sabato 24 ottobre 2020

LITTLE AMERICA: storie di immigrati

Basata su storie vere, già raccontate sulla rivista Epic, ogni puntata di Little America (Apple TV+) racconta, in modo potente e delicato insieme, le vicende di un diverso immigrato negli Stati Uniti. Storie di aspirazioni e riscatto, di resilienza, grinta e determinazione, di isolamento e di solitudine, e del grande sogno americano, quello di farcela a dispetto di tutto, quello di realizzare i propri sogni.

C’è il ragazzino indiano, Kabir (Suraj Sharma), che si deve crescere da solo, perché i genitori senza il permesso di soggiorno vengono rispediti nel proprio Paese, che gestisce un motel (1.01); la ragazza messicana, Marisol (Jearnest Corchado), che vive in un garage e per un paio di scarpe gratuite si iscrive a un corso di squash finendo per diventare una grande campionessa (1.02); il nigeriano Iwegbuna (Conphidance) che, andato a studiare economia e intenzionato a tornare dopo la laurea, rimane a seguito di un colpo di stato militare nel suo Paese (1.03); la francese Sylviane (Mélanie Laurent) che inaspettatamente trova l’amore in un ritiro del silenzio buddista (1.04); l’ugandese Beatrice (Kemiyondo Coutinho) che diventa la signora dei biscotti (1.05); la cinese Ai (Angela Lin) che vince una crociera in Alaska (1.06); l’iraniano Faraz (Shaun Toub) che contro ogni buon senso compra un terreno su cui c’è un’enorme roccia con l’obiettivo di costruire la casa dei suoi sogni (1.07); il siriano gay Rafiq (Haaz Sleiman) a cui il padre ha ustionato il braccio perché provi per un minuto quello che all’inferno proverebbe per l’eternità, nell’intento di proteggerlo (1.08), per cui il solo fatto di essere in America è il successo, perché significa la libertà di essere se stesso. 

Tutte le storie sono commoventi, ma una delle scene più strazianti dell’anno (ho attivamente singhiozzato) è quella della cinese Ai (1.06), che sulla nave dove è in vacanza con i figli canta un bravo al karaoke, mentre attraverso dei flashback della sua infanzia assistiamo a una vita segnata dagli abbandoni che ci illumina sul suo comportamento attuale.  La puntata è scritta e diretta da Tze Chun, figlio della donna della vita reale a cui è ispirata. 

Le puntate hanno la sigla che visivamente ha delle variazioni, ma soprattutto cambia ogni volta musica, con canzoni legate alla nazionalità del personaggio di cui si tratterà, il cui nome appare sullo schermo nel corso della diegesi. E la persona che lo ha ispirato chiude ogni singolo episodio con delle indicazioni su che cosa ne è stato poi di quella persona.

Ideata da Lee Eisenberg, Emily V. Gordon e Kumail Nanjiani (Silicon Valley) è una raccolta di racconti che per alcuni versi si appoggia sull’inossidabile tropo del forestiero che sfonda grazie al proprio talento, ma qui è tenuta al minimo indispensabile, sia perché mostra spesso l’ordinarietà dei progetti dei coinvolti, sia perché non nasconde la fatica e i sacrifici per raggiungerli. Si dice che una cosa valga per quello che ti è costato ottenerla. Sulla base di questo principio proprio questo si mostra qui: quanto valore abbiamo risultati apparentemente minori e quanto significato e umanità c’è in gesti e comportamenti che a non conoscerne il passato non hanno chissà quale rilievo.

A commuovere per empatia o a far ridere sono proprio i dettagli minimi, e le difficoltà sono talvolta gli sforzi di scontrarsi con una realtà così diversa dalla propria: è Iwegbuna (1.03) che da bimbo guarda in piazza i film western e quando deve integrarsi si veste come un cowboy - fa carriera universitaria impressionando il proprio professore, di cui diventa assistente, riferendo al proprio Paese il modello Corden-Neary, ma non riesce ad adattarsi a pasteggiare con gli hamburger che trova immangiabili così pieni di salse, e gli manca il casalingo fufu.   

Anche registicamente la serie regala bei passaggi. Ho apprezzato come è stato reso il trascorrere del tempo, quando i personaggi si vedono crescere, ad esempio, o nell’espediente nel mostrare al contempo il distacco e il contatto con la famiglia d’origine nel far vivere al personaggio i suoi familiari davanti ai suoi occhi come se fossero lì quando in realtà li sente solo di voce attraverso delle audiocassette.

Sono stata negli USA l’anno scorso, a San José. Ogni volta che prendevo un Uber mi imbattevo in una nazionalità differente. Era un mini-mondo. Non tutte le zone degli USA sono altrettanto variegate, ma si sa che gli Stati Uniti sono un melting pot. Troppa TV mostra solo WASP, bianchi anglo-sassoni protestanti. Il “regime scopico” di cui si fa esperienza attraverso il piccolo schermo sta per fortuna cambiando, in più modi, ma anche perché supporta sguardi nuovi. In questo Little America dà un contributo tanto antropologicamente sensibile quanto eticamente necessario.

Questa serie antologica è stata confermata per una seconda stagione. 

giovedì 15 ottobre 2020

LOVE LIFE: frustrante

 

La nostra vita amorosa può essere ridotta a dei dati: statisticamente prima di trovare l’amore delle vita una persona avrà avuto in media 7 relazioni, di cui due lunghe, le altre a breve termine, appuntamenti superficiali e avventure di una notte, due volte ci si sarà innamorati sul serio e due volte si avrà avuto il cuore spezzato. Esordisce con queste informazioni la voce narrante di Love Life (HBO Max, e si tratta della la prima serie scripted del canale), senza peraltro fornire alcuna indicazione aggiuntiva su quale possa essere la fonte di questi dati. Ce li dobbiamo prendere come buoni. E sulla base di questi ci viene raccontata la vita amorosa della protagonista, Darby Carter (Anna Kendrick). Successivamente (1.02) veniamo informati del fatto che statisticamente una coppia ci pensa per un paio di anni prima di divorziare e poi ci vogliono circa 3 anni prima di risposarsi.

Darby quando la conosciamo lavora come guida in un museo d’arte e la seguiamo appunto nelle sue vicende sentimentali, a partire da “Augie Jeong” (1.01), conosciuto in un locale di Karaoke, ma poi lasciato perché l’impegno professionale di lui lo porta altrove – (spoiler – si ritroveranno in seguito). Un anno dopo comincia una storia con un uomo divorziato. “Bradley Field”, ma non piace alla famiglia di lei. Segue l’avventura di una notte che è lei a non voler proseguire (1.03 , “Danny Two-Phones”) e poi quella con un cuoco, che sul principio va alla grande,  riesce perfino a gestire l’ipercritica madre di lei, fino al giorno in cui lui non perde il lavoro (1.04). La psicoterapeuta la invita a ripensare al primo amore (1.05). Poi altre storie sono anche di amicizia e con la madre (Hope Davis). E ci starebbe, se non fosse che la struttura narrativa sembra ripensata a mezza via.

La voce fuori campo, che commenta quasi con il distacco dello studioso che annuncia i dati di cui sopra, in alcuni passaggi narrativi è usata alla stessa maniera in cui era già stato fatto in A to Z. Anzi, così tanto che sono andata a verificare che non si trattasse della stessa attrice, ma no, qui è Leslie Manville, lì era Katey Sagal. Almeno la memoria me le ha associate, poi magari a risentirle sono diverse. E in seguito, a secco di informazioni statistiche si direbbe, il voice-over si sofferma a fare affermazioni generali sulla protagonista. Si potevano tralasciare tutte le informazioni successive alla prima sulla quale si fonda il principio della serie, o quelle in cui il commento non offre nessun insight maggiore rispetto alla semplice visione: inutili.

Funzionerebbe meglio come più ordinaria storia di relazioni e di amicizia, con un ruolo maggiore ai comprimari, che energizzano le vicende della protagonista, come la migliore amica Sara (Zoë Chao) e il suo ragazzo Jim (Peter Vack) o Mallory (Sasha Compère). Nella prima parte della stagione in particolare, questi sono appena abbozzati, meri segnaposto.  

In questa rom-com ideata da Sam Boyd, poco "rom" e poco "com", insicurezze e  tediose banalità quotidiane sono in primo piano, un’illusione  ogni aspirazione ad essere la Sex and the City del 21° secolo. L’ho trovata anche gradevole, ma un po’ stantia, e la protagonista principale, sebbene una brava attrice, poco carismatica. Frustrante.

lunedì 5 ottobre 2020

I MAY DESTROY YOU: sulla "rape culture"

Il drink di una giovane donna viene drogato e lei, priva di coscienza, viene violentata. Quando si risveglia non ricorda quasi nulla. Fa denuncia dell’accaduto alla polizia, ma alla fine dei conti è un nulla di fatto. Questo è in soldoni il nerbo attorno a cui si costruisce la notevole I May Destroy You (BBC1 – HBO), serie ideata e scritta da Michaela Coel (Chewing Gum), che interpreta anche il ruolo principale di Arabella, una influencer di Twitter londinese che ha un contratto con una casa editrice per scrivere un libro. È proprio mentre si prende una pausa di un’oretta dal lavoro che le capita questo devastante evento.

Non è sicuramente la prima volta che in TV viene affrontato il tema delle bevande che vengono spiked ai fini di stupro,  penso ad esempio a Veronica Mars che su questo argomento ha costruito un’intera stagione. Qui suona più personale e crudo, e il tema del consenso si svolge in un momento storico in cui c’è una crescente “sintonizzazione” collettiva sulla rape culture in senso ampio.  Le puntate zig-zagano e riflettono su molti aspetti connessi (infra) e intersezionali (gender, orientamento e razza in primis), ma è nella finale che illumina il percorso fatto, con una valenza fortemente metatesuale in riferimento al ruolo della scrittura. Nel vedere la protagonista che febbrilmente lavora al proprio libro spostando dalla parente i post-it che ne costituiscono l’outline, si è assistito più nello specifico in questo segmento a un poioumenon - per utilizzare quel termine tecnico che indica un artefatto artistico che racconta la storia della propria stessa creazione – che ce la mostra come una narrazione intenta a scardinare le retoriche più usuali che nascono da queste premesse.

Arabella, che non riesce a ottenere giustizia dal canali ufficiali, perché la polizia non ha prove sufficienti, finalmente (1.11) e inaspettatamente ricorda quello che è accaduto e questa epifania la porta ad immaginare, contemporaneamente come scrittrice e come vittima, delle storie che chiudano e diano un senso a quello che le è accaduto: ora è una brutale, irrealistica ma catartica storia di vendetta, ora è una storia di compassione per il carnefice, ora è l’immaginarsi un incontro consensuale ed equilibrato. Alla fine nessuna di queste alternative è convincente, quello che accade è che la vita continua, in un modo che non fa rumore. Il “lieto fine” è avere successo grazie anche alla vicinanza e al sostegno dei propri amici, qui Terry (Weruche Opia), un’aspirante attrice, e Kwame (Paapa Essiedu).

Arabella non riesce più a scrivere, ha comportamenti erratici e maleducati, i social ne fanno un’eroina e la trasformano in una star, ma la demoliscono anche, è allo sbando, una “diavola” (come allegoricamente la fanno vestire per Halloween) senza direzione. Questi in parte sono gli effetti psicologici della violenza, perché i danni non sono solo il sangue e le ecchimosi che le foto registrano su ginocchia, inguine, testa, o le lacrime, e non sono solo nell’immediato. Ma in parte è anche carattere: è un personaggio respingente. Si droga nella vita privata, ha anche un ragazzo, Biagio (Marouane Zotti), che è un spacciatore italiano  - e alcune scene sono girate ad Ostia –, ha sotto il letto il “ricordo” di un aborto di cui si era dimenticata…ha un passato complicato e spesso si comporta male, ma questo non significa che “se la sia andata a cercare”. Le cose si mescolano, come nella realtà. E questo confondere le acque, questa indeterminatezza di reazioni la rendono vivamente umana.

Se la scotomizzazione (farmacologica o psicologica che fosse) da parte della protagonista foraggia tentativi di ricostruzione mnemonica dell’evento principale, il precipitato di quella stessa rape culture che lo ha causato si sostanzia in storie minori e orbitanti, che stratificano la riflessione. Si parla di stealthing, quando un suo partner sessuale toglie il preservativo senza che lei se ne avveda (1.04), ad esempio. Kwame, gay, subisce pure lui un violenza sessuale da parte di un altro uomo. (1.04). Quando  accompagna l’amica alla polizia, sente che “la gente non sa che cosa è un crimine e cosa non lo è, e non lo denuncia” (1.05). Lui sta male per quello che ha subito, ma lui stesso non è sicuro che quello che gli è accaduto sia infatti un crimine – c’è il sessismo che fa credere che un uomo non possa essere violentato, che gli debba piacere per forza. In cerca di superare l’esperienza va a letto con una donna, per rivelarle solo dopo di esser gay (1.08) e perpetra lui stesso un modello di disonestà che la ragazza non riesce a perdonargli. Pure, una giovane donna che gestisce un corso di auto-aiuto a cui Arabella partecipa, da ragazzina aveva accusato ingiustamente di violenza carnale un compagno di classe. Alla fine della puntata (1.06), scopriamo in modo sorprendente, agghiacciante, che lo aveva “imparato dalla madre” che la aveva costretta a mentire sul proprio padre accusandolo di molestie sessuali perché lei potesse ottenere la sola custodia della figlia. Lei era troppo piccola per capirne le implicazioni e aveva ubbidito a quello che la madre aveva chiesto di fare. Non mi pare che si vada nella direzione del dire che le vittime diventano per forza carnefici (la letteratura in proposito dice infatti che non è così), ma sicuramente si dice che certi comportamenti sono appresi e perpetuati da assenza di onestà e di dialogo e di mancanza di consapevolezza, e che il fondamento del cambiamento verso una cultura più salubre è il consenso. Riguardano la sfera sessuale, ma sono comportamenti che attengono ai rapporti di potere ed eventualmente al mancato rispetto reciproco.

Bisogna dar credito anche a una serie che riesce a rendere più audace un rapporto sessuale in cui lei ha il ciclo mestruale, e il partner maschile si sofferma ad esaminare affascinato un grumo di sangue, che non un menage a trois che avviene nella stanza accanto.

Situazioni sgradevoli e personaggi occasionalmente odiosi non la rendono una visione facile, ma non si può negare che sia una visione pregnante, e una narrazione rilavante.