domenica 27 ottobre 2019

BIG LITTLE LIES: la seconda stagione


Quasi sicuramente non ci sarà una terza stagione (peccato) perché la seconda di Big Little Lies, che mi ero augurata ci fosse, ha avuto parecchio da dire e ha convinto nonostante abbia anche deluso e sia riconoscibile la criticata “disarticolazione” dovuta ad un attrito dietro le quinte: la regia è stata affidata ad Andrea Arnold, ma poi in post-produzione è intervenuto il produttore esecutivo e regista della prima stagione Jean-Marc Vallée con lo scopo unificare lo stile visivo a quello della prima, con il risultato di scene discontinue e prive di ritmo interno. Ci sono state polemiche, per la lamentata mancanza di controllo creativo, ma la dirigenza HBO ha difeso quello che è sempre stato un classico modo di operare televisivo, affermando che anche Vallée aveva dovuto lavorare collaborativamente e che comunque in questo caso non era arrivato all’ultimo in postproduzione per stravolgere il lavoro di qualcun altro, ma è stato coinvolto nella fase di sceneggiatura e aveva avuto modo di confrontarsi con la Arnold prima delle riprese. Sulla questione si legga qui e qui. Si potrebbero trarre numerose riflessioni sull’autorialità televisiva, ma non è questa la sede.

In questo arco narrativo, sempre con la storia di David E. Kelley e Liane Moriarty, e il teleplay del primo, è stata messa molta carne al fuoco per ciascuna delle protagoniste, e come non mai si è visto che è un programma al femminile, dove gli uomini sono relegati ai ruoli secondari solitamente riservati alle donne: Madeline (Reese Whitherspoon) ha dovuto ricostruire il proprio matrimonio, dopo che il marito Ed (Adam Scott) ha scoperto la sua infedeltà; Renata (Laura Dern) ha affrontato il tracollo economico dovuto alla bancarotta del marito Gordon (Jeffrey Nordling); Jane (Shailene Woodley) ha cercato di proteggere il figlio dalla scoperta che è il risultato di uno stupro e ha iniziato una relazione con un giovane collega all’acquario dove lavora, Corey (Douiglas Smith), pur nelle difficoltà a trovare l’intimità a seguito di quell’evento; Bonnie (Zoë Kravitz) si è macerata nei sensi di colpa per aver spinto Perry (Alexander Skarsgård) nella notte della sua morte, cosa che l’ha progressivamente allontanata dal marito Nathan (James Tupper),  e ha fatto i conti con il difficile rapporto con la madre Elizabeth (Crystal Fox); Celeste (Nicole Kidman), infine, ha elaborato il lutto della perdita del marito e ha dovuto combattere in tribunale la suocera Mary Louise (una smagliante Meryl Streep) che voleva toglierle la custodia parentale dei figli. Tutte, unite dal patto, tengono il segreto su quello che è accaduto quella famosa notte, mentre la polizia ancora nutre sospetti che non sia andata come hanno testimoniato.

La narrativa ha tenuto, anche con carnose riflessioni sui rapporti umani che come nucleo speculativo intersecavano le vicende, rispetto alle quali risultavano trasversali. Si è parlato di essere madre e dei rapporti madri-figli (Celeste con i suoi; Mary Louise e Perry; Jane e Ziggy; Bonnie ed Elizabeth). Si è indagato il tema della crisi dei rapporti matrimoniali (Madeline ed Ed; Bonnie e Nathan; Celeste e Perry; Renata e Gordon). Che cosa significa essere una coppia, ed essere una famiglia? Che cosa è nella vita la cosa più importante? Si è gettata luce sulla difficoltà di superare “traumi” che segnano la propria vita, fisici e no (lo stupro a Jane, le botte a Celeste e il fatto che i figli l’abbiano vista; la colpevolizzazione di Perry da parte della madre; l’infanzia di Bonnie e il tragico evento che  l’ha vista coinvolta). E poi i segreti, il conoscere davvero una persona, l’istruzione, il denaro, l’aggressività e il deflettere la responsabilità sugli altri a cui viene immediatamente attribuita la colpa (e in quest’ultimo caso, in una modalità che io personalmente vedo come molto americana, penso in particolare a Renata e al rapporto con la figlia Amabella).

La tematica forse più originale, incarnata principalmente dalla storia in cui era coinvolta una Meryl Streep davvero grandiosa, è se sia possibile conservare un buon ricordo di qualcuno che ha commesso delle azioni terribili. È giusto? Serve? La madre di Perry vuole disperatamente che la vittima di stupro abbia visto qualcosa di buono in suo figlio, che era un bambino gentile, da piccolo; Celeste discute con la terapeuta perché, anche se abusava di  lei, vuole poter mantenere dei ricordi belli del marito, che ha anche amato, come se l’essere stato un “mostro” fosse solo una finzione, quella che creava per i bambini per divertirli. Anche nella persona che si comporta nel modo più orribile ci sono dei lati umani, dei lati belli. Non dobbiamo tenerne conto? Che peso devono avere? Che cosa significa per noi e per l’opinione e il ricordo che dobbiamo avere di loro? Con disinvoltura, acume e chiaroscuri (di fatto anche in altre delle storie) si sviscerano queste questioni. Il solo rammarico che ho è che vorrei che Kelley rinunciasse alla sua coperta di Linus del scontro in tribunale per far emergere questi conflitti esteriori e interiori. È una forma che lo permette in modo esplicito, e lui la sa rendere al meglio ma, sebbene sia risultato organico, avrei voluto che la negoziazione di queste delicate emozioni avvenisse su un terreno meno definito.

Chi ha amato la prima stagione, fa bene a veder anche questa. Di fatto, ci sarebbe ancora molto da far dire alle “cinque di Monterey”.     

domenica 20 ottobre 2019

EUPHORIA: disperata e autolesionista


È una gioventù disperata, autolesionista e allo sbando, quella messa in scena con bravura da Euphoria, il primo teen drama della HBO (in Italia su Sky Atlantic) con vite di sesso, droga e social media nella seconda decade degli anni 2000. A idearlo, sulla base di una omonima serie israeliana, è stato Sam Levinson (Assassination Nation, figlio di Barry Levinson) anche sceneggiatore di tutte le puntate della prima stagione e regista di cinque delle otto puntate. Per l’autore è anche una storia profondamente personale, autobiografica per la parte che concerne le droghe (THR).

Rue (una Zendaya da cui ci si aspetta una carriera di successi) è un’adolescente che comincia il suo penultimo anno di superiori dopo che è uscita da un centro di disintossicazione per un’overdose dalla quale l’ha salvata, trovandola, la sorella minore, Gia (Storm Reid). Lotta costantemente con la dipendenza da sostanze, iniziata prendendo le pillole del padre morente. Perfino uno spacciatore che tiene a lei, Fezco (Angus Cloud), cerca di allontanarla da possibili ricadute. Presto stringe un’amicizia, che diventa anche qualcosa di più, con Jules (Hunter Schafer), una ragazza trasngender appena arrivata in città. A gravitare intorno alla sua vita ci sono la sua migliore amica d’infanzia Lexi (Maude Apatow) e i compagni di scuola: Kat è una ragazza soprappeso, che all’esordio è vergine, che diventa avventurosa in campo di sesso, anche online, e matura un nuovo rapporto col proprio corpo; Nate (Jacob Elordi) è uno sportivo che proviene da una famiglia in vista con forti insicurezze sessuali  - ha una ragazza, Maddy (Alexa Demie) con cui ha un rapporto sentimentale a intermittenza, abusante, e un padre, Carl (Eric Dane)  che nasconde un segreto che potrebbe rovinargli la reputazione, per dirla in modo eufemistico, e con cui si sviluppa in rapporto affascinante da seguire; e poi c’è la dolce Cassie (Sydney Sweeney, The Handmaid’s Tale), sorella maggiore di Lexi, dal colorito passato sessuale che continua a influenzare la sua vita, che è fidanzata con il giocatore di football Christopher (Algee Smith), che il padre spinge ad eccellere.

La sceneggiatura ci va giù pensate, riesce ad essere brutale, e scioccante, ma mai fine a se stessa, ma proprio come parte del senso che intende trasmettere. Si preme l’acceleratore su droga e sesso con molta libertà – una puntata si annunciava come quella che avrebbe mostrato ben 30 membri maschili. La regia punta su toni scuri, plumbei, ma coperti di glitter, scintillii che mascherano lo straziante squallore, umano ed emozionale di un buildungsroman che avrebbe il sapore della distopia se non fosse così crudemente autentico. Cinematograficamente è stimolante. Ci sono inquadrature insolite, sperimentali, ancora più spinte lì dove si vuole dare il senso dell’allucinazione tossica e una alterazione del vissuto. Il senso che trasmette è che questa è la realtà, ma è una realtà marcia, malata, distorta, non è quello che dovrebbe essere.   

Rue nel pilot dice come la irriti il fatto che quando trapela il nudo di una persona famosa, la gente critica che tanto per cominciare non avrebbero dovuto scattare una simile foto:  “Mi dispiace, so che la vostra generazione faceva affidamento su fiori e il permesso del padre, ma è il 2019, e a meno che tu non sia Amish, i nudi sono la moneta dell'amore. Quindi smettetela di farci vergognare. Fate vergognare gli stronzi che creano elenchi online protetti da password di ragazze minorenni nude". (1.01 – traduzione mia). Non si hanno peli sulla  lingua, non ci si fa problemi a dire cose scomode.

Gli effetti del porno, la pressione dei coetanei, l’assenza di una bussola morale, le trappole del web, le famiglie sfasciate, gli abusi fisici e verbali, le app di incontri, gli adulti assenti, le paure e le insicurezze di un delicato momento della crescita: c’è molta profondità e umanità, anche se un’umanità di cui è triste rendersi conto, in questa serie che fa anche affidamento in modo molto estensivo alla voce fuori campo di Rue. Questa, si dice sempre, è una modalità di cui si approfitta troppo e di cui si potrebbe fare a meno se non viene utilizzata con una logica specifica che la renda significava. Qui ci sono lunghi brani di monologhi, e funzionano.

Se la figura dello “spacciatore buono”, che si dà alla criminalità per sostenere la nonna in coma di cui si prende cura, nonostante il bravo interprete, mi pare un po’ favolistica, le altre le ho trovate tutte convincenti, e ho particolarmente apprezzato quella che coinvolge Nate: l’odio per se stesso e il rapporto tossico con la sua ragazza, i ricatti che mette in piedi per preservare la sua immagine di bravo ragazzo, il confronto con il padre (spettacolosa la season finale a questo proposito)…  

La prima stagione, a cui ne farà seguito una seconda, termina, in modo inaspettato ma efficace, con un numero musicale.    

domenica 13 ottobre 2019

BATWOMAN: mal recitata e scialba


È la recitazione il punto debole di Batwoman, e specificatamente quella della bella  interprete Ruby Rose (Orange is the New Black) che non brilla per abilità “tespiane”, diciamo così, ingessata e monocorde. Non c’è ammontare di spavalderia che riesca a nascondere questa pecca. E va bene raccogliere la staffetta da Batman, che nella narrazione è misteriosamente scomparso 3 anni prima, ma lui è così onnipresente che a stento lei emerge: se per la fine del pilot non si riesce nemmeno a riconoscere l’eroina per quello che è, una donna, una persona diversa, e la si vede ancora come il più famoso cugino, è certo che abbiamo un problema.  

Introdotta nella puntata crossover di Arrow “Elsewords – Altrimondi”, la nuova entrata della scuderia di Greg Berlanti, sviluppata in questa incarnazione da lui e da Caroline Dries, è basata ovviamente sull’omonima eroina dei fumetti della DC, ed in particolare sulla graphic novel del 2010 Batwoman: Elegy.  

Il passato di Kate Kane, nome civile di Batwoman, è chiaro: ha perso la madre e la sorella in un incidente d’auto da cui l’alter ego di Bruce Wayne non è riuscita a salvarle, e le lo ha sempre ritenuto responsabile di questo; è stata espulsa dall’accademia per essere lesbica e nello stesso momento ha perso così la sua ragazza, Sophie (Meagan Tandy), che ha preferito mentire per potersi invece diplomare. Ora Gotham, la cui sicurezza è mantenuta dai Crows (i Corvi), fondata dal padre Jacob Kane (Dougray Scott), viene minacciata dalla temibile Alice (Rachel Skarsten), leader della Woderland Gang  (la Gang delle Meraviglie), che rapisce Sophie. La sorellastra di Kate, Mary Hamilton (Nicole Kang), la avverte e lei, che si stava allenando per conto suo, rientra in città. Scoperta la vera identità di Batman, estorcendo forzatamente l’aiuto del giovanissimo Luke Fox (Camrus Johnson), che custodisce la Wayne Tower, decide di modificarne il costume del cugino e di ergersi lei a paladina della città. ATTENZIONE SPOILER. La scoperta maggiore che farà, alla fine del pilot, è rendersi conto che Alice, la sua nemesi simil-Joker, altri non è se non Beth, la sorella che lei credeva morta nell’incidente d’auto di anni prima.  

Da quanto traspare dal pilot, oltre ad un look genericamente non troppo accattivante – nei costumi, ma anche della scenografia (salvo solo il momento in cui Kate scopre la Batcaverna – la sceneggiatura è completamente dimenticabile e l’approfondimento psicologico dei personaggi è lasciato al caso. La storia si snoda secondo tappe narrative ben definite con un buon ritmo, e tutto è sufficientemente chiaro, ma è anche tutto piuttosto preordinato e scialbo, non vibra di passione intellettuale o emotiva. Il sottotesto, potenzialmente ricco, rimane inconsistente. Del voice-over si potrebbe facilmente fare a meno. I rapporti fra i personaggi suonano tutti forzati. Alice, ben recitata, è l’unica luce che scappa dal buco nero e che presenta del potenziale.  

Personalmente ero affezionata dall’infanzia al personaggio, ma di questa vigilante i cui dolori emotivi non sembrano più vissuti della tuta rifatta che ha deciso di indossare faccio volentieri a meno.     

martedì 8 ottobre 2019

CHERNOBYL: una ricostruzione parenetica che onora eroi senza nome


“Essere uno scienziato vuol dire essere un ingenuo. Siamo così presi dalla nostra ricerca della verità da non considerare quanto pochi siano quelli che vogliono che la scopriamo, ma la verità è sempre lì, che la vediamo o no, che scegliamo di vederla o no. Alla verità non interessano i nostri bisogni, ciò che vogliamo, non le interessano i governi, le ideologie, le religioni. Lei rimarrà lì, in attesa, tutto il tempo. E questo, alla fine, è il dono di Chernobyl. Se una volta temevo il costo della verità ora chiedo solo: qual è il costo delle bugie?” (1.05)
Ha vinto l’Emmy come miglior miniserie del 2019, ha ricevuto approvazione quasi universale dalla critica con un punteggio su Metacritic di 83, è stata biasimata dai russi come propaganda statunitense che li vuole mettere in cattiva luce tanto che vogliono girarne una contro-versione (si legga qui in proposito): Chernobyl è stata una coinvolgente coproduzione HBO-Sky sul disastro nucleare del 26 aprile 1986 che diversi di noi (sicuramente quelli che come me all’epoca erano adolescenti) ricordano bene: l’esplosione del reattore numero quattro di una centrale in Ucraina che ha diffuso una radioattività considerata pari a centinaia di volte la bomba di Hiroshima.  

Ideata e scritta da Craig Mazin, che si è ispirato al libro Preghiera per Černobyl’ della premio Nobel per la letteratura Svjatlana Alexievič, e diretta da Johan Renck, questa ricostruzione degli eventi segue lo scienziato Valerij Legasov (Jared Harris, Mad Men, The Crown), vicedirettore dell’Istituto di energia atomica Kurchatov, e il politico Boris Shcherbina (Stellan Skarsgård), vicedirettore del consiglio dei Ministri, a capo dell’ufficio per il combustibile e l’energia e della commissione che deve indagare sull’evento. Il rapporto fra i due, e la progressiva presa di consapevolezza degli eventi da parte di quest’ultimo, che da arrogante burocrate si trasforma facendo tutto quello che può per rimediare alla situazione, è il vero punto di forza della narrazione, uno spettacolo nel modo sottile, ma evidente, di costruzione della stima reciproca, se non addirittura amicizia, fra due uomini che la sorte ha gettato insieme. Il vero successo artistico per me sta qui. Altro personaggio di rilievo è stata Ulana Khomyuk (Emily Watson) una scienziata bielorussa dell’istituto per l’energia nucleare che indaga sul disastro. Come espresso esplicitamente in chiusura, quando vengono riportati i dati sull’evento al di là della ricostruzione della finzione, si tratta di un personaggio inventato che rappresenta tutti quei fisici e ingegneri che nella realtà si sono spesi per risolvere l’incidente.   

Il resto della trama di costruisce su personaggi minori: il pompiere fra i primi soccorritori che lascia la moglie incinta; la moglie di lui che non vuole allontanarsi dal suo amato e che finirà per perdere il bimbo che porta in grembo; il ragazzo imberbe incaricato di uccidere tutti gli animali che trova perché contaminati e, se trova il coraggio di sparare a un cane dopo che cerca di farlo scappare, non ha cuore di liberarsi di una cucciolata con la madre; i contadini costretti ad evacuare (incarnati da una donna anziana che si rifiuta di lasciare la sua casa e continua a mungere la sua mucca); i minatori mandati in missione suicida nei sotterranei; gli operai lasciati per pochi secondi sui tetti radioattivi; semplici abitanti del luogo che avevano assistito al tragico spettacolo da un ponte, di cui non ne sopravvivrà nemmeno uno, ci viene raccontato in chiusura. Qui, al di là dei volti riconoscibili che umanizzano le vicende, ci sono tanti, tantissimi volti anonimi, che bene esprimono quello che è il prezzo di quanto è accaduto, ovvero migliaia di vite a cui non riusciremo mai a dare un volto o un nome che hanno pagato un prezzo altissimo soffrendo e sacrificandosi (a loro è dedicata quest’opera). Si onorano tanti eroi senza nome.   

E il senso del racconto è poi quello di cercare e di capire il perché tutto questo sia accaduto, di mostrare la concatenazione di tanti piccoli errori – ignoranza, insabbiature, bugie, abusi, arroganza, segreti, incompetenza -  che nell’insieme hanno portato alla catastrofe, e, come fa notare la citazione finale che ho messo come cappello introduttivo, il rischio dell’omertà, che sia dovuta a ideologia o vigliaccheria, e delle menzogne. E in questo senso quest’opera ha sicuramente un senso parenetico, di monito a non ricadere nella stessa trappola, alla quale siamo inevitabilmente destinati se la situazione non cambia.

Notevole è stata l’inquietante colonna sonora di Hildur Gudnadottir. Come  ha ben scritto Randall Coburn (AVClub): “Anche se nulla spezza i nervi come un dosimetro scoppiettante, i droni elegiaci a ripetizione di Gudnadottir evocavano il lamento marcescente di una sirena lontana, fungendo da manifestazione uditiva dell'aria velenosa”. Stilisticamente è stata tesa, senza un momento sosta, ma per il resto anche è stata anche una produzione molto classica.

Se colpa significa negligenza, imprudenza e imperizia, qui ci troviamo ad un esempio lapalissiano di colpa, e di consapevolezza della necessità di prendersene la responsabilità. Una miniserie che esorta a guardare in faccia l’orrore morale perché non si concretizzi in altre forme e guarda negli occhi con altrettanta chiarezza alla forza umana di far fronte alle sue conseguenze.