior, l’unico a guardare con ostilità il reo-confesso; la sorella Amantha (Abigail Spencer) che si ritrasferisce in paese per lui e che ha una storia con l’avvocato del fratello, Jon Stern (Luke Kirby, The Astronaut Wives’ Club); il fratellastro minore Jared (Jake Austrin Walker); la moglie di Ted jr, Tawney (Adelaide Clemes), donna molto devota che vorrebbe avvicinare Daniel alla fede cristiana.
 
Il resto della piccola città della Georgia, nel sud degli Stati Uniti, che è il posto che Daniel chiama casa, è spaccata. Tutti sanno chi è, e se molti lo sostengono perché hanno sempre creduto nella sua innocenza, per altri rimane un mostro colpevole di atrocità e qualcuno che vorrebbero di nuovo dietro le sbarre, se non addirittura morto. Se lui non ha commesso ciò di cui si è anni prima autoaccusato, rimane il giallo irrisolto e lo sceriffo (JD Evermore) così come un senatore del luogo (Michael O’Neill) hanno interessi su come si risolverà la questione. Non siamo però di fronte a una storia di genere. La crime story è marginale, è il pretesto per raccontare altro: il ritorno a casa di un uomo tenuto in gabbia e sicuro di non uscirne mai più. Fuggevoli flashback ci riportano ai momenti di vita in una cella stretta e senza finestre, e all’amicizia con un altro carcerato, Kerwin Whitman (Johnny Ray Gill). Paralleli fra la vita allora e la vita ora sono illuminazioni costanti sul personaggio principale.
 
Nel rivolgersi alla stampa all’uscita dal carcere, Daniel dice che nelle ultime due decadi, ho sviluppato una rigida routine, che ha seguito religiosamente. Un modo di vivere, e pensare, o meglio di non pensare, cosa che spesso era lo scopo. Questo modo di essere non lo incoraggiava a credere che un giorno sarebbe stato libero: “Mi ero convinto che quel genere di ottimismo non servisse alcun proposito utile nel mondo in cui esistevo. Ovviamente, questo sistema di credenza radicale aveva dei difetti ed era, ironicamente, una fantasia esso stesso”. Mary McNamara sul Los Angeles Times scrive che attraverso Rectify, si immerge lo spettatore “in uno studio attento e gloriosamente ricco di come resistenza e fede, forza e speranza, paura e serenità si bilanciano per formare la natura essenziale dell’umanità” e  “mai prima un programma televisivo si è così fermamente focalizzato su trasformazione e transizione. Dio è qui, in ‘Rectify’, senza scuse, come lo sono il sesso e la violenza, la decenza e l’indecenza. Le limitazioni e la bellezza dell’innocenza vengono svelate, e le correnti dell’emozione umana che scorrono perennemente contrarie, che rendono raramente le persone solamente una cosa o un’altra, si lambiscono in ogni scena”. 
 
A volte sospeso, contemplativo, quasi onirico per l’irrealtà della realtà della vita fuori dalla cella, lento, Rectify svela la psiche di un uomo per cui gli attimi quotidiani e ordinari sono piccole rivelazioni. Ha un’aria perennemente triste, sconfitta, pacata e laconica. Raramente parla. E i suoi silenzi talvolta dicono più delle parole. Qualche volta piange. Tutto è uno stimolo e tutto è una scoperta: la luce del sole, starsene seduto in un prato a magiare qualcosa, le piume di un cuscino, le vecchie cassette audio che ascoltava da ragazzo, andare al supermercato… Finalmente, rivela alla madre, capisce il senso del Mito della Caverna di Platone. Quello che ha visto fin’ora in carcere, legato e senza via d’uscita, non erano che ombre di una realtà che finora poteva solo immaginare. Ogni più piccolo contatto fisico era proibito, e il tocco umano è una riscoperta potente. La normalità è quasi uno shock, è un overload di stimoli.  Abituato a una vita ripetitiva di certezze, trova tutto sorprendentemente disorientante. Quando va a trovare la sorella e gli apre la porta il fidanzato Jon (1.05), Daniel rimane spiazzato perché, ammette, non è abituato a contemplare tutte le variabili che uno potrebbe incontrare. Dentro, la ripetizione è calmante. All’esterno, tutto è fuori dall’ordinario e rischia di diventare troppo.   
 
Lui non sa come comportarsi e nessuno sa come davvero comportarsi con lui. Il braccio della morte è brutale. Come non si sfugga, ad esempio, alle attenzioni sessuali non gradite Ted jr, che non vuole capire, lo impara da Daniel (1.05 e 1.06) in un modo tanto banalmente feroce quanto efficace. Altrettanto può esserlo la vita esterna, come ben rivela “Jacob’s ladder – la scala di Gacobbe” (1.06). [ATTENZIONE SPOILER fino alla fine del paragrafo]. L’amico attiguo di cella, in un momento di intimità dell’animo umano profondamente significativo, subito prima di morire si fa fermare davanti alla sua cella per dirgli che crede alla sua innocenza, perché lo conosce; ora libero,  in paese uomini incappucciati lo distruggono a calci e pugni e gli pisciano sopra incapaci di vedere altro che un colpevole.
 
Tante sono le tematiche che si rincorrono; delitto e castigo, colpa, assoluzione, redenzione, identità, ricordi, tempo, solitudine, umanità.  Una delle più potenti è quella della letteratura come “vera fede”. Daniel, nel braccio della morte ha letto, ha letto tanto. Cita Dante e Beatrice, riconosce Raffaello, ha familiarità con Tommaso d’Aquino (1.05)…Su suggerimento di Tawney,  cercando un nuovo inizio, accetta di farsi battezzare e viene immerso  completamente in una vasca. Non gli porta la purificazione  voluta. Quello che ci fa sopravvivere nelle condizioni più estreme e ci fa mantenere la nostra umanità e ci avvicina agli altri uomini e alla fine ci salva sono i libri. La buona narrativa, potremmo dire, come Rectify. Rivelatorio. 

martedì 17 novembre 2015

YOUNGER: frizzante, divertente, romantica


Basata sull’omonimo libro di Pamela Redmond Satran, Younger è una commedia brillante, divertente, sexy, audace e romantica, ideata da Darren Star (Sex and the City) in onda sull’americana TV Land.
Liza Miller, una sempre magnifica e convincente Sutton Foster (Bunheads), le cui espressioni facciali sono spesso il miglior commento umoristico alla più bizzarra delle situazioni, è una quarantenne che dopo il divorzio, dovendo mantenere la figlia Caitlin (Tessa Albertson) all’università, decide di tornare a lavorare nell’editoria, mondo che aveva lasciato per metter su famiglia. L’ambiente però è difficile per una donna della sua età e così, con l’aiuto dell’amica Maggie (Debi Mazar), un’artista lesbica, finge di essere una novellina ventiseienne e riesce così a farsi assumere dalla Empirical Press, dove diventa l’assistente di Diana Trout (Miriam Shor) e stringe amicizia con la collega Kelsey Peters (Hilary Duff). La scambia per coetanea anche un artista dei tatuaggi, Josh (Nico Tortorella), con cui comincia una relazione.
Leggera e frizzante, questa serie riesce a portare rispetto ad entrambe le età: da un lato si vede quanto sia difficile essere una donna matura in un mondo che sembra ormai prestare orecchio solo alle giovani, allo stesso tempo si mostra come essere ancora verdi non sia nemmeno quello una passeggiata, per via della scarsa esperienza e del fatto che gli altri spesso se ne approfittano contando sul fatto che si è disposti o costretti a sacrificare molto pur di farcela. Allo stesso tempo ci sono anche gli aspetti positivi e gioiosi di entrambe le fasi della vita, i diversi riferimenti culturali, il rapporto con i social media. Forse è un po’ stereotipico, ma talvolta gli stereotipi nascono per una ragione, e qui ci si tiene in un buon equilibrio nel far notare che l’età è solo un numero, ma che allo stesso tempo non lo è. Lascia molto su cui riflettere, consapevole delle diverse prospettive.
Il cast è prevalentemente femminile e ci sono bei rapporti fra donne, di amicizia e supporto, ma anche di critica. C’è un piccolo potenziale triangolo, fra quel pasticcino per gli occhi che è Josh - e in quale altra serie si vede una donna che mette in dubbio il suo rapporto con un uomo solo per il fatto che questi non legge? - e il capo di Liza, Charles Brooks (Peter Herrman), con cui effettivamente si percepisce una possibile intesa. Dicono poi che sebbene la rappresentazione del mondo dell’editoria si prenda numerose licenze poetiche, ci siano anche molti inside jokes e riferimenti che solo gli addetti ai lavori riescano a cogliere, molto più realistici di quanto si potrebbe immaginare.  
La premessa apparirà forzata, ma la serie ti trascina con la sua contagiosa energia. A gennaio arriva la seconda stagione.  

lunedì 9 novembre 2015

WAYWARD PINES: ben realizzata e coinvolgente


Wayward Pines, tratta dall’omonima serie di romanzi di Blake Crouch, che si trova anche nelle librerie italiane (tre libri che corrispondono alla prima stagione, pur con variazioni), non tornerà per una seconda stagione e me ne rammarico. Non si grida al miracolo, ma è stata una serie solida, ben realizzata e coinvolgente.
Da quello che si sapeva prima della messa in onda, gli articoli di presentazione, il mio post in proposito compreso, paragonavano questa serie a Twin Peaks, ma ci sia accorge presto come questo paragone sia fuorviante. C’è anche qui un agente segreto, in questo caso Ethan Burke (Matt Dillon), che si ritrova in una bizzarra cittadina in mezzo ad un panorama boscoso, con tanto di cartello di benvenuto, ma le similarità di fermano lì.
Molto più azzeccata è l’assimilazione a Il Prigioniero e a Persons Unknown. L’agente in questione, andato alla ricerca una sua collega con cui in passato aveva avuto una relazione, Kate (Carla Cugino), sparisce all’improvviso, tanto che la moglie Theresa (Shannyn Sossamon) e il figlio Ben (Charlie Tahan) cominciano a preoccuparsi e a indagare. Ethan, dopo un apparente incidente, si risveglia in ospedale, accolto dall’infermiera Pam (Melissa Leo, Treme), in una città in cui tutti sono costantemente vigilati da telecamere e microfoni e devono seguire scrupolosamente alcune regole, come dover rispondere sempre al telefono e non parlare mai del proprio passato, pena la morte che avviene con una esecuzione conosciuta come “reckoning”, il “giudizio”, fatta in pubblico dallo sceriffo Arnold Pope (Terrence Howard, Empire).  Molti dettagli del luogo non convincono (non ci sono veri grilli, i soldi sono finti…). Circondati da un alto muro di cinta, nessuno può fuggire. Più di qualcuno però, lui compreso, vuole tornare alla vita di prima e cerca una via d’uscita. A capo dei “ribelli” c’è proprio quella Kate che Ethan era venuto a cercare, che ora gestisce un negozio di giocattoli insieme al marito Harold (Reed Diamond)
Portata in TV da Chad Hodge, quello che distingue questa serie dai due precedenti a cui ho fatto riferimento è che mentre lì non si arriva mai a una spiegazione, qui invece ce n’è una, ed è sensata e solida e davvero, nel momento in cui si viene a sapere, tutti i pezzi nel puzzle vanno al loro posto. Già con “The Truth” (1.05), quindi a metà esatta di stagione, si scopre la verità, attraverso gli occhi dei protagonisti più giovani che in una lezione di “orientamento” scolastico ricevono indicazioni sul fatto di essere la prima generazione di Wayward Pines dalla loro preside Megan Fisher (Hope Davis). Il protagonista scopre poi la verità nella puntata successiva (1.06), grazie allo psichiatra locale, il dottor Jenkins (Toby Jones), poi conosciuto anche come David Pilcher. Scrivo sotto la spiegazione, saltate il paragrafo se volete evitare spoiler.
!INIZIO SPOILER! Non siamo nel duemilaquindici, ma nel quattromilaventotto (non lo scrivo in numeri per evitare che l’occhio legga senza volerlo il numero). Gli abitanti di Wayward Pines sono gli unici sopravvissuti.  Gli esseri umani nel corso dei secoli si sono trasformati a causa di mutazioni genetiche in esseri bestiali che si nutrono anche selvaggiamente di carne umana. Sono quelli che loro chiamano “aberrazioni” o “abbies”. L’unica cosa a proteggerli ora è il muro di cinta. Se loro si sono salvati è perché uno scienziato, il dottor Pilcher, aveva previsto che questo sarebbe accaduto, anche se nella comunità scientifica nessuno gli aveva dato ascolto, e aveva rapito e ibernato una serie di persone per ripopolare il mondo una volta che si fossero risvegliati. Lui è “il salvatore” e ha una infrastruttura complessa che gestisce tutto. Ha “riportato in vita” un primo gruppo di persone, ma non sono stati in grado di accettare la verità e tutto è andato in rovina. Con questo secondo gruppo di persone da lui risvegliate, ha deciso di tenere gli adulti all’oscuro, ma di rivelare la verità ai giovani, mentalmente più flessibili e preparati a ripopolare la cittadina sapendo di essere l’ultima speranza per l’umanità. !FINE SPOILER!  
Si sollevano con leggerezza molti interrogativi su che cosa significhi e che cosa comporti essere degli umani, sulla privacy e il controllo, sul senso del tempo, sulla responsabilità, sul rapporto fra individuo e gruppo, sugli affetti, sull’educazione dei figli. Suspense e azione sono però la spina dorsale di un thriller dal sapore distopico-fantascientifico.

lunedì 2 novembre 2015

AMERICAN CRIME: crimine, società, razza, speranza, disperazione

 
È uno dei migliori debutti del 2015 la serie antologica dell'americana ABC American Crime, dalla pena di John Ridley (premio Oscar per 12 Anni Schiavo). La premessa è sufficientemente banale e usuale, ma è la realizzazione, su più livelli, che la rende un piccolo gioiello con uno svolgimento raffinato e multistrato e un finale coerente che comunque ha saputo sorprendere.
Siamo a Modesto, in California. Una giovane coppia viene brutalmente aggredita nella propria casa. Lui, un veterano, è rimasto ucciso mentre la moglie, che presumibilmente è stata aggredita sessualmente, è in ospedale in coma. Sono eventi che non vediamo, ma che sono la base su cui sono costruite le vicende a seguire. Vengono contattati i genitori. Quelli di lui non si vedono da tempo: il padre Russ Skokie (Timothy Hutton), aveva abbandonato la famiglia e aveva problemi di gioco d’azzardo, la madre Barb (Falicity Huffman) aveva dovuto crescere i figli da sola. Riemergono i fantasmi del passato e le amarezze, i rancori e i sensi di colpa di  un matrimonio effettivamente fallito. Sono bianchi. Vogliono giustizia per il figlio morto e in questo loro desiderio e nel risentimento della madre emergono sentimenti razzisti nei confronti dei possibili sospettati: afroamericani e ispanici. Si scontrano anche con i genitori di lei, Eve (Penelope Ann Miller) e Tom Carlin (W.Earl Brown) che vogliono solo che la figlia si riprenda e si butti alle spalle l’orribile vicenda subita. A poco a poco emerge che il figlio di Barb e Russ non viveva poi quella vita cristallina che la madre in particolare si ostina a credere nonostante tutto, e anche il rapporto con la sopravvissuta moglie non era così idilliaco.  
Uno dei sospettati del crimine è un nero con problemi di droga, Carter (Elvis Nolasco) con una ragazza bianca con dipendenze similari, Aubry (Caitlin Gerald). Si amano, ma le famiglie non vogliono che stiano insieme, né la sorella di lui Aliyah (Regina King, che per questo ruolo ha vinto l’Emmy) che, convertita all’Islam, cerca di difenderlo in ogni modo, né i genitori adottivi di lei, dalla cui influenza cerca da sempre di sfuggire, ferocemente infelice. Un altro sospettato, per aver fatto acquisti con la carta di credito del deceduto, è Hector, un “Latino” come si direbbe in inglese, un attore di origine ispanica, interpretato da Richard Cabral, che ha anche raccontato pubblicamente la sua storia di riabilitazione nella vita reale dopo che si era unito a una gang a 13 anni, è diventato dipendente dal crack a 15 ed è stato condannato a 3 anni di galera per tentato omicidio a 20 anni (si veda in proposito l’Hollywood Reporter). Nella finzione della storia è implicato involontariamente in conseguenza ad un’azione intesa ad eludere la soffocante educazione del padre Alonzo (Benito Martinez),  vedovo iperprotettivo, anche Tony (Johnny Ortiz) un giovane ispanico che si ritrova, con paura e ingenuità,  a fare i conti con la dura vita del carcere che lo risucchia in una vita che non vuole.  
Non è un giallo. Non arriviamo mai a una soluzione del crimine, che non sia solamente umana. Ci sono confessioni e sospetti, ma nessuna vera certezza. Quello a cui assistiamo è l’effetto di questo evento sulle vite delle persone coinvolte, trattato con realismo. Con tragico realismo. Si scava a fondo nella psicologia delle persone e uno strato dopo l’altro si rimuove la vernice esterna per penetrare nella vita dei personaggi lasciando che non siano solo vittime o solo criminali e che abbiano molti chiaroscuri e impliciti. Sono persone, animate da speranze e disperazioni, in un’endiadi emozionale che è un tema forte della serie, insieme a quella del perdono (come è evidente dalla chiusura della stagione che si apre con dei sermoni su questo tema di tre confessioni religiose diverse). La realtà non è lineare, ma complicata, e questo si riflette nella narrazione, che ha una forte coscienza sociale. La violenza, e l’impatto che ha avuto nella vita dei personaggi, è una lente per  indagare i rapporti razziali e sociali americani, per mettere a nudo il sistema che sottende a delitti e castighi. Si è paragonato questo programma a The Wire, sotto questo profilo. È una serie ambiziosa, con una cast straordinario in cui spiccano Huffman, Hutton e Martinez.  
Anche la scelta stilistica di regia ha presentato una originalità che, con un piccolo espediente, ha reso peculiare la rappresentazione che amplifica il senso di incertezza e mancanza di solidità di quello che si sta vivendo. Talvolta sull’audio di una scena c’è il video di brevi istanti di scene subito precedenti o subito successive, o il confine fra una scena e l’altra è “sbavato” con sovrapposizioni di audio e video l’una sull’altra. C’è un effetto spezzato che potrà sembrare di distrazione, ma è stato realizzato in modo efficace e potente. Come la serie tutta.