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sabato 31 maggio 2025

MISS AUSTEN: misurata, credibile e coinvolgente

Basata sull’omonimo romanzo di Gill Hornby, Miss Austen (BBC1 e per ora inedita in Italia), è una miniserie in 4 puntate che catapulta in atmosfere simili a quelle delle famosa scrittrice Jane Austen di cui quest’anno ricorre il 250esimo anniversario della nascita.

Ci si muove su due linee temporali: nel 1830, tredici anni dopo la morte della sorella Jane (Patsy Ferran), le vicende seguono Cassandra (Keeley Hawes, Orphan Black: Echoes) che si reca a Kintbury, presso la casa della famiglia Fowle. Ufficialmente è lì per aiutare Isabella (Rose Leslie, Game of Thrones), figlia della defunta amica Eliza, che dopo la morte del padre è costretta a traslocare in fretta e furia e ha un futuro incerto; è innamorata del dott. Lidderdale (Alfred Enoch), ma con lui non vede futuro. In realtà l’obiettivo di Cassandra è un altro: trovare e distruggere le lettere private di Jane, che potrebbero compromettere la reputazione della sorella se divulgate.

ATTENZIONE SPOILER

Attraverso una serie di flashback, si svelano episodi della giovinezza delle sorelle Austen: il promesso sposo di una giovanissima Cassandra (Synnøve Karlsen) muore subito prima di sposarla, ma dal momento che lei aveva promesso che non si sarebbe sposata con nessun altro, rifiuta le avance di un giovane di cui si era successivamente innamorata, nonostante le pressioni della sorella Jane che al contrario vuole poter dedicare la propria vita alla scrittura e, come Cassandra stessa, vive con i genitori, mentre loro fratello è diventato il marito di Mary (Liv Hill da giovane, Jessica Hynes da adulta), sorella di Eliza, la migliore amica di Jane a cui aveva scritto tutte quelle lettere che ora da adulta Cassandra intende recuperare. Anche Mary, piuttosto odiosa a tutti e manipolatrice, che esalta il marito come scrittore non riconoscendo la maggiore grandezza letteraria di Jane, arriva a casa Fowle e cerca quelle stesse lettere.

È molto pacata e sensibile questa miniserie, diretta da Aisling Walsh e sceneggiata da Andrea Gibb, che ricalca quelli che erano le passioni e le difficoltà e le sfide nel XIX° secolo per le donne, limitate nella possibilità di esprimere se stesse e spesso rassegnate a ruoli molto specifici, oltre che completamente dipendenti dagli uomini da un punto di vista economico. C’è affetto nei confronti dei personaggi e della narrativa dell’illustre scrittrice britannica, verso Persuasione in particolare, che viene letto dai personaggi nella diegesi e punteggia le vicende offrendo anche lo spunto per una soluzione alla vita amorosa di Isabella, permettendole così un lieto fine. Il restraint, la moderazione, la compostezza, la misura, il controllo delle proprie reazioni, la mancanza di ostentazione sono la nota distintiva. L’amore per l’autrice la cui memoria viene omaggiata non la fanno eroina sopra le altre, anzi, si vede come la sua brillantezza è anche consentita dal supporto e dall’amore delle persone che le stanno vicine e la sostengono nella propria vita.

Le interpretazioni sono di prim’ordine e dimostrano molta profondità emozionale, e anche i valori produttivi sono elevati. C’è chi ha lamentato una tensione drammatica limitata. Dal momento che la serie è più incentrata su una tranquilla riflessione emotiva e sui ricordi personali piuttosto che su drammi o conflitti esterni, alcuni ritengono sia un po' troppo sommessa o priva di slancio per coloro che si aspettano una narrazione più dinamica. Chi conosce la letteratura a cui fa riferimento però non può rimanere deluso da questa caratteristica, anzi, perché è proprio un suo punto di forza. Diversa l’obiezione di chi ha visto un eccesso di empatia nei confronti di Cassandra, plasmata negli anni dal proprio dolore e dall’amore per la sorella, nel suo atto di distruggere le lettere di quest’ultima per proteggere la reputazione, il decoro e la privacy suoi e dei propri familiari, mal giudicata per aver compiuto un atto di vandalismo culturale – di circa 3000 lettere stimate ne sono sopravvissute solo 160, probabilmente le più “innocue” (fonte: wikipedia). Personalmente vedo buone ragioni in entrambe le posizioni (distruggere o preservare le lettere cioè) e non so scegliere quella più meritevole da sostenere, perciò mi sta bene la scelta della serie che rimane sospesa sul giudizio. Lo comprende e non lo condanna e questa è, volendo, una presa di posizione, ma preferisco interpretarla come una presa di posizione rimandata a eventuali considerazioni successive quando qui si guarda solo alle motivazioni di Cassandra che agiva come persona del suo tempo con un rapporto personale con un’autrice che poteva stimare ma non poteva sapere quanto importante sarebbe divenuta per i posteri.

Questa specifica narrazione è finzione, ma sembra vera, credibile e coinvolgente, svolta con ragione e sentimento, è il caso di dirlo.

mercoledì 9 aprile 2025

ADOLESCENCE: una miniserie necessaria

Memorabile, necessaria. A meno che nell’ultimo mese non abbiate vissuto da eremiti, è probabile che abbiate profusamente sentito parlare della mirabile, celebrata, acuta, scorticante miniserie britannica Adolescence (Netflix), rilasciata lo scorso 13 marzo. Mutatis mutandis è per quest’anno quello che l’anno scorso è stata Baby Reindeer, e non solo sta venendo sezionata da un punto di vista artistico (come accade a un Severence), ma sta avendo un forte impatto socio-culturale con potenziali evidenti dirette conseguenze: una politica inglese, Anneliese Midgley, sostenuta dal primo ministro Starmer, ha chiesto che la serie venga proiettata in Parlamento e nelle scuole. Ideata da Jack Thorne e Stephen Graham è un pseudo-giallo drammatico poliziesco, anche se è un’etichetta che sta strettissima, in cui un ragazzino di 13 anni, Jamie Miller (Owen Cooper) viene accusato dell’omicidio di una coetanea compagna di scuola, Katie Leonard (Emilia Holliday), che viene trovata pugnalata sette volte. Siamo nello Yorkshire, in Inghilterra.

Nella prima puntata l'ispettore capo Luke Bascombe (Ashley Walters) e la sergente capo Misha Frank (Faye Marsay) arrestano il ragazzo che viene condotto alla stazione di polizia, mentre lui si dichiara innocente. Gli viene affiancato un avvocato e il padre Eddie (Stephen Graham, che è il co-autore, non un omonimo) fa da garante al figlio. Seguono la procedura, viene visitato. Mi ha colpito la gentilezza con cui lo hanno trattato. Nella seconda puntata, tre giorni dopo, la polizia si reca nell’istituto scolastico del ragazzo,  dove studia anche il figlio di Bascome, e interrogano alcuni ragazzi, fra cui Jane (Fatima Bojang), migliore amica della vittima. Che dettaglio fantastico quando presentano lui ma non lei alla classe, poi scusandosi! Nel terzo episodio il giovane Jamie, sette mesi dopo il suo arresto, ha un colloquio con una psicologa forense, Briony Ariston (Erin Doherty), che deve fare una valutazione e relazione su di lui che, in attesa del processo, si trova in una struttura di detenzione minorile. Per me è stato il più riuscito: fa una dissezione chirurgica di quello che vuole essere il tema principale, la rabbia maschile e le sue radici. È recitato alla grande, ma in primo luogo è scritto in modo mozzafiato, nel mostrare Jaime che da solo con una donna cerca di sfidarla e di provocarla, di come lei eccellente nel suo lavoro ma profondamente scossa debba mostrarsi indifferente alle minacce e agli scatti d’ira, e di come lui in fondo sia solo un bambino ma non per questo poco pericoloso. Il quarto e ultimo episodio, molti mesi dopo, a ridosso del processo in cui il figlio annuncia di volersi dichiarare colpevole, è concentrato sui familiari e in particolare sui genitori.  

Con la regia di Philip Barantini, ogni singola puntata è un unico piano sequenza, quindi segue in tempo reale e senza stacchi di scena tutti gli eventi che si susseguono nella puntata, un notevolissimo vero tour de force, coreograficamente e anche attorialmente, che dà forza di realtà impattante a quello che vediamo perché non ti permette davvero di staccare mai. Ti lascia senza respiro. Il solo che ho letto che lo ha trovato privo di senso e giudicato un mero gimmick, un trucchetto che distrae dalla storia, è Robert King (The Good Wife, The Good Fight), che ha giudicato il programma molto ben scritto e ben recitato e ritiene che anche in forza di questo dovrebbero essere proprio gli attori il fulcro, non la steadicam (qui). Pur comprendendo il suo punto di vista, io non ho sentito che ci fosse troppo “blocking baggage”, come lo definisce lui, quindi un eccessivo bagaglio tecnico nello stabilire chi sta dove, anzi dà la sensazione di essere senza filtri, crudo. È una scelta che Barantini ha usato in precedenza, nel film del 2021 Boiling Point che ha nel cast anche lì Stephen Graham. Non ho visto il film ma qui nello show questa “tecnica” è indubbiamente usata con virtuosismo. Lo valuto, come la maggior parte dei critici, un successo estetico.    

È comunque forma che sostiene contenuti altrettanto pregnanti, perché mostra, in modo potente ma anche sottile, come si crea invisibilmente una cultura misogina, di violenza contro donne e ragazze, diffusa dalla subcultura Incel che nasce nella manosfera (quelle variegate risorse web che promuovono odio per la donna, opposizione al femminismo e pompano un’idea di mascolinità prepotente) e che trova poi tragica attuazione nella realtà quotidiana. Non fa grandi lezioni sull’argomento, lo mostra di atto. Così come non mostra il risentimento degli uomini che con autocommiserazione e odio pianificano di sfogare la propria rabbia repressa prendendo come bersaglio il sesso femminile, come magari può essere stato mostrato in The Power - Ragazze eletttriche, dove vediamo che il protagonista maschile adolescente viene davanti ai nostri occhi radicalizzato perché si ritiene ingiustamente defraudato di privilegi che dovrebbero essergli dati di diritto in quanto uomo. Qui si parte delle conseguenze, un’orrida morte di una ragazzina, per sviscerare le ragioni umane di un simile atto d’odio, per portare alla luce i meccanismi di quella che viene chiamata mascolinità tossica, dove gli uomini sono anche vittime di una mancanza di educazione che li fa sentire sessualmente inadeguati quando sono ancora giovanissimi e rabbiosi nei confronti di una vita da cui si sentono traditi e di cui scaricano la colpa sulle donne. In questo senso si trovano in una situazione di vulnerabilità  nella società attuale. “Non ho fatto niente di male” continua a ripetere il ragazzino, che non ritiene di aver fatto nulla di male, di avere una giusta legittimazione al suo comportamento.

Si mostrano genitori che non se ne sono fregati, hanno cercato nei liniti del possibile di essere brave figure parentali, sicuramente migliori di quelle che hanno cresciuto loro, ma si trovano davanti a un fallimento clamoroso, questo anche a ribadire che è un problema di tipo sistemico, nel senso che puoi anche avere una brava famiglia alle spalle, ma sei a rischio di radicalizzazione in una società che facilmente approfitta della tua fragilità – bella la versione cantata da un coro di ragazzi alla fine del secondo episodio di “Fragile” di Sting. La voce della ragazza che emerge sugli altri, riporta Netflix (qui) è quella della ragazza che interpreta la compagna di scuola uccisa.

Si mostra anche il distacco fra le generazioni adulte e quelle giovani che hanno un linguaggio loro. È il figlio di Bascombe, Adam (Amari Jayden Bacchus), che a scuola prende da parte il padre per spiegargli che le emoticon con cui commentavano le immagini di Jaime su Instagram erano insulti. La scollatura non permette comunicabilità, non rende visibile agli adulti che potrebbero fare da guida un disagio che matura in rancore. E gli adulti sono privi di strumenti per farvi fronte. Una lettura importante, tanto più in un contesto come quello britannico, è anche in termini di classe. In proposito rimando a questo post di Sophie Pender.

Con la serie entrano così nel mainstream queste questioni, essenziale anche perché gli Incel vengano visti nella loro pericolosità sociale, invece di normalizzarli, come be arguisce Attilio Palmieri in questo post che invito a leggere, e questioni come il 80-20 (ovvero l’80% delle donne sarebbe attratta dal 20% degli uomini) e la teoria redpill (ovvero in qualche modo risvegliati alla presunta verità che le donne cercano negli uomini solo bell’aspetto, denaro e potere, con un termine che deriva dalla pillola rossa di Matrix rivisitato ad hoc). Ipoestesia sociale unita a giovani istigati alla violenza e aggressività, misoginia e maschilismo, controllo e dominazione, come forme di successo e potere per essere maschi alfa, veri uomini, conduce facilmente al femminicidio.

Non è un vero giallo: anche se il ragazzo nega, capiamo subito che è lui il colpevole; è un horror dove l’orrore non è quello del mostro, è quello del ragazzino della porta accanto dall’aria pulita che per pressione e cyberbullismo da parte dei coetanei che lo umiliano, per quella difficile fase dell’età che è l’adolescenza (che è non a caso il titolo del programma), privi di anticorpi verso la cultura misogina e maschilista in cui è immerso, e in contatto con modelli educativi inadeguati al contesto in cui deve muoversi, conduce a conseguenze drammatiche.

Un appunto però mi sento di farlo. Da un lato penso che la serie sia perfetta così com’è, completa. “Mio Dio, ogni momento, ogni battuta, ogni personaggio, ogni pensiero. Perfetto. Furioso. Geniale. Orripilante. Cosa facciamo? @netflixuk” ha commentato Russell T Davies (qui), che a cui ho pensato per due ragioni: con Queer As Folk mi ha insegnato che ogni racconto è parziale, si sceglie di raccontare uno spicchio, senza che debba rappresentare tutti e parlare per tutti; con il corto Screwdriver (ne ho parlato qui all’interno del saggio su Cucumber), ha vocalmente fatto una chiamata alle armi contro l’abbandono dei ragazzini alle influenze nefaste della rete, in quel caso rispetto alla pornografia, chiedendo lui stesso che fosse fatto qualcosa contro la vulnerabilità dei ragazzi, tema qui significativo. Dall’altro, forte anche di molti corsi deontologici di aggiornamento professionale come giornalista fatti su questo argomento che insistono sulla necessità di quanto segue, condivido a pieno un’osservazione fatta in questo post su Instagram che riporto in parte, di seguito, tradotto, di Charlotte Archibald,

“Per comprendere veramente la portata delle azioni di Jamie, avevamo bisogno di sentire il vuoto lasciatosi dietro quando Katie è stata strappata al mondo.

Un quinto episodio, incentrato sulla sua storia attraverso gli occhi delle persone a lei più vicine, avrebbe potuto illustrare con forza l'impatto profondo e duraturo della violenza maschile sulle donne. Avrebbe permesso allo spettatore di comprendere appieno le devastanti conseguenze della rabbia di Jamie.

Ma questa cornice, o la sua mancanza, non è nuova. È una narrazione fin troppo familiare nello storytelling, nel riportare le notizie e nel modo in cui discutiamo di questi crimini: le donne e le ragazze diventano note a piè di pagina nei loro stessi omicidi.

Quindi sì, raccontate la storia del mondo di oggi in cui viene cresciuto Il Ragazzo. Raccontate il ruolo che tutti noi dobbiamo avere nel creare una società che nutra e protegga. Mostrare quanto disperatamente i ragazzi abbiano bisogno di amore, rassicurazione, tenerezza e modelli positivi. Adolescence lo ha fatto brillantemente.

Ma dobbiamo anche raccontare le storie delle ragazze e delle donne le cui vite sono sconvolte da queste ideologie tossiche. Dobbiamo ascoltare le loro voci e riconoscere la loro umanità. Perché solo quando le loro storie saranno raccontate, e solo quando le donne e le ragazze saranno viste e valorizzate come persone, potremo sperare che meno di noi saranno ferite o uccise da ragazzi e uomini.

FINO AD ALLORA, IL CICLO CONTINUERÀ, E LE DONNE E LE RAGAZZE RESTERANNO invisibili nelle loro stesse tragedie”.

Penso che sia voluto, la voce delle donne non esiste nel mondo distorto che viene rappresentato, c’è anche un’osservazione in questa direzione ad un certo punto. Non è un programma didattico, e non si può dire tutto appunto. Eppure…è il motivo per qui all’inizio del mio post ho voluto indicare la vittima con nome e cognome, e con l’indicazione dell’attrice che la interpreta, per quanto non la si veda veramente mai, se non molto di sfuggita.

Molto si potrebbe ancora dire, e sicuramente molto verrà ancora detto. Un impatto in ogni caso c’è stato non solo a livello di dibattito che ha elicitato, cosa già importante: sembra che le scuole nel Regno Unito inizieranno a offrire lezioni contro la misoginia nell’ambito delle materie di educazione sessuale, salute e relazioni, cominciando per gradi a seconda dell’età per trattare poi nella scuola secondaria temi come consenso, comunicazione ed etica delle relazioni romantiche. Un risultato importante a quello artistico che è innegabile.

giovedì 9 gennaio 2025

DOUGLAS IS CANCELLED: incalzante e graffiante

Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni non facciano nulla, si dice. Questo non significa che i buoni che non fanno nulla siano più colpevoli di condanna di coloro che perpetrano il male. Eppure questa sembra la posizione assunta da Douglas is Cancelled (della britannica ITV1): non condivido questa pozione, ma per il resto ho trovato la miniserie ugualmente eccezionale. E se è vero che come dice la usuale dicitura “non tutti gli uomini” si macchiano di comportamenti misogini, anche coloro che non mettono in atto direttamente di quei comportamenti, non possono davvero considerarsi brave persone, ma tradiscono coloro di cui si ritengono alleati se non denunciano, non si dissociano, non traggono vantaggi indiretti dal comportamento scorretto degli altri. Questa è una posizione che assolutamente invece condivido. E la recitazione è di gran livello, la regia è dinamica, ma quello che davvero rende superlative le quattro putate ideate a scritte da Steven Moffat (Doctor Who, Sherlock) è una sceneggiatura graffiante, cesellata, e dialoghi incalzanti, brillanti, micidiali. E se le prime due puntate preparano il terreno, la terza e la quarta sono una escalation ed una detonazione memorabili.

Douglas Bellowes (Hugh Bonneville, Downton Abbey, Paddington) è l’amato e rispettato presentatore del notiziario Live at Six che conduce da più di 30 anni. Divide lo schermo con una giornalista molto più giovane di lui, Madeline Crow (Karen Gillan, Doctor Who) che lo adora fin da quando era bambina ed ha con lui un’intesa professionale invidiabile. Si considerano amici. Douglas a un matrimonio fa una battuta che un tweet descrive come sessista, ma lui dice di non la ricordarla perché aveva bevuto, anche se non così tanto da essere ubriaco. Nel cercare di arginare le conseguenze negative di quel post, si precipita una spirale che porta alle rivelazione di che cosa abbia veramente detto con tutte le conseguenze del caso. A cercare di proteggerlo professionalmente sono la moglie Sheila (Alex Kingston; ER), redattrice di un giornale scandalistico; l’inutile agente Bently (Simon Russell Beale, House of the Dragon) e il suo produttore Toby (Ben Miles, The Crown), che assume anche un comico, Morgan (Nick Mohammed, Ted Lasso), per scrivergli una battuta umoristica che sia abbastanza credibile da essere percepita come di cattivo gusto, ma non così offensiva da portare alla sua rovina professionale, una “misoginia family-friendly” (1.04). Madeline dice a Douglas che lo vuole aiutare, e lui non vuole sfigurare davanti alla figlia Claudia (Madeleine Power), attivista in campo sociale che è convinta che il padre non le mentirebbe mai. Si precipita verso il disastro.

ATTENZIONE SPOILER NEI PROSSIMI DUE PARAGRAFI

È con senso di profondo disagio che si assiste a Madeline che deve subire le viscide, sottoli molestie del produttore Toby (1.03): nulla di apparentemente grave accade davvero, lui la invita a bere nella sua camera d’albergo, la interroga sulle sue posizioni femministe, si spoglia per andare a farsi un bagno…eppure nel ping-pong fra i due, non c’è il minimo dubbio sulla sgradevolezza e gravità della situazione, che vede uno con il potere di distruggere l’altra, e le indecisa se andarsene e mollare tutto o rimanere e difendersi, barcamenarsi come meglio riesce per non perdere quello per cui ha lavorato e a cui ambisce. Una situazione atroce. A Douglas, recatosi lì per altro, apre lei la porta nella stanza di Toby, dove lui aveva messo fuori il cartello “non disturbare” e Douglas dà per scontato che lei ci vada a letto (cosa che in realtà non fa, scopriremo in seguito). Andandosene commenta solo che la carriera che farà vale lo scotto che deve pagare. Qui davvero la grandezza delle sceneggiatura sta nel non detto, nell’elusione, e nel comportamento predatorio e intimidatorio mascherato da buone maniere e nel terrore di non sapere bene come gestire tutto. Una vera forza della natura è stata in particolare in questo tour de force Karen Gillan.

Nell’episodio successivo (1.04) Madeline si offre di fare una simulazione di intervista a Douglas, che deve affrontarne una vera, usando “ogni sporco trucco” che presumibilmente userà poi la giornalista con lui. E in un rimpiattino fra gatto e topo senza esclusione di colpi finisce per estirpargli la verità. E la famosa battuta da lui pronunciata alla festa di matrimonio. Alla domanda su quando avesse capito che la collega avrebbe avuto successo, aveva risposto, anzi rispondeva in più di un’occasione, che era quando la aveva vista nella stanza d’albergo del produttore. Lui, che si dichiarava amico, che l’ha vista terrorizzata, fa ridere gli amici alle sue spalle insinuando che il suo successo non è dovuto alla sua bravura, ma a con chi è finita sotto le lenzuola. La puntata lascia senza fiato per come è ingegnata, una partita a scacchi di mosse e contromosse, in cui i rapporti personali fra tutti i personaggi (moglie e figlia di lui comprese) si modificano sul filo di quanto accade domanda dopo domanda. E certe volte una battuta non è solo una battuta, è sintomo di una cultura sottostante molto più perniciosa di quanto apparentemente non sia.  Douglas alla fine viene “cancellato”, ma non per quello che ha detto in quell’occasione. Come dicevo in apertura, è legittimo domandarsi, perché accanirsi più contro Douglas che contro Toby, e la spiegazione è stata data. Ha il suo valore.

Una serie grandiosa, al vetriolo, anche divertente, sul ruolo dei social media, e sull’uso delle parole, sull’ambiguità di comportamenti e di discorsi, sul femminismo, sul #metoo, sulla cancel culture

mercoledì 15 maggio 2024

RIPLEY: Zaillian ci regala uno stupendo neo-noir

Ripley (Netflix), il più recente adattamento del romanzo di Patricia Highsmith in forma di miniserie, è stato stupendo. Scrive bene la BBC quando titola la propria recensione dicendo che è un capolavoro, la serie hitchcockiana che Hitchcock non ha mai realizzato. 

Non ho letto il libro, e ho visto il solare film di Anthony Minghella del 1999, che se ne distanzia parecchio a quanto ne so, solo dopo questa trasposizione televisiva, e ammetto senza problemi che quando avevo saputo che era in produzione la mia reazione è stata “una cosa in meno da guardare”. Proprio non è il mio genere, e lo avrei evitato. Poi ho visto l’atmosferico promo di un programma girato completamente in bianco e nero, ho visto che interprete principale era Andrew Scott (Sherlock, Fleabag, Estranei), e ho scoperto che era stata ideata e interamente scritta e girata da Steven Zaillian, già autore di una delle mie miniserie preferite di tutti i tempi, The Night Of (ne ho scritto qui nel 2016). Improvvisamente il mio atteggiamento è diventato “devo vederlo immediatamente appena esce”. Non sono rimasta delusa.

ATTENZIONE SPOILER NEL PROSSIMO PARAGRAFO

Protagonista è l’anti-eroe Tom Ripley, maestro dell’inganno e dei raggiri, che sopravvive con piccole truffe. Siamo negli anni ’60 a New York e il danaroso industriale nautico Herbert Greenleaf (Kenneth Lonergan) lo assume per trovare il figlio Richard “Dickie” (Johnny Flynn), di cui lo crede amico, per riportarlo a casa. Questi si trova in Italia, a dipingere e godersi la bella vita, ad Atrani, località della costiera amalfitana, insieme alla sua compagna, Marge Sherwood (Dakota Fanning), che sta scrivendo un libro fotografico sul paesino. Tom inizialmente si fa amica la coppia, sebbene lei lo guardi sempre con sospetto. Poi, messo alle strette per andarsene, uccide “Dickie” e ne assume l’identità e ne utilizza il conto in banca, passando da una città all’altra del Bel Paese (Napoli, Roma, San Remo, Palermo, Venezia) per depistare e sviare i sospetti, finendo per uccidere anche un amico della coppia, Freddie Miles (Eliot Sumner), ragion per cui l’ispettore romano Pietro Ravini (Maurizio Lombardi) inizia ad investigare. Tom nonostante qualche passo falso, riesce sempre a scamparla, con grandissimo talento per la truffa, ma riesce anche a farsi passare per chi non è e per essere una brava persona perfino con la padrona di casa da cui affitta un lussuoso appartamento, la Signora Buffi (Margherita Buy).

Anche in questo caso, come nel precedente progetto per il piccolo schermo di Zaillian, assistiamo a un character study, nella forma di un thriller psicologico noir, o neo-noir se preferite. Psicopatico o sociopatico che sia Ripley, di fronte alle terribili azioni che commette finisci ugualmente a tenere un po’ per lui, a sperare che la faccia franca, a rimanere con il fiato sospeso per vedere come uscirà dall’ennesimo potenziale tranello, in suspence ad ogni passo in cui è virtualmente braccato. La bella recensione di Lucy Manga sul Guardian, rammenta come Graham Greene avesse definito la Highsmith “poetessa dell'apprensione” e qui si fa onore a tale definizione, anche se ci si concede anche l’occasionale tocco umoristico. Di Tom poi ammiri l’intelligenza, ne comprendi la rabbia e l’invidia che prova per gente meno talentuosa di lui che apparentemente ha tutto senza fare nulla, solo perché appartiene a una classe più abbiente, ne percepisci la solitudine, l’isolamento (e non guasta che buona parte del programma sia stato girato durante la pandemia). Un tema importante è gioco forza quello dell’identità e anche il fatto che siamo misteriosi a noi stessi; ci sono anche allusioni omoerotiche, sebbene meno marcate rispetto al film, con il protagonista che ribadisce che gli piacciono le ragazze, ma non sai se credergli e fino a che punto lui stesso ci creda o sia consapevole di chi è veramente. Indossa perennemente una maschera.

La messa in scena è elegantissima, con una fotografia mozzafiato, ogni inquadratura un quadro, una cinematografia raffinata e artistica, una luce calibrata alla perfezione. Nel film la passione del protagonista e filo conduttore è il Jazz, non presente nel romanzo, e qui la musica è quasi assente, cosa che mi è stata fatta notare e a cui io non avevo prestato attenzione, non essendo io una persona molto musicale. Non ho idea di come fosse nel libro, ma nella produzione di Netflix in modo molto più pregnante e coinvolgente a coinvolgere il protagonista è la pittura, e in particolare Caravaggio, con i suoi intensi chiaroscuri – e qui i chiaroscuri sono tanto visivi quanto psicologici – e con la sua vita tormentata e, in fuga da Roma dopo l’accusa di omicidio, finita in tragedia. Ripley lo studia, va ad osservarlo dal vivo, e si identifica con il grande maestro fra rinascimento e barocco, che è un personaggio a tutti gli effetti ad un certo punto. Il parallelismo funziona su più livelli (anche per la possibile omosessualità del pittore), con varie opere che punteggiano le puntate. Il programma è attento allo stile, ai costumi e al design (e a questo proposito si legga questo pezzo su Tudum, che in generale fa specifiche interessanti osservazioni estetiche) e riflette sul talento, sulla bellezza e sull’arte; efficacemente, come interpretazione letteraria e pratica ecfrastica, ci permette una riflessione intermediale, che come minimo coinvolge televisione, letteratura e pittura (ma non solo), deponendo a favore del fenomeno che Oskar Walzel agli inizi del XX° secolo definiva la wechselseitige Erhellung der Künste, la reciproca illuminazione tra le arti.

Un cameo di John Malkovich, che ha interpretato Ripley nel film Ripley's Game (2002), basato su un diverso libro della Highsmith, è un bel tocco nell’episodio conclusivo, ma non c’è dubbio che a brillare su tutti sia Andrew Scott, pacatamente tagliente, manipolatore e tanto inquietante quando magnetico.

venerdì 15 marzo 2024

THE REGIME: farsesco

Mi risulta intollerabile seguire The Regime – Il Palazzo del Potere (HBO; Sky Atlantic) oltre la prima puntata, nonostante siano solo sei. Attraverso un regime dittatoriale fittizio centroeuropeo, vuole essere una satira su come il potere privo di restrizioni corrompe, ma non riesce mai a trovare il tono giusto. Forse sono io che non ne apprezzo il gusto per farsa e assurdo, mai certa di quanto voglia essere umoristico – lo è per nulla o molto poco e quanto una critica al vetriolo degli abusi perpetrati da persone atroci, con una porzione riservata anche ai vecchi Stati Uniti anche questo lo è piuttosto poco. La creazione di Will Tracy, con la regia di Stephen Frears e Jessica Hobbs, si addentra in territori bazzicati da Armando Iannucci (Veep), ma in questo caso con risultati molto meno graffianti e gratificanti per lo spettatore. Magari semplicemente non è per me, che vengo infastidita anche dai filtri scelti dalla fotografia, e ci sarà un futuro in cui ne riconoscerò l’alto valore artistico che alcuni vedono, ma per ora trovo anche generoso il punteggio di 57/100 che ci attribuisce Metacritic con il suo semaforo giallo.

Kate Winslet interpreta la cancelliera Elena Verham, una donna ipocondriaca, germofobica che chiede di misurare costantemente l’umidità dell’aria poiché percepisce costantemente il rischio di muffe a palazzo, gestito con rigore da Agnes (Andrea Riseborough). Elena ha perso il padre per una malattia polmonare e teme sia la sua stessa sorte. È sposata con Nicholas (Giullaume Gallienne), che ha conosciuto a Parigi e che lei ha sposato dopo che lui ha lasciato la sua prima famiglia. Presto suo fidato consigliere diventa il militare che era inizialmente incaricato a precederla con un igrometro ovunque andasse, Herbert Zubak (Matthias Schoenaerts), che ha il nomignolo di Macellaio dell'area cinque", o anche semplicemente Macellaio, per aver trucidato dei minatori in una miniera di cobalto.

Sono palpabili la sensazione che nessuno è al sicuro, tipica dei regimi dittatoriali retti da folli, sani di mente quel tanto che basta da riuscire a legittimare il proprio potere come facciata, così come il disagio di una pletora di dipendenti costretti ad accontentare ogni eccentricità e di un pubblico costretto ad applaudire in ogni situazione anche immeritata – come ho pensato all’imperatore romano Nerone, quando Elena canta stonata a un ricevimento del presidente statunitense, e tutti fingono di apprezzare. C’è una destabilizzante “folie à duex psicosessuale” fra Vernham e Zuback, come la chiama appropriatamente Variety, che sbaglia però per me a ritrovarvi un’estetica del fascismo, se non molto superficiale, quando ne è più una versione kitsch. E la regnante è specchio dei molti, troppi dittatori che ha visto il nostro passato e vede il nostro presente, c’è solo l’imbarazzo della scelta fra i nomi. Qui però c’è stringi-stringi poca politica. Mi rammarico, fermandomi io al primo episodio, di non aver visto all’opera Martha Plimpton nel ruolo della segretaria di Stato americana, o Hugh Grant in quello del leader dell’opposizione, ma non trovando la miniserie né divertente né penetrante, ma altamente respingente, me la risparmio. 

martedì 5 dicembre 2023

LESSONS IN CHEMISTRY: fantasia femminista anni '50-'60

Tratto dall’omonimo romanzo di Bonnie Garmus, che non ho letto, Lessons in Chemistry – Lezioni di Chimica solleva molte questioni di rilevanza anche attuale, travestite da fantasia femminista di riscatto dall’opprimente cultura degli anni ’50-’60, periodo in cui è ambientato. Non riesce in definitiva ad elevarsi da quest’ultimo aspetto e da risultare realmente memorabile o incisivo, ma offre ugualmente spunti interessanti in una gradevole confezione. 

ATTENZIONE SPOILER

Siamo degli Stati Uniti. Protagonista è Elizabeth Zott (Brie Larson), una chimica che in quanto donna viene relegata a ruoli umili nel laboratorio Hastings dove lavora come tecnica, pur essendo più brillante di molti colleghi maschi. Questo finché non incontra l’appoggio di un chimico, Calvin Evans (Lewis Pullman), un tipo molto eccentrico che i colleghi sopportano solo perché è finito sulla copertina di Scientific American per le sue ricerche.  Insieme decidono di studiare l’abiogenesi. Si innamorano, sono travolti da una deliziosa storia romantica, e decidono di vivere insieme. Sono sul punto di pubblicare quando lui, fuori a correre come al suo solito insieme al cane Seiemezza (la puntata 1.03 viene narrata dalla sua prospettiva), viene investito da un veicolo e muore (1.02). Lei viene licenziata, e dei loro studi si appropria qualcun altro. Si scopre incinta. Un po’ l’aiuta la vicina di casa Harriet Sloane (Aja Naomi King), un’avvocata che si sta battendo perché non venga costruita un’autostrada demolendo il quartiere a prevalenza afro-americana in cui vivono, che conosceva Calvin. Dopo che nasce la figlia Madeline (Alice Halsey), detta Mad, vista la necessità economica e la sua bravura in cucina, campo in cui si è sempre dilettata applicandoci i principi della chimica e testando ogni nuova variabile nelle differenti versioni di uno stesso piatto, le viene offerta la conduzione di un nuovo programma televisivo, “Supper at Six” (Cena alle sei) che è subito un grande successo e ispira molte donne, non solo ai fornelli. Ha il sostegno di Walter Pine (Kevin Sussman, The Big Bang Theory), suo produttore che la supporta anche contro l’aperta ostilità del direttore di rete Phil Lebensmal (Rainn Wilson, The Office), e ha l’amicizia di Fran Frask (Stephanie Koenig), una delle segretarie del Hastings Research Institute che inizialmente la riprendeva sempre per il suo comportamento. Quando Mad comincia ad andare a scuola e deve fare il suo albero genealogico, emergono il passato della madre e del padre.

In questa miniserie sviluppata per AppleTV+ da Lee Eisenberg non so se per aderenza al testo che non ho idea se dica qualcosa in proposito, per scelta della sceneggiatura o della convincente attrice che la interpreta , la protagonista per la gran parte della narrazione non mi sembra una persona neurotipica. Nella diegesi non ci si esprime mai in questi termini, né si allude a qualcosa di simile con un linguaggio più appropriato all’epoca, ma se si esclude la puntata finale e pochi altri momenti, questa è l’impressione che mi dà. Forse la rigidità dovuta al comportamento preteso all’epoca, unita all’eccezionalità degli interessi del personaggio è tale da giustificare il suo modo di atteggiarsi, in realtà: me lo sono chiesto. Quello che mi ha irritato nel pilot, perché è la solita solfa, è che, a dispetto del suo messaggio esplicito, la serie inizialmente contrappone la protagonista alle altre donne e, per far emergere la sua brillantezza, fa sembrare un po’ stupide tutte le altre, e anche gli altri a dire il vero. E quello che la rende brava in cucina è il fatto che è una scienziata – “cucinare è chimica e chimica è vita” è un po’ il suo motto (1.05) -, quando per come la vedo io quello potrebbe fortemente anche essere il suo limite all’essere eccellente, e questo tristemente non passa come idea. C’è questa fasulla concezione che solo se c’è scienza alla base, allora qualcosa è geniale e meritevole: niente di più svilente dell’essere umano nella sua completezza. Questa è la mia maggiore obiezione valoriale al programma, che prevede una via alternativa solo in termini religiosi e non intellettuali, attraverso il confronto con le idee del reverendo Wakely primariamente (Patrick Walker).  

Di contro si affrontano molte importanti questioni: la lotta al patriarcato che schiaccia le potenzialità femminili, alle discriminazioni che valutano non la competenza, ma il gender o l’aspetto che hai, al sessismo, e la necessità dell’empowerment di donne che vengono da lei incoraggiate durante il suo programma a seguire i propri sogni (in un caso una donna aspira a diventare medico, ma non l’aveva mai preso nemmeno in considerazione come una possibilità realistica) e l’importanza di credere nelle persone, nell’avere qualcuno che ha fiducia nelle tue capacità e l’importanza di essere di ispirazione agli altri, anche quando questo rischia di essere visto come una minaccia; il fatto che cucinare non è divertimento o un hobby, è un un’attività vitale (1.05) e che prendersi cura delle persone amate comporta lavoro, vero lavoro (1.01); l’importanza del cibo, come catalizzatore dello sviluppo fisico della persona, e per il fatto che è famiglia, è comunità, è essenziale (1.04); la significatività di essere visti e ascoltati, di avere una piattaforma per farlo, perché quello che si dice lascia un’impronta, e anche quello che non si dice: è un antidoto a quella che Jill Stauffer chiamerebbe “la solitudine etica”, l'esperienza di essere abbandonati dall'umanità, inascoltati, nella dolorosa percezione di subire torti che non sono percepiti e riconosciuti; il ruolo della TV che la gente non guarda solo “perché è accesa”, come vuol farle credere il direttore di rete, ma perché ci si trovano contenuti rilevanti per le proprie vite, con il conseguente imperativo morale di non mentire agli spettatori, e di non trattarli da stupidi; e poi il leit motiv reiterato dell’inevitabilità dei cambiamenti, forse la sola costante della vita.

Queste in fondo sono le “lezioni” impartite dalla serie, che ci rimanda anche sempre a un testo letterario che la punteggia, Grandi Speranze di Dickens, il preferito di Calvin, sullo sfondo di una storia d’amore tragica perché finita troppo presto.

Deliziosa a mio gusto la sigla di apertura.

martedì 26 settembre 2023

NOLLY: ritratto di una leggenda delle soap

Funziona più o meno così: se Russell T. Davies (A Very English Scandal, It’s a Sin, Years and Years, Queer As Folk, Cucumber) scrive qualcosa, io lo guardo. Come ha scherzato, la “T” nel suo nome sta per “Television”. Non ho visto proprio tutta-tutta la sua produzione, certo è che se la penna è sua ci presto attenzione. Nolly, miniserie biografica in tre puntate dedicata alla memoria di Noale Gordon, star della soap opera britannica Crossroads, non è la migliore delle sue opere a mio gusto, ma è nostalgica e celebrativa, ed è un tributo affezionato, da vero appassionato del genere quale è sempre stato (e a cui ha pure contribuito come sceneggiatore). Nolly, come veniva appunto chiamata, è stata la prima donna della televisione mondiale ad apparire a colori (nel 1938), come ci ricordano, una personalità grintosa a affascinante, una vera star, mancata nel 1985 per cancro allo stomaco.

Con Helena Bonham Carter (The Crown) che le dà brillantemente il volto, si percorre rapidamente l’arco di una carriera che l’ha vista celebratissima e amatissima nel ruolo di Meg Mortimer, proprietaria di un motel, per soffersi poi su un momento cruciale. Era la spina dorsale del programma in cui recitava da quasi vent’anni, era pluripremiata, con grande esperienza e sicura di sé, tanto da sapersi far valere. Quando una nuova arrivata, Poppy (Beathny Antonia), sta per sedersi sulla sua sedia tutto il cast la avverte di non farlo: è solo e soltanto di Nolly, un trono praticamente. Non le mandava a dire e imponeva con autorevolezza il proprio punto di vista su quello degli altri (produttori, registi, colleghi) per cui poteva essere una spina del fianco, e lo era in particolare per il produttore Jack Barton (Con O’Neill, Our Flag Means Death, Cucumber), perché cambiava le battute, suggeriva nuove inquadrature, voleva sempre migliorare qualcosa; non era però scorretta o scortese, conosceva il nome di tutti, aiutava dentro e fuori dal set. Jane (Antonia Bernath), sua figlia nella finzione della soap, la chiama "mamma"; con Tony Adams (Augustus Prew), suo più giovane collega, scambia gossip e va a guardare le vetrine; una dello staff ricorda come il giorno delle nozze le abbia prestato la Rolls Royce e l’abbia accompagnata al suo matrimonio…

Poi, il gran colpo di scena, a lungo inspiegato: licenziata. Diventa uno scandalo nazionale, con titoloni sui giornali e fibrillazione per capire sia che cosa fosse successo dietro le quinte, sia che fine avrebbe fatto il personaggio. Morirà? Uscirà di scena in altro modo? Davies, nella seconda delle tre tranches crea una suspence incredibile, con tutti all’oscuro a fiondarsi sul copione per capire che cosa accadrà dopo: uno degli stilemi del genere che dimostra di conoscere bene e di infondere nella sua scrittura, quel tanto che è necessario. Nolly, una donna apparentemente sola, nonostante le manifestazioni di affetto di tutti quelli che incontra, vede crollare il mondo per come lo ha conosciuto. Si sente umiliata, cacciata senza nemmeno capirne il motivo. È vulnerabile, e deve reinventarsi, quando si rende conto di essere ormai probabilmente sorpassata, vecchia, fragile. Con un vecchio amico che le propone il teatro, Larry Grayson (Mark Gatiss), pure in una fase di declino della carriera, scambia parole di confronto e conforto. Realizzano di non essere più rilevanti e cercano un nuovo posto del mondo, c’è paura e rassegnazione, tristezza.

Nolly sa però difendersi quando denigrano le soap. In una scena in un autobus (1.02) rivendica ferocemente il diritto a un intrattenimento che non è da meno solo perché è considerato per donne: soap, casa e tè sono per le donne l’equivalente di football, pub e birra per gli uomini, eppure nessuno guarda questi ultimi con la supponenza che è riservata al contraltare femminile, solo perché tale. C’è una riflessione femminista nel momento in cui dice: “Quando sei una donna senza marito, senza partner, senza figli la società non sa chi sei. Non c’è posto per noi. L’armata silenziosa di donne senza nome”. Anche se lei una storia sentimentale importante l’ha avuta. E si sofferma anche (1.03) sul fatto di come succede spesso in queste situazioni, che quando una donna non ha un uomo, dicono che ha fallito, che le manca qualcosa, che è strana e ipotizzano che sia lesbica, equivalenza che ritiene offensiva per chi lo è. Reclama il proprio valore, e il proprio diritto ad essere se stessa e lo fa per tutte quelle donne che vengono considerate “difficili" solo perché assertive; ci si schiera anche contro l’ageismo di metterle da parte quando hanno “una certa età”.

Alla fine Nolly ha il suo riscatto, ma quello che rende pregevole questo ritratto è che ci sono molto calore ed empatia, e apprezzamento di una donna quando è diva ed è glamour, ma anche quando è in decadenza ed è ai margini dello showbusiness. Ci sono cuore e umanità, pure un pizzico di umorismo. Diretta da Peter Hoar, credo che sia una lettera di un fan molto speciale che la vera Nolly avrebbe apprezzato. 

lunedì 30 gennaio 2023

CONVERSATIONS WITH FRIENDS: malinconica

Conversations with Friends – Parlarne tra amici (BBC3 – Hulu, RTÉ one, per ora inedita in Italia), il romanzo di Sally Rooney da cui è stata tratta l’omonima miniserie televisiva, è stato quello che meno mi è piaciuto dei suoi tre che ho letto, e questo forse si è riversato un po’ anche sulla trasposizione televisiva, che ho trovato molto ben realizzata e fedele allo spirito del testo, ma non imperdibile come lo è stato Normal People – Persone Normali.  In scena c’è comunque, come sempre con il materiale di questa autrice, un’interiorità cerebrale autoconsapevole, ma che non rende felici nella conoscenza di sé, ma al contrario mesti, a momenti agonizzanti.

Siamo nell’Irlanda dei giorni nostri. Frances (Alison Oliver) e Bobbi (Sasha Lane), due studentesse universitarie molto amiche che in passato erano state amanti e che ora sono impegnate insieme in progetti di spoken-word poetry, una forma di performance art poetica orale, incontrano e cominciano a frequentare una coppia sposata, Melissa (Jemina Kirke, Sex Education), scrittrice (nel libro anche fotografa, qui no), e Nick (Joe Alwyn), attore. Bobbi si avvicina a Melissa (si scambiano un bacio), mentre Frances intreccia una relazione erotico-sentimentale con Nick, cosa rispetto alla quale poi escono allo scoperto. Insieme passano molti momenti, anche una vacanza in Croazia, e parlano della propria vita. Frances, probabilmente il personaggio di maggior rilevanza e di cui più in dettaglio è tratteggiato il ritratto psicologico, è molto riservata e quieta, aspira a fare la scrittrice, ha un padre alcolista e soffre di grandi problemi di endometriosi, anche se inizialmente non sa che si tratta di quello: sta male, ma non sa il motivo.

Due aspetti, che si intersecano e riavvolgono l’uno nell’altro, sono fulcro dell’interesse speculativo di questa serie: l’espressione delle emozioni e la creazione di intimità, e le relazioni interpersonali e la loro natura. Francis tende a tenere molto per sé, non è molto aperta, e questo fa sì che venga criticata o fraintesa. Spesso è a disagio nelle situazioni sociali. Sostiene che non tutti abbiano una vita emotiva intensa (1.06), e critica la posizione di chi ritiene che chi non ne parla nasconda qualcosa, i fatti però la smentiscono. Si riconosce che non c’è nessuno che non stia affrontando qualcosa, più o meno intenso che sia. Come creare connessione e comunicare è un’esigenza narrativa che traspare dal testo verbale come da quello visuale. E che cosa comporta avere una relazione sentimentale è declinato in un intreccio di reciproci avvicinamenti e allontanamenti su cui sembra non scriversi mai la parola fine. Si ripudia la monogamia come scelta pre-confezionata, si parla in termini di “consenso spontaneo” come alternativa, come modo di creare legami forse impermanenti, ma autentici e onesti e rispettosi. Di fronte ai tormenti emotivi dei protagonisti è chiaro però che è un esperimento per creare delle alternative alla norma che non sono necessariamente riuscite o ideali, ma appunto tentativi.

In una serie dove la protagonista discute con un ragazzo incontrato su Tinder se Yeats sia fascista o meno (1.08) e dove la Francis anche teme il proprio snobismo culturale, ci si interroga – forse in modo meno diretto e pregnante di quanto avrei voluto – sulla permanenza o meno dell’arte. Le protagoniste non la vogliono “impacchettata”, perché qualcuno la possieda, ed è lo stesso approccio che hanno all’amore. Qui, come in Normal People, ci sono abbondanti scene di sesso, ma non altrettanto carnali o voraci. Il desiderio con le sue contraddizioni e i suoi scatti inaspettati sfugge anche all’iper-analisi e all’overthinking della protagonista che, presa nelle sue contraddizioni, passa da momenti di profonda vulnerabilità e fragilità ad altri di apparente freddezza e distacco.

Applaudo la rappresentazione dell’endometriosi, che credo sia l’unica che ho visto, a mia memoria. Tra l’altro su dodici puntate, solo in 1.11 lei riceve una diagnosi, prima la vediamo solo stare male: avere perdite improvvise, crampi, cicli molto dolorosi e vomito. Una volta addirittura sviene (1.09) e viene portata in ospedale per delle indagini.

La serie è scritta da Alice Birch, Mark O'Halloran, Meadhbh McHugh e Susan Soon He Stanton, ed è diretta da Lenny Abrahamson e Leanne Welham. Il tono è pacato, understated, dimesso. L’atmosfera sgombra da eccessi e malinconica.

martedì 23 marzo 2021

IT'S A SIN: Russell T. Davies guarda all'AIDS negli anni '80

“Questo è quello che le persone dimenticheranno, quanto è stato bello”: dice così, nella mia traduzione, un personaggio (non dico chi né in che momento per evitare spoiler significativi) di It’s a Sin (È peccato), la più recente miniserie firmata dal magnifico Russell T. Davies (Queer As Folk, Cucumber, Years & Years, A Very English Scandal, Doctor Who, Torchwood) che è recentemente stato premiato  al Festival CanneSeries con l’Award for Eccellence. Qui si parla di AIDS, negli anni ’80, ai suoi esordi quando era associato agli omosessuali che ne sono stati una comunità fortemente colpita, e ci sono molte inevitabili lacrime, ma la narrazione è vitale, esuberante, gioiosa, assertiva, come già l’autore ci ha abituato in titoli precedenti. In Queer As Folk in particolare (1999), la seminale serie “più gay che sia mai stata realizzata”, come veniva definita, il tema di questa malattia era stato volutamente evitato – ma invece trattato nel successivo remake americano – e questo perché allora era gran parte di quello a cui i gay erano associati e si volva andare in una direzione diversa. Si voleva una necessaria distanza.

Quella che inizialmente doveva chiamarsi The Boys, ma ha poi cambiato titolo per evitare di essere scambiata con l’omonima serie Amazon di supereroi, racconta le vite di un gruppo di giovani ragazzi di provincia che si trasferiscono a Londra: Ritchie (Olly Alexander, noto per far parte di una popolare band) ha passato la vita sull'Isola di Wight insieme alla sorella e ai genitori, sognando di fare l’attore; Colin (Callum Scott Howells) è un timidissimo vergine che prende una camera in affitto da solo, prima di incontrare gli altri, e comincia a lavorare in una sartoria dove viene preso sotto l’ala protettrice di Henry (Neil Patrick Harris); Roscoe (Omari Douglas), molto effemminato e sicuro della propria identità, con minigonna e tacchi alti,  scappa dalla famiglia che vuole rimandarlo in Africa e si fa mantenere da un politico che lo tiene come proprio “giocattolo”; Ash (Nathaniel Curtis) si interessa a Ritchie. Completa il quadro di amici Jill (Lydia West) - in giro si legge descritta come eterosessuale, ma in realtà non è specificato, potrebbe anche ben essere asessuale o demisessuale -, che diventa presto un’attivista sull’AIDS, conducendo campagne di raccolta fondi per sensibilizzare e raccogliere fondi per la ricerca e offrendo aiuto concreto ai molti soli, perché abbandonati dalla famiglia o troppo pieni di vergogna per potersi rivolgere a qualcuno. Jill è ispirata a un'amica di Davies (come scrive THR), Jill Nader, che qui interpreta la madre di Jill.

L’ignoranza, la negazione, il tabù, la confusione, la mancanza di informazioni, lo stigma, la vergogna e il disprezzo di sé, la paura, il senso di colpa riguardo a tutto quanto riguardasse HIV e AIDS è stato al centro di tanti passaggi memorabili e toccanti, illuminanti. Quando Ritchie si traferisce, sul traghetto il padre Clive (Shaun Dooley) gli passa una scatola di preservativi perché ritiene che nel nuovo ambiente gli serviranno: non sa che è gay, glieli dà a fini anticoncezionali. La trasmissibilità sessuale di malattie è talmente fuori da quello a cui il ragazzo pensa che li getta in mare, pensando di non averne bisogno. Jill prega l’amico Colin di procurarsi tutti i giornali e i libri possibili sull’argomento una volta che va per lavoro a New York, perché lei non riesce a trovare nulla, perfino il medico la liquida irritato dicendo che lui non ne sa molto e che tanto a lei non può interessare. Tutti si controllano e disinfettano tutto in maniera ossessiva (e a me non possono che venire in mente i racconti in questo senso di amici che questo lo hanno vissuto sulla propria pelle). Uno degli aspetti che ho amato di più è stato vedere all’inizio come le notizie di questa nuova “peste” fossero nell’aria, in modo obliquo: è la conversazione di due persone che ti sono sedute vicine e che tu nemmeno ascolti perché stai pensando ad altro, ma che cominciano così a insinuarsi nella coscienza collettiva – questo è straordinario della scrittura di Davies, che ha dato voce a dei personaggi basandosi sui propri ricordi, all’epoca studente a Manchester (dove sono state fatte molte delle riprese).

Un aspetto che non avrei notato da sola in questi termini, ma che mi è stato fatto notare dalle parole dell’autore stesso in un’intervista a TV’s Top5 (Ep. 109 – 26 febbraio 2021), è come si sia voluto mostrare (in particolare con l’episodio 4) come la maggior parte della gente non sia attivista. Gli storici guardano a quello che gli attivisti hanno ottenuto perché quello che fanno nella loro battaglia è documentano, mentre naturalmente non viene registrato quello che non viene fatto. La maggior parte della gente però non è attivista, vive la propria vita e basta, e questa esistenza delle persone ordinarie è quella che lui ha voluto mettere in scena e celebrare. È molto vero e significativo.  Contemporaneamente, io come malata di MECFS e come attivista di una patologia trascurata in cui regnano altrettanta ignoranza, confusione, mancanza di informazione, stigma, incomprensione e vite perdute (anche se solo di rado in termini di effettiva morte) non posso che guardarlo anche in questa prospettiva – anche perché è scoppiata negli stessi anni – e vedere la differenza delle azioni per far riconoscere la verità di una realtà, rammaricarmi del tempo perduto e auspicare che ci sia altrettanto margine per riconoscere la sofferenza di questa situazione e agire per cambiare le cose. Bene nella storia si mescolano la consapevolezza del fatto che costituisce una condanna e disperazione per la ricerca della cura – Ritchie che beve la propria urina è il frammento di un istante, ma ben incapsula l’angoscioso tentativo di cercare una via d’uscita che ancora non c’è.

Adoro Russell T. Davies. Ho scritto saggi sui suoi lavori (guadate sotto “leggimi”) e ho apprezzato anche testi minori (penso a Bob & Rose). È importante nella mia formazione umana e trovo che abbia sempre qualcosa di nuovo da dirmi. Anche qui ha sparso qualche pepita inaspettata. Credo che sia una delle pochissime volte in cui ho visto lo spettro dell’incombente molestia sessuale di un uomo gay su un altro uomo gay, come accade a Colin quando lavora da Savile Row. È stato molto Stuart Allan Jones (lo storico personaggio di Queer As Folk) la reazione di Roscoe all’uomo con cui andava a letto, che lo ha pesantemente insultato. Sono sempre stupita di come riesca ad essere empowering di fronte alle più odiose e umilianti delle situazioni. 

Ho amato moltissimo tutto il discorso trasversale sul non vedere, non sapere, o meglio nel non voler vedere e non voler sapere - è il nerbo dell’intento etico di Davies: che esca dalla bocca di Ash (ep. 4) che racconta la filippica a chi gli ha chiesto di epurare i testi omosessuali dalla biblioteca, che ha pensato ma di fatto non ha mai pronunciato; o che esca dalle rimostranze rivolte a Valerie (Keeley Hawes), la madre di Ritchie, che viene accusata da Jill e dalla madre di un altro paziente per non aver visto perché non voleva. Quella è stata la vera condanna di molti malati di AIDS.             

"C'è un'autentica energia queer che emerge da questo show. È negli spazi liminali […]. È molto tangibile. E ne sono immensamente orgoglioso". Dice Davies (THR). Ha ragione di esserlo. La scoppiettante colonna sonora pure è piena di verve, impeccabile fino al brano di chiusura dei REM.

Chiudo con una citazione che solo chi ha visto il programma (Channel4) capirà, ma che credo riempirà loro il cuore di una gran gioia, insieme ai ricordi di una visione ricca di commozione: “La!”

venerdì 13 novembre 2020

NORMAL PEOPLE: ut pictura poësis

 

Mi sento di dire “ut pictura poësis”, citando Quinto Orazio Flacco, quando si tratta di Normal People - Persone Normali (BBC3 e Hulu): come nella pittura, così nella poesia e viceversa, o nel nostro caso, come nel romanzo così nella miniserie. L’autrice Sally Rooney, che ha adattato il proprio libro per la televisione insieme ad Alice Birch e Mark O’Rowe ha dichiarato: “La storia e i personaggi sono rimasti intatti, ma il nostro modo di drammatizzare il loro rapporto è cambiato, e abbiamo dovuto prendere decisioni su come cambiarlo. Non per incasinare gli aspetti fondamentali del libro, ma per preservarli. Se cerchiamo di attenerci troppo al libro, ci ritroviamo con qualcosa che non preserva l'essenza della storia” (cfr. l’intervista su THR). Ho letto il libro, e purtroppo lo ricordo poco nonostante sia stata una delle mie letture preferite nel 2019 (è uscito nel 2018), ma la serie me ne ha fatto appassionare di nuovo e l’ho amata altrettanto, trovandola fedele nell’essenza al ricordo che ne avevo. Slate segnala le differenze fra la versione cartacea e quella video: non molte.  

La complessa relazione fra Marianne (Daisy Edgar-Jones) e Connell (Paul Mescal) è al centro di tutto. Si conosco al liceo nella contea di Slingo, in Irlanda: lei vive con la madre Denise (Aislín McGuckin), anaffettiva e fredda, e il fratello Alan (Frank Blake), invidioso e abusante, alienata dai compagni di scuola che la esludono e bullizzano e che lei tratta con sufficienza;  lui, laconico e dolce,  abita con la madre single, Lorraine (Srah Greene) che fa le pulizie nella ricca casa di lei; in seguito continuano a frequentarsi all’università Trinity College di Dublino, dove entrambi eccellono negli studi e hanno le proprie cerchie. Hanno una relazione, inizialmente segreta, a intermittenza. Il loro è un rapporto di sesso, di amore, di amicizia, di intimità, di affinità intellettuali, di conversazioni, di incomprensioni, di reciproco saziarsi l’uno dell’altra e completarsi e di comprendesi in profondità contemporaneamente nell’incapacità talvolta di farlo nel modo più basico ed elementare. Due anime diversamente tormentate, specie quella di lei che si sente perennemente non amata, non voluta e inadeguata, con impulsi masochistici, ma anche quella di lui, che non riesce a dimostrare quello che prova o che pensa e si nasconde perché si vergogna dell’opinione che gli altri hanno di lei pur non condividendola. Entrambi sono molto vulnerabili al di là dell’apparenza coriacea.

La resa televisiva è stata superlativa, nella messa in scena, nella sceneggiatura, nella recitazione spettacolosa da parte di tutti, riservata e coinvolta insieme, nei silenzi e nelle conversazioni anche apparentemente casuali, misurate, nel detto come nel non detto, nelle romantiche, spinte ma appropriatissime scene di sesso – raramente ho visto sullo schermo rapporti sessuali che sapessero così bene esprimere come al di là del piacere siano in grado di costruire un rapporto, dove l’intimità non è dovuta alla nudità frontale, ripetutamente mostrata, o nell’agio di abbandonarsi l’uno all’altra, ma è proprio sul piano fisico l’espressione del reciproco bisogno e appagamento e l’incarnazione del rapporto spirituale. E non sono certo la prima a lodare il modo in cui hanno reso integrante e naturale il loro modo di confermarsi il consenso reciproco. Sul set hanno anche utilizzato una “coordinatrice di intimità”, Ita O’Brien, che  nel suo lavoro si fa guidare da tre principi, “comunicazione aperta e trasparenza, accordo e consenso nel tatto e coreografia chiara” (Los Angeles Times) e lei stessa dichiara come “quelle scene descrivono la delicatezza, la bellezza, l'apertura” del rapporto. La stessa Rooney ha paragonato le scene di sesso a un’altra forma di dialogo. (The Guardian)

Due altri aspetti emergono in modo mirabile: l’evoluzione della loro storia e conoscenza, con il maturare anche in semplici termini di età, e le difficoltà comunicative che possono portare a rovinosi fraintendimenti anche fra persone che apparentemente tengono molto l’uno all’altra e che sono intelligenti e colte e hanno presumibilmente la capacità di esprimersi. Quello che per uno è auto evidente, per l’altro non lo è affatto.  

Il tono melanconico, quieto ed elegante della regia – di Lenny Abrahamson (Room) nella prima parte, di Hettie MacDonald nella seconda ha reso tutto alla perfezione, compresa la gestione fra i momenti privati e quelli pubblici, fra la loro storia d’amore e il loro vivere pubblico, e nei loro momenti separati.

Lirico. Sublime. Assolutamente impeccabile. In 12 episodi, per me è il programma migliore dell’anno.

lunedì 27 luglio 2020

MRS. AMERICA: ratifica dell'ERA - la seconda ondata femminista e l'opposizione



Se descrivo Mrs America (sull’americana Hulu) come il corso di storia, di scienze politiche, di femminismo, di attivismo e di narrativa biografica che ritengo che sia, lo faccio sembrare un polpettone lagnoso e quello, al contrario, non ritengo lo sia: è una sagace, appassionante battaglia per i diritti delle donne, e con una prospettiva inaspettata che dà peso e rilievo anche a chi quella lotta l’ha combattuta e persa. Si rimane con il fiato sospeso, anche se si sa già come va a finire. E i parallelismi con la contemporaneità rendono tutto ancora più pregnante. Quali di quelle conversazioni sono conversazioni che facciamo tutt’ora? La reazione alla finzione della narrativa possiamo anche intenderla come un potenziale test di Rorschach sulla propria posizione rispetto alle questioni trattate.  

Siamo negli USA, negli anni ’70 (si procede cronologicamente a partire dal ’71). I grandi nomi della seconda ondata femminista Gloria Steinem (Rose Byrne, Damages), Betty Friedan (Tracey Ullman, The Tracey Ullman Show), Bella Abzug (Margo Martindale, The Americans, The Good Wife), Shirley Chisholm (Uzo Aduba, Orange is the New Black), Jill Ruckelshaus (Elizabeth Banks)    si stanno battendo per far ratificare da tutti gli Stati americani, perché sia considerato costituzionale, l’ERA, ovvero l’Equal Rights Emendment, l’emendamento sulla parità dei diritti, approvato da entrambi i rami del Congresso in modo bipartisan e perfino sostenuto dal presidente repubblicano, ma osteggiato da chi sente minacciata la famiglia americana tradizionale, capitanato dalla reazionaria Phyllis Schlafly (Cate Balchet) che ha fondato l’Eagle Forum, un gruppo conservatore, sostenuta a denti stretti dal marito Fred (John Slattery, che dopo Homefront e Mad Men si sta facendo tutte le decadi) e contornata da altre donne che ne condividono i principi, come Alice Maccray (Sara Paulson, American Horror Story) e Rosemary Thomson (Melanie Lynskey).

Le puntate si aprono con il disclaimer che si tratta di eventi realmente accaduti, ma con un margine di invenzione, se non altro rispetto alle conversazioni a porte chiuse. La creazione di Dahvi Waller è particolarmente interessate nel taglio proprio perché, pur dedicando ogni puntata a una icona del movimento per i diritti delle donne, per terminare poi con una visione corale, sceglie di guardare molto a chi si è battuto intensamente contro, mostrando intanto anche le ragioni, non sempre retrograde e ottuse, di queste persone: casalinghe con poca esperienza fuori dall’ambiente domestico si sentivano minacciate e in fondo giudicate come poco importanti da parte di donne agguerrite che cercavano un proprio ruolo fuori dalle mura domestiche, ridicolizzate per essere orgogliose del loro ruolo di casalinghe, quando altrettanto legittima doveva essere giudicata la loro aspirazione di realizzarsi come madri e mogli. Si mostrano attivamente le donne come ultimo baluardo del patriarcato: hanno paura di perdere l’amore e la protezione dell’uomo e si fa vedere come siano state sfruttate le loro paure, ritraendole con un misto di ingenuità e di finto perbenismo (condiscendenza? Non mi pare), ma illustrando come nella concretezza quello che facevano non era lavoro casalingo, ma in tutto e per tutto quello che facevano le femministe a loro opposte: il contenuto era in senso inverso, ma il tipo di impegno era lo stesso.

Bella Abzug lo dice chiaro e tondo a tre di loro (fa cui Alice e Rosemary). Parlando di Phylis Schlafly, la dichiara come una femminista a tutti gli effetti, anzi come forse la donna “più liberata” d’America. Vogliono stare a casa con i propri figli, non essere donne che lavorano, dichiarano. E lei le incalza con una serie di domande su quello che dicono di aver imparato da lei, conoscendo bene la risposta: vi ha insegnato come fare lobbismo sui legislatori? Vi ha insegnato come stendere un comunicato stampa? Come rispondere alle domande dei giornalisti, come procurarsi le interviste televisive? Come preparare e far quadrare un bilancio? Ovviamente sì. Per cui può solo commentare: “Congratulazioni, siete donne che lavorano” (1.07).

Il femminismo non è evidentemente una cosa unica, e l’autrice riesce a mostrare questo aspetto, e a far emergere questioni cruciali trasversali (aborto, lavoro), ma anche ben a mostrare esigenze variegate (le nere, le lesbiche), come si sia cercato il compromesso e come nella negoziazione certi interessi, tutti riconosciuti importanti e validi nella ricerca di giustizia e uguaglianza, alcuni siano stati sacrificati o abbiano rischiato di esserlo a favore di altri per paura di perdere tutto. Ci sono molti punti di vista, e la serie cerca di mantenerli. Era un movimento magari caotico, ma idealmente inclusivo, se non consapevolmente ancora intersezionale, e con molti obiettivi. Di contrasto gli oppositori ne avevo uno e uno solo: fermare le femministe.

C’è chi si è risentito di una visione forse troppo generosa nei confronti della Schlafly, che sarebbe stata dipinta come un’antieroina. In realtà l’autrice non le fa sconti. Non ci si fa scrupoli nel ritrarla come una persona che sì è una brillante organizzatrice, ma è una donna assetata di potere, manipolatrice e ipocrita – che non riconosce che, se riesce a portare avanti la battaglia che le sta a cuore è anche perché ha l’aiuto della cognata Eleanor: Jeanne Tripplehorn (Big Love) ha saputo molto espressivamente mostrare l’amarezza e la delusione di sentirsi disprezzata e ignorata pubblicamente, alla prova dei fatti, quando privatamente le si faceva credere il contrario. Si allude più volte all’uso strumentale da parte della Schlafly di estremismi e fanatismi (l’appoggio del Klu Klux Klan, ad esempio), delle fake news e della volontaria distorsione delle informazioni a proprio vantaggio. Il rancore, il risentimento e la rabbia schiumavano cristalline nella recitazione di una fulgida Cate Blanchett, e non sono passate nemmeno inosservate per Alice, che la Paulson ha reso un personaggio molto acuto, rendendo più che credibile il suo cambiamento di posizione, pur nel non rinnegare il proprio percorso. Insieme a quella della Martingale, queste sono state le interpretazioni più riuscite, in un cast in cui scegliere la migliore è veramente volersi fare del male.  

La Waller (si ascolti l’intervista per TV Top 5: qui) riconosce che il punto di vista privilegiato della Schlafly è stato scelto per riconoscerne l’appeal nella consapevolezza che ad ogni rivoluzione fa da contrappeso una controrivoluzione per cui è necessario capirla per sapersene difendere, per evitare di essere compiacenti. C’è sempre  il rischio di tornare indietro rispetto ai progressi fatti. 

Molta della riflessione si concentra proprio sulle dinamiche di potere, sulle strategie politiche e comunicative, sulle modalità per vincere - ad esempio si dice che le persone a cui si presta attenzione sono quelle che vincono, quindi può essere rilevante a chi viene riservata attenzione; si riflette sull’importanza della presenza fisica, sul potere dell’impatto emozionale… - , sulla retorica, sui concetti che fanno parte del DNA culturale di un’epoca e non necessariamente sono sempre esplicitati, ma sono comunque “nell’aria”. È un testo denso proprio perché si fa carico delle filosofie che lo animano.

La palette di colori usati richiama quelle dell’epoca, e alla mente affiorano programmi come Good Girls Revolt (che tratta tematiche affini) o Swingtown (che tratta tematiche differenti, ma è ambientato nella stessa epoca – nel caso si legga un mio saggio in proposito qui). La sigla, che meriterebbe un pezzo a sé, usa come musica “A Fifth of Beethoven” di Walter Murphy, un pezzo strumentale disco-funk che adattava il primo movimento della quinta sinfonia di Beethoven, uscito in origine nel 1976. So per certo che questa stessa musica è stata usata in passato (forse proprio negli anni ’70) da un altro telefilm, ma nonostante mi sia scervellata non poco per cercare di ricordarlo o recuperare quale fosse ne sono uscita a mani vuote. Anzi, se qualcuno lo ricorda e me lo segnala mi fa un piacere.

Mrs America è stata concepita come una miniserie, ma non si esclude un approccio antologico, con nuove stagioni. Da parte mia sarebbero benvenute.